Speciale - Gianfranco Miglio
Ciao Prof., di Roberto Enrico Paolini
Disobbedire ai tiranni è obbedienza a Dio. Il diritto di resistenza in Gianfranco Miglio, di Carlo Stagnaro
L'eredità di Gianfranco Miglio, di Alessandro Vitale
Indagine su Gianfranco Miglio, di Carlo Lottieri
Presentazione dello speciale dei "Quaderni Padani" dedicato al prof., di Carlo Stagnaro
Il tredicenne alla corte di Merlino, di Alberto Mingardi
Il fantasma scomodo di Miglio, di Alberto Mingardi
Gianfranco Miglio, un gigante del pensiero politico, di Carlo Stagnaro
Un genio, due compari e un pollo, di Carlo Stagnaro
Gianfranco Miglio, il professore rimasto fuori dal coro, di Leonardo Facco
Omaggio a Gianfranco Miglio, di Alessandro Campi
Gianfranco Miglio, uomo libero e scomodo, di Elena Percivaldi
Intervista al prof. dopo che Bossi fa affondare il governo Berlusconi.
Intervista risalente al momento in cui Bossi chiede la Secessione della Padania
Intervista al prof. Urbani sul suo collega
di Roberto Enrico Paolini
Siamo in lutto: Il Professore, Il Padre del federalismo nostrano, ci ha lasciato; se ne è andato uno di noi, un signore che si vantava di contare le galline in tedesco, l'unico che ha osato, nel lontano 1994, mandare a quel paese in diretta Maurizio Costanzo, contrapponendo alla sua etica dell'otium, quella del più "padano" negotium; l'unico accademico che non si vergognava dei suoi pellegrinaggi sul pratone di Pontida - prima della sua scomunica - quando leghisti faceva rima con appestati. Intellettuale non organico a nessun potere e partito (è vero, è stato senatore per la Lega Nord prima e per Forza Italia poi, ma sempre come indipendente, marcando così la sua "secessione individuale"), ha dedicato la sua vita a studiare il modo di far funzionare questa Italia, nonostante la sentisse così lontana, "levantina" la definiva. Lui, che da ordinario di diritto costituzionale alla Cattolica, ha presieduto tutte le sessioni di laurea (chi altro può vantare un simile primato?), è stato un esempio di integrità morale per tutti noi; per non parlare poi della sua onestà intellettuale: testardo e combattivo non sopportava le alchimie della sinistra che, tra i suoi sport preferiti, usa ancora giocare con le parole al fine di vendere agli ignari cittadini surrogati di riforme istituzionali scopiazzate dai bigini per ragazzi. Quando, nel "68, quelli che oggi occupano le redazioni dei giornali e siedono in parlamento (anche tra i banchi della destra!), ancora studenti, tra una molotov e l'altra chiedevano il voto politico, la promozione facile, l'ingresso nei consigli accademici, lui, era per la linea dura: ebbe il coraggio di rivendicare il diritto di espellerli dall'università. Professore, ci hai lasciato proprio adesso, adesso che più di prima serviva la tua preziosa collaborazione. In punta di piedi, in una chiesa quasi deserta, tra l'indifferenza dei media - ancor peggio di alcuni politici (un verme di nome Bossi, per fare qualche nome) che tanto della loro carriera ti devono - sei volato via. D'altronde, questo è il paese di Montanelli. Così, tu, da straniero in terra straniera, te ne sei andato...ciao, prof.!
Presentazione dello speciale dei "Quaderni Padani" dedicato al prof.
di Carlo Stagnaro
L’idea di realizzare un numero dei Quaderni Padani dedicato a Gianfranco Miglio risale a molto tempo fa. Era da poco trascorso il Natale dell’anno 2000 quando Gilberto Oneto mi propose l’incarico. Non nascondo, e non nascosi allora, che l’idea mi apparve “bella e terribile”: l’opera era meritoria, ma anche rischiosa. Non nego neppure di aver provato e di provare tuttora un senso di affettuosa soggezione quando scrivo o parlo di questo straordinario protagonista della cultura contemporanea.
In ogni caso, curare tale pubblicazione era tutt’altro che semplice e, con questa consapevolezza, accettai l’onore e l’onere di farlo. Grande era il lavoro da svolgere e grande l’impegno richiesto. Il risultato, inoltre, doveva essere almeno tale da riuscire a comunicare l’importanza, nella storia del pensiero politico come nei sommovimenti culturali che hanno recentemente scosso le nostre regioni, della persona a cui è ispirato e dovuto.
Lo scopo dell’iniziativa era duplice. Da un lato, era necessario mettere a disposizione del pubblico uno strumento volto a comprendere l’uomo – Gianfranco Miglio – e le sue intuizioni politiche e scientifiche. In un momento come l’attuale, caratterizzato da un forte dibattito intorno alla necessità di riformare radicalmente (ma sarebbe meglio dire: disgregare e ricomporre in nuove forme) le nostre istituzioni pubbliche, era inimmaginabile che la voce del “Vecchio professore” fosse assente a causa del suo precario stato di salute. Secondariamente, si voleva in qualche maniera ringraziare lo studioso lombardo per l’immenso peso che le sue spalle avevano dovuto reggere – tutti, in qualche maniera, gli siamo debitori. E’ esclusivamente merito della cocciutaggine e della viva intelligenza di Miglio, infatti, se oggi si parla di federalismo, e se tale teoria è emersa dal buio dell’ignoranza per entrare nel gergo comune e nelle richieste pressanti dei cittadini.
Il
10 agosto 2001, però, tutto è cambiato. La scomparsa del professore
muta interamente il senso di questa pubblicazione. Non si tratta più di un
regalo o una dimostrazione di stima e di gratitudine, bensì di un tributo alla
memoria e di un omaggio alla
grandezza di una persona che ci ha lasciati. E che va riconosciuta per quello
che è. Gianfranco Miglio non è stato solo un professore, un politico, un
comunicatore. E’ stato uno studioso di genio: e come tale è giusto che sia
consacrato alla storia, nonostante la sua statura sia stata in passato talora
implicitamente ammessa, più spesso negata
dai mezzi di comunicazione.
Nell’ambito di questa breve premessa, voglio ricordare solo un lato del carattere del professore. Un aspetto che viene per sua natura poco notato, e che merita invece di essere messo in ampia evidenza. Nel suo ultimo libro, L’asino di Buridano, in riferimento alla propria presa di posizione a favore del sistema elettorale maggioritario nel 1993, egli scrive: “Mi sbagliavo”.
Non è certo quella l’unica occasione in cui il politologo comasco ha ammesso i propri errori, o ha trovato nei propri scritti del passato elementi che egli sentiva l’esigenza di rivedere e correggere. Il fatto però che un uomo di tale grandezza abbia avuto il coraggio di riconoscere quella che in fondo è la propria umanità, e di farlo pubblicamente, è segno evidente della sua limpidezza. Sfido chiunque a trovare altri studiosi del suo calibro che siano stati pronti a comportarsi alla stessa maniera.
Gianfranco
Miglio una volta affermò: “Se la mia vita ha avuto uno scopo non era certo di
avere un posto nella storia d’Italia. Semmai nella storia del pensiero
politico”. Entrambi gli auspici, e il volume che avete tra le mani ne dà
atto, si sono rilevati veritieri. D’altra parte, come ebbe a dire Johan
Wolfgang Goethe, “soltanto chi non ha bisogno né di comandare né di ubbidire
è davvero grande”. Se c’è una cosa evidente nella storia di Gianfranco
Miglio, è che questi non ha mai indossato alcuna uniforme: né da generale, né
da soldato.
Per
la medesima ragione, chi gli è stato vicino o ne ha letto e apprezzato gli
scritti non può essere considerato un suo “seguace”. Semmai, un amico o un
estimatore. Questo numero dei Quaderni
Padani è stato realizzato da costoro per i loro simili; da uomini liberi
per altri uomini liberi. Con la speranza che nessuno che non appartenga a tale
categoria allunghi mai le mani sulla memoria del Vecchio Professore, che invece
costituisce un’eredità irrinunciabile per tutti noi.
Ogni sillaba, ogni articolo,
ogni scritto antologizzato oggi, dopo la sua scomparsa, ha un peso differente:
pur tenendo presente, è bene precisarlo ancora una volta, che
parte di quanto qui pubblicato risale a prima che egli ci lasciasse. In
questo senso, è stato anche particolarmente arduo effettuare la scelta dei
testi autografi. La regola di
condotta è stata quella di presentare al lettore un Miglio nascosto, poco
accessibile, ma ugualmente radicale e lucido nella
evoluzione del suo pensiero.
Prima
di cedere il passo alla lettura dei contributi presentati da alcuni fra i
maggiori studiosi del pensiero migliano, voglio ringraziare Gilberto Oneto e
Alessandro Vitale, che sono stati insieme a me gli autori della cernita, oltre
che i due veri artefici di questo lavoro, nel quale io ho svolto i compiti del
“manovale”. Ringrazio vivamente anche gli autori che con disponibilità ed
entusiasmo hanno risposto alla mia “chiamata”, e gli amici che mi sono stati
vicini e mi hanno aiutato: Antonella Carnelli, Marco Bassani, Cesare Galli,
Pierluigi Mennitti, Alberto Mingardi e Robi Ronza. Resta inteso che, mentre gli
onori sono equamente ripartiti tra tutti coloro che hanno collaborato alla
realizzazione di questo numero speciale dei Quaderni
Padani, eventuali imperfezioni o errori sono unicamente responsabilità del
suo curatore.
Il tredicenne alla corte di Merlino
di Alberto Mingardi
Ieri mattina mi sono alzato, mi sono rimpinzato col mio american-breakfast, e al trotto ad accendere il computer. Il bicchiere in una mano, uno snack nell’altra, c’era il sole. Poi ho aperto la posta elettronica, basta un clic per rovinarti la giornata. Ci trovo un messaggio di Renato Farina: e’ morto Gianfranco Miglio, vuoi scrivere qualcosa?
Credetemi. Questo e’ un articolo che non avrei mai voluto scrivere, l’idea stessa che venga pubblicato mi urta, incrocio le dita, magari si perde in redazione, magari le rotative s’inceppano… Se non e’ scritto, e’ come se non fosse mai successo.
Di Gianfranco Miglio, si possono ricordare tante cose. Anzitutto, e’ stato uno studioso che “restera’”. Si puo’ dire di pochi. E’ stato un incredibile scopritore di talenti, aveva fiuto. Ma non gli e’ bastato per farsi ricordare, quando ancora era vivo: e’ stato dimenticato in modo indegno da quegli stessi partiti politici che lo trascinarono in Senato come un fiore all’occhiello, giusto per lasciarlo “predicare inutilmente”, che pare sia il destino dei grandi, in Italia.
Ma io vorrei ricordare un’altra cosa. Vorrei ricordare cos’e’ stato Miglio per me, e non solo per me, negli anni ruggenti della Lega – quando avevamo una speranza, quando ci sembrava che questo Paese si potesse rompere o cambiare.
Avevo tredici, quattordici anni, la prima volta che andai a sentire Miglio. Gli porsi una copia del suo libro, e letteralmente tremavo, il mio primo incontro con una faccia nota, lui lo autografo’, ci mise la data, e provo’ a intavolare una mezza conversazione con me, che mi limitavo ad annuire in un improvviso attacco di balbuzie.
La stessa esperienza l’hanno avuta altre persone che conosco. Il profesur era tutto fuorche’ professorale. Amichevole, umano, di una cortesia imbarazzante – il contrario della sua immagine pubblica. “Nosferatu”, Lucifero, il mago Merlino, eccetera. E lui se la rideva.
Coltivava il politicamente scorretto con passione rara.
In una conferenza a Firenze disse che “arrivo in Toscana e sento odore di cous-cous”, non si faceva scrupolo a chiamare I terroni col loro nome (appunto: terroni), e non per cattiveria, ma con naturalezza, come facciamo noi lombardi. Lombardo – non padano, non italiano, questo era Miglio.
C’e’ un altra cosa che mi piace sottolineare. Tutti scriveranno di lui come cultore di Carl Schmitt, come esponente del “realismo politico”. Verissimo, lo e’ stato. Ma nell’ultimo Miglio il realismo ha perso quella patina di giustificazione dello status-quo e della crudelta’ del governo, per assumere una nuova dimensione. Libertaria, anarchicheggiante: lo ammette lui stesso, in un’aurea pagina di “Federalismo e secessione”, dialogo con Augusto Barbera che si trova in libreria per Mondadori.
Miglio non solo ammette il diritto di secessione, ma ne rivendica la giustizia intrinseca. Denuncia le ruberie dello Stato, e sogna un nuovo ordine politica basato su rapporti volontari, consensuali. Liberi. Fatto di tante piccole comunita’, di tanto Paesi federali, che ci riporti a prima dello Stato nazionale. “L’altra meta’ del cielo”: guardiamo, diceva, a quei Paesi in cui la storia ha preso una piega diversa. E pensava alla Lega anseatica e alla Confederazione Elvetica – due ordini policentrici, federalisti, liberali.
Non e’ un caso se per avere Henry David Thoreau riammesso nell’Olimpo dei grandi della storia, in Italia c’e’ voluto Miglio. Che curo’ e diede alle stampe la sua “Disobbedienza civile”. E’ un libro da tenere sempre sul comodino. Thoreau dice di condividere l’affermazione di Thomas Jefferson che “il governo che governa meglio e’ quello che governa meno”. Pero’ aggiunge, in verita’ in verita’ vi dico che “il governo che governa meglio e’ quello che non governa affatto”.
Credo che Miglio, una frase del genere, avrebbe voluto averla scritta lui. Questo spiega due cose: perche’e’stato cosi' importante per me, e per tanti altri come me. E perche’ I suoi “amici” in politica, del Miglio vero, coltivino un’amnesia interessata.
di Alberto Mingardi
In
un Paese come il nostro, dove solitamente basta morire per guadagnarsi una
beatificazione posticcia e frettolosa, di che pasta fosse Gianfranco Miglio s’è
visto anche nel momento della sua scomparsa. Se n’è andato in punta di piedi,
nel dolore di tutti quelli che lo stimavano, lo conoscevano, lo amavano. Un
dolore silenzioso. I grandi media hanno snobbato la notizia, riducendola
tutt’al più a un canovaccio politico, a un frullato di dichiarazioni.
Per
Indro Montanelli
si sono versati fiumi d’inchiostro, si sono scritte pagine e pagine e
pagine, ne verrebbe fuori un libro quasi (un bel catalogo di giravolte e
ipocrisie). Non oso immaginare cosa succederà quando a lasciarci sarà Norberto
Bobbio, uno che hanno trasformato in statua equestre già da vivo. Persino Maria
Grazia Cutuli, bravissima cronista e martire dell’informazione, da Carneade di
lusso è diventata la nostra Madre Teresa.
Scusate
se possono sembrare parole dure, siamo tutti addolorati quando qualcuno muore,
ma questo allungare le mani sui cadaveri, questo arruolarli quando non possono
più disertare, questo intitolargli piazze, vie, ponti per il solo titolo di
essersi tolti di torno, è un malcostume tutto italiano.
Ecco,
dice qualcosa il fatto che per Gianfranco Miglio non sia accaduto nulla di tutto
ciò. Solo due quotidiani nazionali ne hanno pubblicato un ricordo articolato,
il giorno dopo la sua scomparsa: “Repubblica” e il foglio che avete in mano.
Gli altri si sono limitati a qualche rigo, shakerando le ciacole dei politici.
Per
l’intellighenzia italiana, la scomparsa di Miglio è stata una liberazione.
L’occasione buona non solo per dimenticarlo, ma per rimuoverlo chirurgicamente
dal nostro passato.
La
produzione di Miglio degli anni Novanta, pubblicata per Mondadori, oggi non è
più reperibile: ed è semplicemente uno scandalo che il più grande editore
italiano non ristampi il più grande scienziato della politica che il nostro
Paese abbia mai conosciuto.
Le
grandi riviste, quelle che affastellano interventi pensosi, che vivono di
convegni importanti, che vantano il bollino blu della scientificità accademica,
si sono chiuse in un silenzio ermetico. E’ toccato a tre iniziative corsare
tenere alto il nome del maestro. Mi riferisco a Enclave, il magazine libertario
edito da Leonardo Facco, a Elites, il supplemento di “Fondazione Liberal”
diretto da Mauro Maldonato, e a un corposo volume dei Quaderni Padani, la
rivista di Gilberto Oneto che ha dato vita alla prima vera occasione di
dibattito su Miglio. Il fascicolo, curato da Carlo Stagnaro, contiene
testimonianze prestigiose, e qualche nome meno conosciuto, ma sono questi i più
vicini a Miglio, i suoi allievi accademici e no, quelli che ci regalano la
speranza che non si perda la sua lezione, la certezza che c’è chi la coltiva
ancora con passione.
Oggi
“Libero” pubblica dei passaggi di un documento che, da solo, varrebbe
l’acquisto dei “Quaderni”. E’ la trascrizione, ancora inedita, del
discorso tenuto da Gianfranco Miglio al congresso di Bologna della Lega Nord,
siamo nel 1994, è stato (scriverà poi in “Io, Bossi e la Lega”) “un
discorso d’addio”. Il divorzio dalla Lega è questione di settimane, ma in
realtà il sogno si è spezzato quando Bossi, sul Sole 24 Ore, in un articolo
(scritto per lui da Luigi Rossi, il suo ventriloquo di quei tempi) disse che il
decalogo federalista presentato a Assago era stato soltanto “una
provocazione”.
Fu
una pugnalata, la prima di una lunga serie. Miglio ne soffrì. Un po’ perché,
come mi disse in un’intervista, “quel documento venne buttato giù di corsa
per consentire a Bossi di schivare le conseguenze dell’elargizione da parte
della Montedison, che aveva dato 200 milioni alla Lega”. Come dire io ti salvo
e tu mi tradisci. Un po’ perché, in quello schema c’erano anni di studio,
c’è l’essenza del federalismo.
Citerei
solo l’articolo otto: “Il sistema fiscale finanzia con tributi municipali le
spese dei Municipi medesimi. Il gettito degli altri tributi viene ripartito fra
le Repubbliche Federali in funzione del luogo dove la ricchezza è stata
prodotta o scambiata”. O qualche battuta del nono: “Nei bilanci annuali e
pluriennali dell’Unione delle Repubbliche Federali deve essere stabilito il
limite massimo raggiungibile dalla pressione tributaria e dal ricorso al credito
sotto qualsiasi forma. Le spese dell’Unione, delle Repubbliche Federali, delle
Regioni e degli Enti territoriali minori e di altri soggetti pubblici, non
possono in alcun momento eccedere il 50% del prodotto interno lordo annuale
dell’Unione”.
Eccolo
qui il famoso federalismo fiscale, quello che Umberto Bossi, papale papale, ha
dichiarato “non ce lo danno quindi non lo chiediamo”. E sì che i partiti
oggi al governo dovrebbero avere se non familiarità consuetudine con il
pensiero di Miglio, almeno per le sue orazioni al senato, che erano ogni volta
un compendio di teoria politica. Invece, in questi giorni, abbiamo assistito a
scene indecorose, ministri gelosi del proprio potere che se lo tengono ben
stretto, presidenti regionali costretti a fare a pugni col proprio partito per
costringerlo a mantenere una promessa, sono le doglie di una “devolution” già
abortita.
Tratto da Libero - Opinioni nuove, 9 dicembre 2001
Gianfranco Miglio: un gigante del pensiero politico
di Carlo Stagnaro
E' nel silenzio di tutti che, il 10 agosto 2001, Gianfranco Miglio ci ha abbandonati. Un silenzio spietato, tagliente, interrotto quasi soltanto dagli starnazzamenti di qualche ex amico e dai primi, maldestri tentativi di appropriazione da parte di chi sta a Miglio come Hitler sta al Talmud. Tra i pochi ricordi che gli sono stati dedicati dalla stampa, solo due hanno saputo cogliere la genialità del professore: Marcello Staglieno su "il Nuovo" e Alberto Mingardi su "Libero". Due, due soltanto, in mezzo al maremoto di parole a vanvera che ogni giorno flagella le pagine dei quotidiani. Certamente, Miglio non aveva i requisiti per ottenere tonnellate di "coccodrilli", né per avere l'omaggio dai giornalisti e l'onore delle armi dai nemici politici.
Il professore era antipatico, perché diceva ciò che pensava e faceva quel che diceva. In un certo senso, era un "talebano culturale": non accettava mezze misure, compromessi, giri di parole. Ogni volta che apriva la bocca, lo faceva per demolire i dogmi della modernità e affermare, novello Zarathustra, che sulle macerie del "secolo breve" poteva costruirsi una società più libera e migliore. E ha pagato per questo. Miglio non era uno che piacesse "alla gente che piace". I suoi giudizi netti, le sue idee rivoluzionarie, la lucidità del suo pensiero hanno sempre dato fastidio. Vale la pena dunque ricordarlo per questo, in maniera tale che la sua memoria resti sempre legato alla sua limpidezza, e la sua eredità culturale non possa essere razziata dai saccheggiatori di tombe in una delle loro scorrerie ideologiche.
Al centro del pensiero migliano è la consapevolezza che "l'epoca della statualità" è finita. Interprete del realismo politico di Carl Schmitt e allievo di Alessandro Passerin D'Entreves, Miglio sosteneva la possibilità di assestare il colpo decisivo allo "jus publicum europaeum" attraverso la dissoluzione delle forme che avevano caratterizzato lo Stato moderno. Il superamento dei rapporti basati sull'obbligazione politica (che erano stati capaci di generare i mostri sanguinari del Ventesimo secolo) poteva avvenire solo attraverso l'accettazione di istituzioni pattizie, tali da legare le comunità secondo formule analoghe a quelle del contratto privato. Per esempio, tali vincoli non potevano essere eterni, ma dovevano rimanere legati alla generazione che li aveva stretti: da qui, la proposta di una Costituzione a termine, che durasse un trentennio.
E' nell'ambito di questa riflessione che il neofederalismo migliano emerge con prepotenza e assume una statura tale da garantirgli visibilità e fama a livello mondiale. Di fronte al "vecchio professore", notava Giuseppe Motta su "Enclave", "su molti temi e problemi chiave della politologia moderna, non solo Giovanni Sartori e Norberto Bobbio - gli italiani più noti - ma anche scienziati della politica americani letteralmente impallidiscono". E, a ben guardare, le ragioni della sua emarginazione sono tutte lì: Miglio da un lato aveva messo in dubbio la religione laica e il suo dio (lo Stato), dall'altro minacciava di oscurarne e sconfiggerne gli apostoli e i profeti con le armi della dialettica e della ragione. Non deve allora stupire che, poco prima di abbandonarci, Miglio abbia affermato: "Giunto alla fine della mia carriera sono diventato libertario". L'adesione all'"estremismo liberale" affonda le proprie radici nel passato e nell'onestà intellettuale che ha sempre contraddistinto il professore. Se proprio bisogna trovare un "momento della svolta", però, questo va situato nel 1993: anno in cui viene dato alle stampe "Disobbedienza civile", che affianca un saggio del grande pensatore comasco all'omonimo scritto di Henry David Thoreau.
In tale libro, Miglio critica fortemente le fondamenta stessa dello Stato moderno - il meccanismo democratico, il potere delle maggioranze, la facoltà di tassare,… - e giunge a sostenere che il regime cui i cittadini italiani sono sottoposti è talmente asfissiante da giustificare l'insorgere del "diritto a resistere". (In particolare, il professore si riferiva all'istituzione dell'ISI, ora ICI, e ne contestava la legittimità). Da lì alla difesa della secessione, il passo fu breve: anche perché il professore aveva sempre sostenuto la necessità per le regioni del Nord di aggregarsi in un'unica "macroregione" o cantone padano.
Pur ignorato dai grandi media, Miglio ha un posto nel cuore e nel ricordo di molti, che non negano il proprio debito intellettuale, culturale e morale nei confronti della sua opera. Questa è la ragione per cui La Libera Compagnia Padana, associazione culturale di cui il professore fu membro fin dalla nascita nel 1995, gli dedicherà un numero speciale dei "Quaderni Padani": che ospiterà contributi dei più competenti studiosi del pensiero migliano, da Alessandro Vitale a Carlo Lottieri, da Rocco Ronza a Marcello Staglieno, da Antonio Cardellicchio a Gilberto Oneto, direttore della rivista. In realtà, va detto che l'iniziativa era già stata programmata da tempo, ma oggi assume un significato e un senso nuovi e diversi.
Scopo della pubblicazione è collocare Gianfranco Miglio nella giusta ottica, e riconoscerne la grandezza. I pochi che hanno riferito della sua morte ne hanno parlato soprattutto come di un politico. Checché se ne pensi, non lo era: al contrario, è stato strenuo avversario della politica, la quale - parole sue - "è fatta completamente di cose inventate: anche il concetto di interesse è un'invenzione". Quello a cui bisogna rendere onore è il maestro, il pensatore, lo studioso appassionato. Che ci ha lasciato anche una sorta di testamento intellettuale: "Se la mia vita ha avuto uno scopo - ha affermato - non era certo di avere un posto nella storia d'Italia. Semmai nella storia del pensiero politico". E' andata proprio così, professore.
tratto da Ideazione.com
Un
genio, due compari e un pollo
di Carlo
Stagnaro
Hanno ucciso un uomo morto. Le reazioni alla dipartita di Gianfranco Miglio sono state poche e rade. E forse sarebbe stato meglio che non ve ne fosse stata alcuna: così, almeno, vorrebbe l’antico principio secondo cui è sempre meglio tacere dando l’impressione di essere stupidi (o meschini) che parlare togliendo ogni dubbio.
Certo, un pensiero, un saluto da coloro che gli erano stati più vicini era fortemente atteso. Era necessario, si potrebbe dire. Così, è con particolare attenzione e, devo dire, con un pizzico di speranza che ho cercato le dichiarazioni degli esponenti della Lega Nord. In passato lo avevano criticato, anche duramente; il capoccia lo aveva poco prosaicamente definito “una scoreggia nello spazio”. Ma il rapporto tra Miglio e la Lega non è mai cessato: non fosse altro perché, a fronte degli attacchi di una dirigenza ottusa e tronfia della propria crassa ignoranza, l’amore della base per questo grand’uomo non è mai cessato.
Eppure, l’ultima pugnalata alla salma dell’ex ideologo è arrivata proprio dai suoi ex amici. Mario Borghezio, in teoria punto di riferimento dei secessionisti “duri e puri”, presidente del Governo della Padania, europarlamentare, ultrà, chiamatelo come volete: “Oggi, quando finalmente si cominciano a tracciare con la devolution le linee di una trasformazione in senso federale dello Stato, vanno resi i dovuti onori, con un funerale di Stato, all’intellettuale che coraggiosamente osò sostenere per primo questi principi nell’Italia democratica”. Già accomunare il nome di Miglio a quella pappetta riscaldata che è la devolution denuncia una scarsa frequentazione delle sue opere.
Ma i funerali di Stato, quelli no. Chiedere per Miglio funerali di Stato sarebbe come chiedere funerali nazisti per le vittime dell’Olocausto. E’ troppo. Va al di là dell’umana comprensione. Sfugge ai limiti della pietas. Non si può onorare un uomo che ha combattuto l’Italia e lo Stato nazionale sbattendo nella sua tomba l’inno di Mameli e ostentando tricolori. Non si può. Non si può neppure pensarlo.
Eppure, non solo qualcuno – evidentemente – vi ha pensato e ha avuto l’ardire di avanzare l’indecente proposta a mezzo stampa. Vi sono anche persone che hanno preso sul serio Borghezio e hanno fatto propria la richiesta.
Viene allora da chiedersi se mai qualcuno abbia letto i libri, o almeno gli articoli, di Miglio. (Il Ministro della giustizia Roberto Castelli ha affermato di averne tratto “spunti interessanti”: a dimostrazione dell’intenso lavoro che i suoi neuroni svolgono e dell’attenzione – di più: l’impegno – che l’onorevole lariano deve aver dedicato all’approfondimento delle tematiche federaliste).
Tra le dichiarazioni assortite degli ineffabili leghisti, spicca come sempre quella di Umberto Bossi. Il leader della Lega e Ministro delle riforme (il posto che doveva essere di Miglio nel 1994), senza sprezzo alcuno del ridicolo e con evidente tono di sfida nei confronti del buongusto, ha spiegato che la grandezza del professore comasco sta nell’aver saputo rivestire di “forma giuridica” le “mie” intuizioni rivoluzionarie. Come dire: Miglio era un “manovale” delle leggi, un bravo leguleo che ha trovato il modo di dare dignità parlamentare (e sintattica) al Bossi-pensiero. A questo punto, già che ci siamo, potremmo anche dire che Antonio Di Pietro è un maestro dell’arte oratoria e Ludwig van Beethoven come compositore era una pippa.
L’intera vicenda ha tratti surreali, ma ben rivela la levatura morale dell’armata Brancaleone a cui è stato affidato il non facile compito di ridisegnare le istituzioni del paese. Purtroppo, la morte di Gianfranco Miglio è giunta proprio nel momento in cui tutti noi avevamo bisogno della presenza, forte e vigile, del professore. Gli stessi leghisti, in realtà, speravano che egli potesse in qualche maniera svolgere per Bossi il ruolo che Virgilio ebbe per Dante.
Al contrario, il 10 agosto 2001 passerà alla storia come un giorno estremamente triste: non solo per la perdita di un grandissimo interprete della scuola neofederalista, ma anche per la definitiva scomparsa di un punto di riferimento e, si potrebbe dire, dell’uomo che rappresentava un vero e proprio polo del dibattito sul federalismo in Italia. D’altra parte, le parole dei maggiori esponenti leghisti a proposito di Miglio non sono in alcun modo incoraggianti, né lasciano liberi di guardare al futuro col cuore sereno e carico di speranze.
Miglio è stato, al di là di ogni ragionevole dubbio, un genio, e gli anni a venire non mancheranno di evidenziarlo sempre più – piaccia o no a Castelli, Borghezio e Bossi. Il vero dramma è che il federalismo, perso il suo maggiore teorico, è restato nelle mani di due compari e un pollo.
(Tratto da Enclave n. 13)
Gianfranco Miglio, il professore rimasto fuori dal corodi Leonardo Facco*
Il coccodrillo, che per i non addetti ai lavori è un
articolo "piagnisteo" pronto a commemorare il morto autorevole di
turno, non lo si nega a nessuno. Per Indro Montanelli, infatti, i direttori dei
giornali di tutta Italia ne avevano i cassetti delle scrivanie pieni. Già
pronti all'uso. Tanti. Da poter riempire da due a quattro, e più, pagine dei
giornali.
Per il professor Gianfranco Miglio, invece, solo qualche nota d'agenzia (magari
evitando di citare la sua morte in prima pagina) o qualche pezzullo
insignificante scritto da un cronista di seconda o terza fila.
Tutto secondo copione. Mi sarei meravigliato del contrario. In fondo, Indro
Montanelli, rappresentava la "stecca nel coro", ovvero l'italiano per
antonomasia. Quello che nel coro, appunto, ci stava volentieri (da fascista, da
democristiano, da antiberlusconiano, ecc. ecc.) pur sbagliando qualche nota
della partitura. Quello che faceva lo storico (con una sfilza di premi per
contorno), scrivendo i libri "a quattro mani" con i Cervi o con i
Gervaso.
Il professor Miglio no. Era di un'altra pasta, era "scandaloso", era
realista. Era così fuori dal sistema da essere uno contro il sistema. Miglio
amava ricordare che il Bel Paese non era di suo gradimento. Figuratevi, con
Maurizio Costanzo, al telefono, s'è "permesso" di affermare che è
cresciuto con sua nonna che parlava in tedesco alle galline. E, soprattutto, ha
avuto l'ardire di dare il suo assenso, nonché l'appoggio ideologico, alla più
rivoluzionaria idea politica di questi ultimi centoquarant'anni: la secessione.
Mentre Montanelli le lauree se le prendeva ad honorem, in un paese in cui la
laurea è già di per sé un insulto, Miglio faceva il rettore del dipartimento
di Scienze Politiche all'Università Cattolica di Milano e faceva crescere fior
fiore di giovani studiosi imbevendoli di idee coerentemente liberali. Se
Montanelli paludava il suo sapere e le sue rampogne nel Risorgimento savoiardo,
Miglio, da vero scienziato della politica, approfondiva i concetti del
federalismo, dell'indipendentismo, delle libertà individuali. Proprio così.
Montanelli citava Garibaldi? E Miglio ci faceva conoscere Carlo Cattaneo.
Montanelli riesumava Giolitti? E Miglio rimpiangeva l'abdicazione delle idee
liberali e proponeva di rileggere Carl Shmitt. Montanelli piagnucolava per il
fatto che lo Stato abdicasse alle sue prerogative? E Miglio lo Stato lo metteva
completamente in discussione, preferendogli le istituzioni policentriche, la
libertà di mercato, la concorrenza tout court.
Ha scritto Carlo Lottieri, sulla rivista Élite, a proposito del professore
comasco: "Pensare al politologo lombardo vuol dire riferirsi a uno studioso
che durante la seconda metà del Novecento ha avuto pochi rivali, in Italia e
fuori, nel suo tentativo di scandagliare con rigore scientifico la realtà del
potere: evitando qualsiasi retorica e sforzandosi di osservare la politica quale
essa è. Nel corso di questa ricerca, allora, non stupisce che egli abbia finito
per elaborare un pensiero non privo di assonanze con quella linea di pensiero
che - da Étienne de la Boétie fino a Murray N. Rothbard, passando per i
libertari americani del XIX secolo - si è sforzata di sottrarre ogni maschera
all'autorità politica". E se non è antisistema, ergo fastidioso, uno così,
ditemi voi!
Montanelli col potere ci sguazzava. Miglio al potere si opponeva. Se per
Montanelli il "lutto giornalistico" è durato una settimana, per
Miglio nemmeno un giorno. Tutto bene madama la marchesa.
Se non fosse stato così non saremmo qui a scrivere queste quattro righe zeppe
di rabbia. Complimenti professore. Quelli come il sottoscritto, nel frattempo,
continueranno a studiare sui suoi libri. Non su quelli del "grande
vecchio".
tratto da Enclave, rivista libertaria
*Questo articolo è stato scritto il
giorno dopo la morte del professore ed è stato inviato, sotto forma di lettera,
al quotidiano "Libero". Non è mai stato pubblicato, eppure
"qualcuno" l'ha preso come spunto per scriverci un suo pezzo.
di Alessandro Campi (Università di Perugia)
Sbaglia il poeta: la palma della crudeltà spetta all’agosto, mese torrido e distratto, quindi sconsigliato alle morti eccellenti ed inadatto alle commemorazioni. La morte di Gianfranco Miglio, avvenuta lo scorso l’11 agosto, è stata accompagnata da “coccodrilli” frettolosi, che ne hanno ricordato, più che la scienza e la dottrina, diffuse a piene mani in oltre trent’anni di insegnamento presso la Cattolica di Milano e in un centinaio tra libri saggi ed articoli, certi aspetti, tardivi e secondari, della sua esistenza e del suo modo di essere: l’appassionata militanza nella Lega bossiana (durata appena quattro anni), la schiettezza del linguaggio, talune civetterie nel vestire, un certo compiacimento luciferino nel mostrarsi al pubblico ed il gusto per la provocazione politico-intellettuale. E’ rimasto in ombra, nei commenti riportati dalla stampa, l’essenziale, ciò per cui Miglio, da qui in avanti, merita di essere ricordato: l’essere stato uno dei maggiori studiosi italiani di politica del Novecento, un organizzatore culturale di prima grandezza, un bibliofilo e bibliografo di rara competenza come ben sa chi ha frequentato la sua biblioteca di Como (un monumento di architettura e di erudizione), insomma un uomo di scienza, espressione di un accademismo rigoroso ed esigente, in Italia ormai scomparso.
Come ogni pensatore di rango è stato un solitario, una personalità controcorrente, difficilmente classificabile secondo i consueti confini disciplinari. Presentato abitualmente come politologo (ma egli preferiva dirsi “scienziato della politica”), durante la sua carriera universitaria si è in realtà cimentato con le discipline più varie: dalla storia delle dottrine politiche alle relazioni internazionali, dal diritto costituzionale alla storia delle istituzioni politiche, dalla dottrina dello Stato alla scienza dell’amministrazione, dalla polemologia alla storia economica. Simile, in ciò, ai grandi teorici tedeschi su cui si era formato e dei quali si considerava, per stile e gusti intellettuali, un epigono: Ferdinand Tönnies, Otto von Gierke, Lorenz von Stein, Friedrich Meinecke, Max Weber…
Allievo del giurista Giorgio Balladori Pallieri e dello storico Alessandro Passarin d’Entrèves, entrambi cattolici e liberali, il suo esordio scientifico è avvenuto, a cavaliere del secondo conflitto mondiale, con alcune ricerche sulle origini e gli sviluppi della comunità internazionale, sulla formazione del diritto pubblico europeo, sulla dottrina della “guerra giusta” e sui caratteri propri delle relazioni intrastatuali. Sono seguiti, a partire dai primi anni Cinquanta, studi pionieristici ed innovativi, di taglio storico e tipologico, sulla pubblica amministrazione e sulla burocrazia, vale a dire su ciò che costituisce la reale ossatura di ogni Stato minimamente efficiente. Il 1964 è stato l’anno di una prolusione accademica rimasta celebre, nella quale Miglio diagnosticava lo scostamento della politica reale italiana dal modello di un autentico Stato di diritto rappresentativo-elettivo e teorizzava l’alternarsi ciclico tra regimi parlamentari puri e regimi autoritari a conduzione carismatica: una provocazione che segnò la sua rottura con la classe dirigente democristiana dell’epoca e l’inizio della sua fama di eccentrico e di guastafeste. Gli anni Settanta lo hanno invece visto impegnarsi in una serrata critica alle debolezze ed ai difetti dell’ordinamento costituzionale italiano: partitocrazia, parlamentarismo integrale, deficit decisionale. Il decennio successivo è stato, probabilmente, quello della sua maturità scientifica, durante il quale ha pubblicato studi come sempre originali sulle origini e sulla crisi (ai suoi occhi irreversibile) dello Stato moderno, sui rapporti tra guerra e politica, sul concetto di rappresentanza, sui diversi assetti della convivenza internazionale, sulle radici dell’obbligazione politica, sui fenomeni clientelari, sulla classe politica. Gli anni Novanta, infine, spesi all’insegna della passione, lo hanno visto protagonista del dibattito sul federalismo, tema al quale ha consacrato tutte le sue ultime energie intellettuali.
Si è detto che è stato anche un grande organizzatore ed artefice culturale. Sua, nei primi anni Cinquanta, l’idea di dar vita all’Istituto per la Scienza dell’amministrazione pubblica, e, nel 1961, quella di istituire la Fondazione italiana per la storia amministrativa: entrambi fucine di studiosi di rango e di spezzoni importanti della classe dirigente nazionale. Suo nel 1968 – in collaborazione, tra gli altri, con Giovanni Sartori, Giuseppe Maranini e Beniamino Andreatta – il progetto di riforma dell’ordinamento delle Facoltà di Scienze Politiche. Sua, nei primi anni Settanta, la scelta di pubblicare una raccolta antologica, Le categorie del ‘politico’ di Carl Schmitt, che ha segnato l’inizio di una nuova stagione della cultura italiana: un’iniziativa editoriale che produsse scombussolamento soprattutto tra i marxisti e che, come egli soleva dire divertito, il suo amico Bobbio non gli ha mai perdonato. Sua, a partire dal 1983, la direzione di una collana unica quale “Arcana Imperii”, oltre trenta corposi volumi dedicati ai grandi classici del pensiero politico-giuridico soprattutto europeo. Suo il coordinamento scientifico del mitico Gruppo di Milano, dal quale, tra il 1980 ed il 1983, è scaturito il più organico e rigoroso progetto di revisione costituzionale prodotto nel nostro Paese, tanto ambizioso quanto inadatto alle lentezze barocche della politica italiana. Sua, per concludere, a metà degli anni Novanta, l’iniziativa della Fondazione per un’Italia federale, laboratorio scientifico per la definizione di un’autentica e moderna dottrina federalista.
Miglio è stato, e sempre si è considerato, uno scienziato. Come studioso di politica e costituzionalista apparteneva ad una famiglia di pensiero assai particolare: quella del “realismo politico”. Egli è stato, per l’esattezza, l’ultimo grande esponente della scuola realista italiana, degno erede, nel secondo dopoguerra, di Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto, come questi ultimi interessato a scoprire le leggi e le “regolarità” (termine, quest’ultimo, propriamente migliano) che sorreggono l’agire politico degli uomini ed a smascherare e rendere esplicito l’intreccio di opzioni di valori e di interessi che sta al fondo di ogni ideologia o credenza politica e che costituisce la vera molla della lotta per il potere condotta dai gruppi umani organizzati. Come ogni realista che si rispetti, il potere, cioè gli uomini politici, lo ha più temuto che amato: destino comune a chi scelga di alzare il velo dell’ipocrisia, rifiuti la retorica delle belle parole e accetti di osservare la politica quale essa è, da sempre. La sua lezione più grande si riassume nel convincimento che le istituzioni politiche – comprese, ovviamente, quelle che oggi abbiamo – non sono eterne, ma sottoposte ad un ciclo storico vitale e quindi ad una perenne trasformazione. Cultore degli studi storici e profondo conoscitore degli assetti istituzionali antichi moderni e contemporanei, Miglio ha avuto lo sguardo sempre rivolto al futuro: quali saranno le forme di organizzazione della politica non tra dieci, ma tra cento o mille anni? Critico verso la storia ed il costume nazionale, non è stato tuttavia un anti-italiano: il “caso italiano” lo considerava tutto sommato marginale rispetto alla vicenda millenaria della tradizione politica occidentale.
Oltre che forzatamente solitario, il suo percorso scientifico-culturale è stato discontinuo e tutt’altro che lineare. Come ogni studioso di rango, Miglio non temeva di mettersi in discussione e di rivedere le sue posizioni. Dopo essere stato un teorico del decisionismo e della sovranità, negli ultimi anni, convintosi dell’ineluttabile declino del modello politico dello Stato-nazione, aveva abbracciato posizioni al limite dell’anarchismo politico ed era divenuto un fautore ad oltranza del pluralismo politico-istituzionale. Segno ulteriore di grandezza ed onestà, rispetto ad un costume medio intellettuale che teme la revisione e l’auto-analisi.
Ma nemmeno temeva le contaminazioni e la polemica, gli incontri ed i confronti, la ricerca di nuovi terreni d’indagine e di discussione: sempre curioso, e sicurissimo di sé, non ha mancato di incrociare cavallerescamente le armi con gli esponenti della sinistra post-marxista, di fustigare un certo quietismo cattolico, di cogliere in fallo i federalisti dell’ultima ora, di laureare con tesi sul terrorismo degli estremisti di sinistra, di interessarsi alle posizioni della “nuova destra”, di mettere in contraddizioni certi liberali troppo sicuri di sé, di stigmatizzare il conformismo intellettuale dei suoi colleghi.
La sua fama presso il grande pubblico è derivata dal suo impegno nella politica attiva, maturato tuttavia solo dopo aver abbandonato la cattedra e l’insegnamento. Senatore per tre legislature, dall’esperienza parlamentare Miglio ha in effetti ricavato delusioni ed incomprensioni, peraltro largamente prevedibili alla luce dei suoi stessi insegnamenti. Perché dunque ha accettato di correre il rischio? Dopo anni di studi e di tentativi, andati a vuoto, di formare una classe dirigente all’altezza delle sfide della politica contemporanea – il più organico fu quello condotto a fianco di Cefis, per conto del quale diresse per alcuni anni la scuola di formazione dell’Eni –, aveva intravisto, nel quadro scaturito dalla crisi della Prima repubblica, la possibilità, l’ultima ai suoi occhi, di un reale cambiamento della struttura statuale italiana, in direzione di un avanzato ordinamento federalista basato sul patto volontario tra libere comunità territoriali: solo nell’elezione dei “governatori” regionali aveva tuttavia visto il primo segnale di una concreta trasformazione del sistema politico italiano. Deluso ma pur sempre indomabile, negli ultimissimi anni Miglio aveva cominciato a profilare, tra le rovine di uno Stato giunto ormai alla sua fase storicamente terminale, l’abbozzo di un nuovo modello politico policentrico nel segno del mercato, del privato e del libero contratto, simile a quello delle città-stato mercantili nord-germaniche del Seicento. Il suo ultimo libro, purtroppo mai scritto, avrebbe voluto intitolarlo L’Europa degli Stati contro l’Europa delle città: il sogno di un visionario o la lucida anticipazione di una fertile mente scientifica
Nell’attesa che il suo pensiero divenga oggetto di studi e di approfondimenti, si può solo ricordare le parole che egli stesso scrisse in memoriam del suo amato Carl Schmitt e che bene si attagliano anche alla sua avventura intellettuale: “i traguardi scientifici da lui raggiunti, proprio perché corrispondenti a altrettanti alti problemi, costituiscono porte aperte sul futuro della conoscenza scientifica. Quasi ogni sua teoria suggerisce nuove ricerche, nuove ipotesi da verificare, nuove avventure del pensiero”. A chi, nel corso degli anni, gli è stato vicino e ne ha meditato gli insegnamenti, spetta adesso l’onere di rendere il dopo-Miglio più fecondo e vitale dell’età su cui egli ha esercitato, in maniera libera e creativa, la sua straordinaria intelligenza.
Un
numero speciale dei “Quaderni Padani” dedicato al “professore” Gianfranco Miglio, uomo libero e scomodo
|
Sono
passati ormai quattro mesi da quel 10 agosto in cui Gianfranco Miglio,
dopo una lunga e terribile malattia che lo ha fiaccato nel corpo ma non
nello spirito, passava a miglior vita nella sua casa di Como. Quattro
lunghi mesi in cui tutti quelli che hanno amato e amano la libertà hanno
continuato a ricordarlo con affetto e a riflettere sul suo pensiero, così
innovativo e dirompente da risultare per la classe politica italiana media
- solitamente tutta parole e niente fatti, e sempre pronta a
scandalizzarsi quando qualcuno osa di mettere in dubbio le parole
d’ordine del sistema - persino scandaloso. Forse fu questo il merito
principale, insieme all’aver richiamato l’attenzione sull’urgenza di
riforma del Paese chiamato Italia. A quattro mesi dalla scomparsa, a
Varese, La Libera Compagnia Padana - l’associazione culturale che da
anni ormai opera attivamente nel campo dell’autonomismo e
dell’indipendentismo - ha voluto tributare a Miglio il giusto omaggio
con un numero speciale (il 37-38) della sua rivista Quaderni Padani,
intitolato appunto “Gianfranco Miglio: un uomo libero” (per
richiederlo, L.L.C.P., Casella Postale 55, Largo Costituente 4, 28100
Novara, tel. 333 1416352). La presentazione è avvenuta durante il
convegno (organizzato dalla Compagnia con la promozione dell'Assessorato
alle Culture, Identità e Autonomie della Regione Lombardia), svoltosi
domenica a Varese, sul tema “Culture, arti e popoli in Lombardia. La
forma dell'identità. Cultura identitaria, architettura e paesaggio
popolare”, una giornata che ha visto i relatori intervenuti (Giovanni
Simonis, Leo Miglio, Giulio Crespi, Luisa Bonesio, Gilberto Oneto)
esaminare il valore dell'architettura popolare, della costruzione del
paesaggio e dei riferimenti ambientali nella formazione e conservazione
dell'identità dei popoli: un tema poco studiato ma che assume importanza
fondamentale anche sotto la particolare luce della resistenza al
globalismo e per l'affermazione dell'indipendentismo padano. Un tema che
al “professore” sarebbe piaciuto molto. La pubblicazione è molto
ricca e contiene interventi di prim’ordine. Due le sezioni in cui si
divide: una critica e una antologica. Dopo una premessa di Carlo Stagnaro
(curatore del volumetto), il breve scritto “La speranza è nell'opera”
di Leo Miglio e una biografia del “professore” rappresentano la
migliore introduzione al Miglio-pensiero e al Miglio-personaggio.
Quest’ultima chiave di lettura è affrontata nella sottosezione “Il
maestro e il collega”, nella quale Miglio viene ricordato da docenti e
intellettuali che hanno lavorato al suo fianco. I contributi sono
prestigiosi, e basta scorrere i nomi: Alessandro Vitale, Roberto Formigoni,
Augusto Barbera, Giancarlo Pagliarini, Massimo Cacciari, Alessandro Campi
e Alberto Quadrio Curzio. Lo stesso si può dire per gli scritti che ne
ripercorrono invece il pensiero di “intellettuale anticonformista”, di
Ettore A. Albertoni, Gilberto Oneto, Lorenzo Busi, Alessandro Vitale e
Stefano Talamini, Leonardo Facco. La sua verve di “politico scomodo”
torna in tutta la sua veemenza nei contributi di Gilberto Oneto
(Gianfranco Miglio padano e padanista), Antonio Cardellicchio (Sud e Nord
insieme per dividersi. Uno sguardo meridionale su Miglio) e Marcello
Staglieno (È Gianfranco Miglio il vero "precursore" della
Seconda Repubblica), mentre un ricordo del professore e dei suoi rapporti
con Bossi è tracciato in Miglio e la Lega e nello scritto di Davide
Gianetti Gianfranco Miglio e il diritto di secessione. Tutte cose che egli
stesso spiegò nella Lettera agli elettori che Miglio scrisse in occasione
delle elezioni del ’92, quando era candidato al Senato per il collegio
di Milano IV come indipendente nelle fila della Lega Nord - Lega Lombarda.
Gli aspetti “tecnici” del suo pensiero sono raccontati nei contributi
di Rocco Ronza, Carlo Lottieri, Carlo Stagnaro e Alessandro Vitale. Chiude
il volume una ricca antologia di scritti del “professore”, dagli
Auguri che fece (il 4 dicembre 1999) ad un gruppo di giovani che avevano
dato vita all’associazione culturale “Nord Indipendente” ai testi
pubblicati su giornali e riviste, ai discorsi che pronunciò al Senato,
fino ad Oltre lo Stato-nazione: l'Europa delle città, ultimo suo
contributo prima della scomparsa. Infine, l’indispensabile bibliografia
delle opere che pubblicò dall’88 fino alla morte. Questo volumetto ci
sembra davvero indispensabile perché ci consente di incontrare e
conoscere a fondo sia l’uomo sia il pensatore. Al di là delle teorie
politiche, ciò che emerge e si staglia con evidenza quale caratteristica
principale di questa persona semplice ma coltissima, assolutamente non
convenzionale, innovativa ma mai sopra le righe è senza dubbio la libertà
e l’autonomia di pensiero. Il coraggio di non essere “politically
correct”, in un momento in cui invece l’essere “politically correct”
rappresentava, per il politico medio come per l’intellettuale da
strapazzo, la conditio sine qua non per avere successo ed essere accolti
nei salotti mondani. Dove per ricevere gli applausi artefatti della società-bene
“multiculturale” e snob è mandatorio vergognarsi delle proprie radici
e dei legami con la propria terra, tradirli e rinnegarli, perché si sa:
la terra “fa” contadino, e i contadini nei salotti “fanno” sporco
e disordine, insomma sono poco “trendy”. Miglio questa cosa non volle
farla mai, ma anzi delle sue origini “provinciali” (nacque nel 1918 a
Como, la sua famiglia era nativa di Domaso da generazioni) rimase
orgoglioso fino in fondo, fino a farsi accompagnare nella “sua”
cittadina in fondo al Lario da quei battelli manzoniani da lui sempre
profondamente amati, e a stabilire proprio a Domaso la sua ultima dimora.
Anche per questa sua estrema semplicità, oltre che per la ricchezza
inestimabile del suo pensiero, così foriero di spunti e fecondo quanto
pochissimi altri, è e resta il più grande.
tratto da La Padania Elena Percivaldi |
«Lega, unica speranza» «I finti riformatori puntano a cristallizzare lo status quo» |
«L'unica speranza di questo Paese è la riforma federale
e l'unica speranza che si faccia questa riforma è che la Lega vada al
governo, altrimenti l'Italia andrà a picco».Gianfranco Miglio,
senatore del gruppo misto, ma soprattutto scienziato della politica, sta
per dare alle stampe un saggio destinato a far discutere. È un testo
che sparge altro scetticismo sulla possibilità di cambiare lo Stato e
individua una per una le "forze della restaurazione", cioè i
finti riformatori che puntano in realtà a cristallizzare lo
"status quo". Professore, ma chi sono questi finti riformatori? «Anzitutto le forze politiche, soprattutto quelle che sono al governo. Gli ex comunisti e i democristiani vogliono solo restaurare la prima Repubblica. Uno come Leopoldo Elia, tanto per citare qualche personaggio, è il campione della restaurazione e guarda come fumo negli occhi alla riforma federale. La conferma di quello che dico e scrivo nel mio ultimo libro è che da quando si è formata la maggioranza del 21 aprile di due anni fa, è stato accantonato ogni progetto di riforma costituzionale». Quindi, secondo lei, non si farà neppure la riforma elettorale? «Non ho mai considerato fondamentali i sistemi elettorali. Per cambiare il sistema Italia ci vuole la riforma federale. E poi il dibattito in corso mi sembra senza costrutto. Amato è stato chiamato a fare una nuova legge elettorale, ma non sembra porsi il problema della presidenza elettiva e del federalismo. Il clima è riformatore ma solo in apparenza». L'unica svolta possibile, secondo lei, è che Bossi vada al governo. Perché? «Oggi Bossi non lo capisco, ma potrebbe aver avuto ragione solo in un caso. Se la coalizione di governo dovesse traballare, la Lega potrebbe entrare nel governo e diventare il puntello di una nuova maggioranza federale. A quel punto Bossi potrebbe chiedere a D'Alema qualsiasi cosa, in cambio dei suoi voti e sono certo che gli chiederebbe statuti speciali per Lombardia, Veneto e Piemonte». Potrebbe essere una strada risolutiva per svecchiare lo Stato? «Direi di sì. Gli statuti speciali consentirebbero alle regioni del nord di raggrupparsi in un secondo momento e di interloquire con altri due raggruppamenti di regioni: quelli del centro e del sud. Si formerebbero in questo modo tre macroregioni con autonomia impositiva e meccanismi diautogovernomolto forti, sul modello della Catalogna» .Lei è comunque più vicino al Polo che non all'Ulivo. Crede che nel centro-destra esista un'effettiva volontà di cambiamento? «Non so se in tutto il centro-destra. Certamente, alcuni deputati come Umberto Giovine e altri di Forza Italia credono nel federalismo e hanno mosso forti critiche in questo senso alla maggioranza che sostiene D'Alema». Ormai l'Assemblea costituente è tramontata per sempre o rimane aperto uno spiraglio? «Per ora non si farà. Se, però, dovesse prevalere la linea del referendum Di Pietro-Segni, è possibile che si torni a parlarne, perché sia Di Pietro che Segni la vorrebbero. Ma è essenziale che fallisca prima l'Unione europea». Mi scusi, professore, ma che nesso c'è tra un'assemblea costituente nazionale e l'Unione europea? «Io prevedo un fallimento istituzionale dell'Unione europea. A quel punto credo che gli italiani si porranno seriamente il problema di rifare la Repubblica». Perché, adesso non se lo pongono? «Adesso l'opinione pubblica italiana non vuole cambiare, perché sarebbe costretta ad affrontare i costi del cambiamento e non ne ha voglia. Teme di dover pagare il prezzo di una svolta della quale non coglie bene i contenuti, ma così facendo rischia di andare a picco. Ecco perché nel mio libro ricapitolo tutte le forze contrarie al cambiamento e tra queste inserisco anche i cittadini italiani».Non c'è ombra di dubbio: il prossimo saggio del professor Miglio andrà a ruba.
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Altra intervista al prof. risalente al momento in cui Bossi chiede la Secessione della Padania
Un radicale estremo che sapeva guardare molto lontano
colloquio con Giuliano Urbani di Benedetto Marcucci
tratto da Liberal
Amava il paradosso. La sua intuizione più
felice è stata quella delle macroregioni. Ci arriveremo attraverso un graduale
processo di devoluzione dei poteri
Non ha timori Giuliano Urbani nel definire la scomparsa di Gianfranco Miglio
come "la perdita di uno degli studiosi più lucidi della fine del secolo
scorso". Nel dare il suo giudizio così lusinghiero non gli fa velo la
schietta divergenza di idee che ha animato nel passato numerose discussioni,
pubbliche e private. Detto ciò, il ministro per i Beni e le attività culturali
chiarisce subito perché, a suo avviso, Miglio non è attuale.
Ministro perché ritiene che la lezione di Miglio sia superata?
Pur rispettandolo profondamente, credo che il carattere del suo pensiero non sia
spendibile nella congiuntura che stiamo vivendo. Mi spiego: Miglio può essere
definito senza timori come un radicale estremo. Naturalmente non nel senso
politico italiano, ma nell'accezione originale della parola, quella
anglosassone. Radicale soprattutto nel metodo e nell'uso provocatorio del
paradosso, che lui amava moltissimo. Amava stupire e dunque radicalizzava le sue
posizioni rendendole paradossali, fino alle estreme conseguenze.
A proposito di paradossi, cosa pensa dell'idea di Miglio - espressa
soprattutto negli ultimi anni ma ai più poco conosciuta - secondo la quale solo
una "rivolta" delle regioni meridionali
potrà portare a una rivoluzione istituzionale in senso federalista?
Certamente nella storia le rivoluzioni sono sempre state suscitate da chi stava
peggio e non da chi godeva di privilegi sociali. Dobbiamo però considerare che
il Mezzogiorno sta molto meglio che in passato, e soprattutto vede la fine del
tunnel a portata di mano. Ciò, non solo grazie all'indubbio vantaggio dato dal
vincolo dell'Unione europea, ma anche, e direi soprattutto, per l'indubbio salto
di competitività compiuto dal Paese, ormai integrato nel mondo più sviluppato.
La questione meridionale così come la posero Giustino Fortunato e Gaetano
Salvemini non esiste più. Dunque quello di Miglio era appunto un paradosso
costruito su un'anacronistica visione del rapporto tra Nord e Sud dell'Italia.
Tra l'altro credo che il federalismo sia stato "venduto" male
attraverso questa visione di contrapposizione e di esplosione centrifuga. Non ce
n'è bisogno e sarebbe contraddittorio. Non bisogna mai perder di vista
l'origine del federalismo alla cui base esiste sempre un foedus, un patto.
Sarebbe assai bizzarro e insensato che si stabilisca un patto con le armi in
pugno, il cui obiettivo non è l'unione ma la divisione.
Ma è pur vero che anche il foedus su cui si basa il federalismo americano è
stato imposto da alcuni Stati dell'Unione su altri…
Questo è vero. Indubbiamente all'indomani della guerra di secessione furono i
vincitori a stabilire le condizioni del foedus. Ma l'Italia è notoriamente un
caso diverso. Noi saremmo il primo esempio clamoroso nella storia di un Paese
che si divide per esser più unito. Affinché questo processo, apparentemente
contraddittorio, riesca, tutto deve avvenire però in termini pacifici e
graduali.
D'altra parte si tratta di una forma istituzionale più vicina alla nostra
storia, come del resto sosteneva anche Miglio.
Il paradosso moderato, direi non migliano, è che noi abbiamo bisogno come il
pane del federalismo. Come diceva lei, per ragioni storiche. Non dimentichiamoci
che il meglio nella nostra storia lo abbiamo sempre espresso o con i Comuni o
con le Signorie o ancora con i Principati, con forme istituzionali
ragionevolmente compatibili. Dico ragionevolmente perché certamente di guerre
ne abbiamo avute, ma molto limitate nel tempo e nello spazio e che comunque non
intaccavano una sostanziale convivenza che aveva come collante un elemento
formidabile: l'esistenza di una lingua unitaria. Dunque un'unità civile e
culturale noi l'abbiamo dal Basso Medioevo. Non abbiamo avuto l'unità
istituzionale perché fra Signorie e Principati si crearono egemonie, ma non si
stabilì mai un'alleanza istituzionale. Dunque il federalismo
ci è imposto dalla nostra storia, ma anche dalla debolezza dello Stato unitario.
L'unità fu un processo d'élite la cui credibilità è stata clamorosamente
minata dall'insuccesso del fascismo. Nel suo fallimento il regime fascista ha,
per così dire, rovinato la reputazione dello Stato unitario. Con l'unità
antifascista si è in qualche modo posto rimedio, ma anche quella, non
dimentichiamolo, è stata un'unità ottenuta in seguito a una guerra civile. Lo
dico non per sottovalutare il patto resistenziale, ma credo che col passare del
tempo la Resistenza abbia assunto un significato diverso intrecciandosi troppo
con la divisione del mondo in blocchi, così che il Paese diviso è rimasto
diviso. Insomma noi di storia unitaria in senso istituzionale ne abbiamo una
molto breve, quella del periodo liberale che aveva un grandissimo vizio: essere
una società elitaria. Prima di tutto le donne non votavano e si è votato per
censo fino al 1913.
Miglio aveva come riferimento la Germania. Ritiene il modello tedesco
praticabile?
Credo piuttosto che si debba rivolgere l'attenzione a un'altra esperienza finora
sottovalutata: quella belga. Mi pare che sia più simile alla nostra. Comunque,
sia noi sia il Belgio abbiamo il vantaggio di portare avanti una riforma
istituzionale che avanza all'interno del processo di unificazione europea. Noi
ci potremo permettere nei prossimi anni un trasferimento di poteri, attraverso
le Regioni e i Comuni metropolitani, molto più accentuata che nel passato per
una ragione molto semplice: abbiamo tutti l'euro in tasca. La moneta unica ci fa
sentire tutti parte di una casa comune sicura. Questo elemento rassicurante ci
farà procedere in modo più sereno e meno accidentato sulla strada delle
riforme.
Per tornare al pensiero di Miglio, ritiene possa essere utile passare
attraverso una fase intermedia durante la quale si definiscano tre macroregioni?
L'esigenza di tre macroregioni corrisponde, a mio avviso, a un'intuizione
felicissima. Le regioni attuali sono in gran parte frutto di ritagli a
tavolino e quindi soffrono ad esempio della mancata autosufficienza delle masse
critiche. In altre parole non hanno gli elementi necessari per poter attuare
politiche d'indirizzo, dalle infrastrutture alla politica agricola, al turismo,
solo per fare qualche esempio. Dunque mi sembra evidente che si debbano
superare, però il problema è come definire le macroregioni? Alla fine si corre
il rischio di rispondere a un problema, la definizione artificiosa dei confini
regionali, con una soluzione che mostra lo stesso limite: essere espressione di
un progetto calato dall'alto che non rispetta la storia dei territori. Credo che
come quasi sempre accadeva a Gianfranco Miglio, anche quello delle macroregioni
sia stato un felicissimo errore di un presbite. Miglio cioè sapeva soprattutto
guardare lontano, dando ai suoi ragionamenti radici ben salde. Quando però
calava le sue teorie su ciò che non era più "storia" ma diveniva
evidentemente "politica", la sua visione si faceva più sfocata,
distorta. Per esemplificare rapidamente: se l'Umbria e le Marche stabiliscono di
collaborare va benissimo, ma non possono essere dei pur valentissimi professori
di diritto costituzionale e amministrativo a ridefinire i confini di Umbria e
Marche. Una decisione del genere avrebbe una conseguenza immediata: una
immediata rivolta di umbri e marchigiani a questo disegno. Insomma le
macroregioni si potranno attuare ma molto, molto gradualmente, senza strappi
inutili.
Spostandoci per un attimo all'attualità, non trova che si sia un po'
sottovalutato nel dibattito sulla devolution l'aspetto finanziario? A tal punto
che si rischia di non avere neanche le risorse per espletare il mandato della
riforma costituzionale concepito dalla precedente maggioranza di
centro-sinistra.
Ritengo che l'aspetto finanziario sia una efficace cartina di tornasole per
evidenziare quanto sia stato fino a oggi approssimativo l'approccio alla
questione. Noi oggi siamo in presenza di una revisione di vari livelli statuali:
uno è rappresentato dall'Unione europea, alla quale stiamo cedendo parti della
nostra sovranità nazionale. Nello stesso tempo sentiamo sempre più forte la
necessità di cambiare l'iter decisionale e tenerlo più vicino alla realtà
locale. Come abbiamo visto è un problema secolare per il nostro Paese, per la
soluzione del quale non si può certamente ricorrere a un eureka. Occorre
ragionare con calma e senza pregiudizi, senza la fretta che ha caratterizzato il
recente passato. Un problema storico si affronta in termini storici, non con
velleitaria baldanza. Insomma la dimensione finanziaria della riforma mette a
nudo il Re. Ma non bisogna spaventarsi, si fanno esperimenti sapendo che nessuno
ha la soluzione in tasca. Dobbiamo andare avanti con molto pragmatismo senza
provare a fare gli apprendisti stregoni. Le parrà strano ma di pragmatismo oggi
ne ha più Bossi di tutti gli altri. Dopo aver perso la scommessa sulla mancata
entrata dell'euro dell'Italia, che avrebbe portato come conseguenza diretta la
secessione del Nord, il leader della Lega ha capito che doveva lavorare per un
processo più graduale, cioè per la devolution.
Ma quale sarà l'approdo di questo processo avviato che siete chiamati a
gestire? Insomma quale federalismo avremo?
Un doppio federalismo in alto e in basso, ma soprattutto liberale ed europeo.
Uno schema statuale nel quale si dovrebbe avere una doppia cessione di sovranità.
Importante sarà raccordarsi alla Costituzione europea. Costituzione per
definire la quale non bisogna commettere peccati "luciferini", per
intenderci non è perseguibile il modello Fischer, quello cioè dello Stato
federale. Ciò presupporrebbe l'esistenza di un popolo europeo. Non esiste e
forse non esisterà mai. Già diverso è parlare di una cittadinanza europea
che, badi bene, si fonda proprio sulle profonde diversità. Ma, oltretutto,
perché si dovrebbe obbligare, per esempio, gli inglesi a rinunciare alla
monarchia. Questa rinuncia non porterebbe nessun vantaggio nella convivenza,
creando invece una grave offesa all'identità dei cittadini del Regno Unito.
Mi scusi ma cosa vuol dire federalismo liberale?
È molto semplice. La nostra nuova Costituzione
dovrà contenere una cosa essenziale: definire limiti ai
poteri. Ma un altro concetto di cui tener conto sarà il principio che
non si governano popoli o nazioni, ma cittadini, titolari di diritti e doveri.
Liberale dunque in questo senso: limiti ai poteri, nazionali e comunitari, e una
comune base di diritti estesa a tutto il territorio dell'Unione.