Indagine su Gianfranco Miglio
di Carlo Lottieri
Il passaggio dal decisionismo alla Schmitt al federalismo libertario: così il
pensiero di Miglio ha incontrato la modernità
Qualcuno certo sarà rimasto sorpreso, nel
corso degli anni Novanta, di fronte a talune prese di posizione del professor
Gianfranco Miglio. Dopo aver «importato» a Sud delle Alpi il realismo
decisionista di Carl Schmitt e dopo essersi speso a lungo nel tentativo di
persuadere la classe politica italiana della necessità di adottare un modello
politico presidenziale (non «autoritario», ma certo «autorevole» e in
condizione di garantire stabilità e durata all'esecutivo), l'ultimo Miglio ha
offerto infatti più di una ragione di scandalo.
L'anziano professore dapprima si è proclamato favorevole a riforme di segno
federale, quindi si è nettamente schierato a difesa del diritto di secessione,
per poi infine giocare anche in prima persona un ruolo politico, ispirando la
Lega Nord (di cui è stato senatore) e, dopo la rottura con quel movimento, le
formazioni del centro-destra. Non solo: Miglio si è anche contraddistinto per
iniziative culturali non facilmente riconducibili all'immagine stereotipata che
di lui si erano fatti quanti lo avevano identificato con quel progetto di
Seconda Repubblica che aveva elaborato alla testa del «gruppo di Milano». Ha
riproposto il testo classico di Henry David Thoreau sulla disobbedienza civile e
ha favorito la traduzione dell'opera principale di Daniel J. Elazar (massimo
esponente del neo-federalismo) e del volume di Allen Buchanan sul diritto di
secessione.
In questa pur evidente discontinuità vi sono, e vanno evidenziati, elementi di
stretta connessione tra il decisionismo originario e l'esito federalista (venato
di intonazioni libertarie) dell'ultimo e più maturo Miglio.
Pensare al politologo lombardo vuol dire riferirsi a uno studioso che durante la
seconda metà del Novecento ha avuto pochi rivali, in Italia e fuori, nel suo
tentativo di scandagliare con rigore scientifico la realtà del potere: evitando
qualsiasi retorica e sforzandosi di osservare la politica quale essa è. Nel
corso di questa ricerca, allora, non stupisce che egli abbia finito per
elaborare un pensiero non privo di assonanze con quella linea di pensiero che -
da Étienne de la Boétie fino a Murray N. Rothbard, passando per i libertari
americani del XIX secolo - si è sforzata di sottrarre ogni maschera all'autorità
politica.
Dietro alla virata degli anni Novanta, d'altra parte, non c'è solo la
manifestazione di una consolidata attitudine «realista». Come egli medesimo ha
più volte sottolineato anche in mirabili interventi parlamentari, il rigetto
delle tesi decisioniste è nato in lui dalla stessa crescente consapevolezza che
lo Stato moderno rappresenti, in quanto tale, un ferro vecchio: un arnese da
gettare o, se si preferisce, un'istituzione da ripensare in modo radicale e che
non può reggere, nella forma attuale, alle sfide dell'epoca contemporanea.
Per ritrovare le radici di tale evoluzione del pensiero migliano può essere
utile richiamare taluni elementi della riflessione che egli svolse a metà degli
anni Settanta, in un'Italia caratterizzata dall'avanzata crescita elettorale di
un partito comunista che però - al contempo - stavano avviando un processo di
avvicinamento a logiche welfariste e socialdemocratiche. Proprio entro tale
contesto storico, ormai tanto remoto, Miglio sviluppa una riflessione generale
che muove dalla constatazione dell'esistenza di due distinti poli della vita
pubblica: quello dello Stato e quello del mercato.
Miglio evidenzia come questi due ambiti, in quanto elaborazioni umane, mostrino
comunque taluni tratti comuni. La sua confidenza con la lezione elitista lo
spinge in particolare a evidenziare come «in entrambi valgano da sempre,
effettualmente, la regola ferrea della cooptazione, e il meccanismo delle
consorterie». La pretesa weberiana di uno Stato impersonalmente neutrale gli
appare insomma quanto mai ingenua e infondata, né egli pare gradire la tesi -
allora tanto in voga - di quanti pretendevano di legittimare l'ordine
capitalistico sulla base di argomenti «meritocratici» o ipotizzando uguali
punti di partenza.
Al di là di ciò, a ogni modo, è pur certamente vero che la contrapposizione
Stato e mercato rinvia a un «dualismo irriducibile», in virtù del quale
l'apparato politico e il ceto imprenditoriale riescono a disporre di ingenti
risorse finanziarie grazie a «due diverse convenzioni: rispettivamente il
'diritto pubblico' (Costituzione) e il 'diritto privato' (codici)». Se l'ordine
statuale deriva dal comando gerarchico e dalla volontà costruttiva del ceto
politico egemone, nel carattere naturalmente liberale delle relazioni mercantili
Miglio riconosce anche l'espressione di un antico dinamismo imprenditoriale, che
già nell'età medievale della lex mercatoria sul piano giuridico aveva saputo
esprimere - come aveva evidenziato Levin Goldschmidt -«la pronta formazione
internazionalmente uniforme del diritto commerciale e una conseguente continuità
sorprendente dello sviluppo storico». Alla rigida determinazione degli obblighi
imposti dal potere si contrappone quindi la spontanea elaborazione di un diritto
che ignora i confini degli Stati nazionali e si distende liberamente nel tempo.
Dietro all'eterna e alterna oscillazione storica tra Stato e mercato Miglio
rinviene allora due distinti obblighi. Nel mercato, in effetti, prevale
l'obbligo-contratto quale frutto di un diritto che emerge dalla volontà degli
attori, mentre all'interno delle relazioni statuali la scena è dominata
dall'obbligo politico, il quale esiste in virtù di una pretesa unilaterale
all'obbedienza:
«fra gli uomini sono possibili due tipi diversi, contemporanei ma irriducibili,
di rapporto: l'obbligazione-contratto interindividuale (in cui si cerca la
soddisfazione di singoli, attuali e determinati bisogni, e da cui nasce quindi
il 'mercato'), e il patto di fedeltà politico (in cui si cerca una garanzia
globale per tutti i futuri, non ancora specificati bisogni esistenziali, e da
cui nascono quindi appunto le 'rendite politiche')».
È sulla base di tali analisi che egli giunge a elaborare un'interpretazione
quanto mai originale di quella dissoluzione sindacalistica della sovranità
statuale che era sotto gli occhi di tutti nell'Italia degli anni Settanta.
Quello che Miglio vede emergere è un assetto che definisce
federativo-corporativo, nel quale «la sanzione per i patti violati, e la
discriminazione fra interessi illeciti ('parassitari') e interessi legittimi
(sacrosanti), non spettano più - almeno per un certo tempo - a un solo e
convenzionale potere decisivo (sovrano), ma dipendono dall'equilibrio generale
delle obbligazioni assunte dai gruppi corporati in campo, e quindi dalla
materiale forza contrattuale di ciascuno di essi».
Fin dagli anni Settanta, allora, era possibile trovare in Miglio una serie di
straordinarie intuizioni sul rapporto tra i due modelli fondamentali di
relazione sociale e la lotta per le risorse. Le successive riflessioni migliane
sulla natura del parassitismo statale e sul ruolo che la spartizione del «bottino»
all'interno dei sistemi politici muovono da qui, così come la sottolineatura
della centralità del contratto: da intendersi sia nell'accezione classicamente
privatistica che in quella, non meno rilevante, che vede all'opera gruppi
(professionali o territoriali che siano).
È attraverso queste analisi che riemerge in Miglio sia l'interesse al
federalismo (un suo tema, in verità, fin dagli anni della Resistenza e de Il
Cisalpino) che l'attenzione al mercato, inteso non solo quale sistema economico
ma anche come premessa di ordini giuridici concorrenziali. Da qui proviene anche
la riattualizzazione di tante ricerche del passato su istituzioni moderne in
qualche modo eccentriche, non riconducibili al modello vincente statuale:
centralizzato, nazionale, giacobino e impersonale. Dalla natia Como, d'altro
canto, Miglio ha sempre avuto per la federazione svizzera quell'attenzione che -
si può presumere - Johannes Althusius avrà riservato all'originale esperimento
olandese delle libere Province Unite, tanto vicine alla sua piccola Emden.
Una delle riflessioni che hanno condotto Miglio ad allontanarsi dalle proprie
posizioni originarie è stata la considerazione che l'invenzione dell'atomica e
la conseguente fine della guerra globale (uno scontro giocato senza freni e in
prima persona dalle grandi potenze implicherebbe la scomparsa dei contendenti)
«l'avvento di un sistema contrattuale sia a questo punto una necessità storica».
Ormai inadeguato ad assolvere il proprio compito primario (la guerra, appunto),
lo Stato moderno secondo Miglio appare però ancor più fuori gioco di fronte
alle esigenze della produzione e del benessere. È soprattutto a partire da tale
analisi, ancor prima che dalle precedenti considerazioni sul declino della
dimensione conflittuale, che Miglio fa discendere la sua analisi sull'imperiosa
riemersione del mercato e delle sue logiche: «per capire il cambiamento di fine
secolo, dunque, è necessario comprendere la vocazione al contratto, al
pluralismo e al federalismo che nasce dall'impossibilità di gestire altrimenti
i bisogni dei governati. Questi infatti sono talmente vari che possono essere
soddisfatti solo nel libero mercato». Miglio inizia così a collegare sempre più
strettamente l'analisi spietatamente realistica dei sistemi statuali di dominio,
la valorizzazione dell'efficacia e della civiltà degli ordini istituzionali
policentrici (federali) e il dinamismo delle economie orientate al mercato, alla
concorrenza, all'innovazione. Se anni fa qualcuno poté forse stupirsi di fronte
alla decisione di inserire nella prestigiosa collana «Arcana Imperii»(lungamente
diretta da Miglio stesso per le edizioni Giuffrè) un'antologia di scritti di
Mises e Hayek a cura di Guido Vestuti, oggi è più facile capire le ragioni di
quel volume, significativamente intitolato Il realismo politico di Ludwig von
Mises e Friedrich von Hayek. La successiva evoluzione di quel pensiero permette
adesso di cogliere meglio l'unità di un progetto di cui molti ancora faticano a
comprendere l'intima coerenza.
Anche quando tratteggia i non certo gloriosi destini futuri dell'ordine statuale
ed esalta le logiche pattizie del federalismo e del mercato, egli rivendica
costantemente il proprio sobrio spirito demistificatore: «Non sto disegnando
un'utopia, o auspicando una trasformazione in meglio (chi potrebbe dimostrarlo?)
dei sistemi politici ed economici del tardo secolo XX: ma cerco solo freddamente
di descrivere il tipo di assetto istituzionale che si sta già faticosamente
affermando. Io sto ai fatti, e soltanto ai fatti». E questi fatti gli sembrano
suggerire l'attualità del «grande modello di federalismo universale ('a
scatole cinesi') elaborato dai valenti giuristi calvinisti, come Giovanni
Althusio, sull'esperienza delle città e degli Stati mercantili nord-germanici
fra Cinquecento e Seicento: in un'età e in una civiltà squisitamente 'europee',
che (non solo nell'Hansa) sperimentarono il massimo di espansione possibile del
'contratto' e del privato sul politico, alla vigilia dell'opposto trionfo
'statalista' delle monarchie assolute. Ciò che accomuna il nostro tempo a quel
secolo è proprio la riscossa del privato e dell'individuale».
È grazie a questa consapevolezza che, dinanzi a un universo sovietico che
s'inabissava dopo decenni di miserie quotidiane e brutali violenze poliziesche,
egli saprà tirare ogni conseguenza da quel crollo rovinoso. E così, quando nel
1997 Marcello Veneziani si appellerà al Miglio del «Gruppo di Milano» per
contestare le sue ultime prese di posizione, l'anziano senatore risponderà: «dall'83
a oggi è cambiato il mondo, a rendere superato quel tipo di proposta è stata
la dissoluzione del sistema comunista: il collasso e poi lo schianto avvenuti a
partire dal 1989, a mio parere, hanno posto in termini nuovi il problema dello
Stato moderno». E sempre in quel dialogo trarrà ogni conseguenza da tale
analisi, arrivando a sostenere che «l'età degli 'Stati' eterni e immutabili è
per sempre finita». Se il federalismo è la grande e rinascente ossessione
dello studioso lombardo, è ugualmente vero che esso viene letto e riproposto in
costante connessione con un rinnovato interesse per il mercato, lo scambio, la
libertà contrattuale. Ed è proprio nella libertà di stipulare accordi che può
essere rinvenuto il vero punto di contatto tra la logica federale e l'economia
liberale:
«Nello scorcio del XX secolo in cui stiamo vivendo, è arrivata a conclusione
un'intera fase della storia dello Stato moderno, è in crisi l'idea che i
cittadini debbano essere inquadrati una volta per tutte. Questa crisi si lega al
declino del concetto di legge e al graduale emergere del primato del contratto,
al quale deve far riscontro un sistema istituzionale nel quale prevalgano i
patti liberamente negoziati, anzi: nel quale la legge nasca dal contratto».
Per tale ragione, quando Marcello Staglieno chiese a Miglio come egli pensasse
di conciliare «questa vistosa concessione a prospettive non solo federaliste,
ma addirittura 'libertarie', con la sua dottrina 'decisionista'», la risposta
fu molto netta: «Io non sono mai stato un 'decisionista integrale': voglio dire
che mi sono sempre guardato bene dall'attribuire alla 'decisione' la portata
trascendente, in chiave autoritaria, che sembrano attribuirgli Carl Schmitt o
Hermann Heller». Per Miglio, insomma, evidenziare - contro Hans Kelsen -
l'irriducibilità della dimensione politica non implica affatto una
glorificazione dello Stato, della coercizione, della violenza 'organizzata'.
L'autore de Le regolarità della politica, d'altra parte, non crede affatto che
«un sistema istituzionale, nel quale prevalgano i 'contratti' liberamente
negoziati - anzi: nel quale la legge nasca dal contratto, e non da presunti
valori mistici, ormai indifendibili - sia un sistema disordinato e altamente
imprevedibile». Sono d'altra parte ormai numerosi gli studiosi, anche italiani
(si pensi alle ricerche di Enrico di Robilant), che hanno evidenziato la
superiore razionalità degli ordini dinamici, instabili, a potere diffuso,
contro la rigida staticità degli apparati incapaci di correggersi ed evolvere.
E queste indagini sono da tempo ben presenti a Miglio.
Oltre a ciò, egli comprende come il crollo degli idola che hanno segnato la
modernità (nazione, razza, classe, democrazia, tecnica, ecc.) apra la strada a
un'epoca nuova. La fortuna attuale della teoria federale è quindi strettamente
legata al declino dell'obbligo politico e al fatto che l'età presente sta
mostrando il progressivo secolarizzarsi di ogni vecchia teologia istituzionale,
«mentre cadono a uno a uno tutti i miti, tutte le finzioni politiche e non
politiche, e il gusto aspro della critica realistica raggiunge finalmente anche
le moltitudini». Nella società che pare profilarsi all'orizzonte «tutto si
baserà - soltanto e laicamente - sulla inviolabilità (materiale) della regola
pacta sunt servanda: una decisione interpersonale la fonderà, e altre decisioni
saranno il suo prodotto. Il sistema complessivo sarà molto più coordinato,
automatico e prevedibile di quello offerto dal vecchio Stato sovrano ormai in
disarmo».
È stata proprio questa centralità della decisione interpersonale a indurre
Miglio a evidenziare ripetutamente il forte nesso che collega mercato e
federalismo, superando anche quella dicotomia tra diritto pubblico e diritto
privato che già Bruno Leoni aveva contestato con coraggio e originalità. Se
negli anni Settanta il politologo lombardo aveva visto nell'opposizione
Stato-mercato una controversia che sembrava «destinata a durare fino alla fine
dei tempi», il ben più radicale Miglio degli ultimi anni prefigura un universo
entro il quale le artificiose barriere poste tra un universo e l'altro si
dissolvano. La stessa analisi sociologica del potere e del suo radicarsi in
relazioni originariamente non giuridiche (non istituzionalizzate, non iterate)
contribuisce a far luce sulla realtà.
Pur così diverse nelle loro premesse teoriche, le tradizioni del realismo
europeo continentale, del federalismo autentico e del libertarismo americano
finiscono quindi per incontrarsi, inverandosi reciprocamente. L'analisi
disincatata dei meccanismi della decisione e lo sguardo lucido dello scienziato
di fronte alla «finzione» statuale (che non ha un'esistenza propria, ma vive
solo in virtù di coloro che da esso traggono benefici) aprono la strada
all'immaginazione di inedite forme di diritto, socialità, economia e politica.
La consapevolezza del carattere storico ed eminentemente moderno delle
istituzioni statali, successive alla crisi dell'ordine medievale, rafforza
un'ipotesi teorica come quella migliana, tesa a scrutare l'universo di
possibilità che potrà aprirsi di fronte agli uomini nel momento in cui il
potere statale finirà per dissolversi: così come a fine anni Ottanta sono
crollati, a seguito di un'imprevista implosione, i sistemi socialisti (le
istituzioni più statuali che la modernità abbia saputo produrre).
Come pochi altri studiosi, Miglio ha compreso l'importanza di saper prestare
attenzione - anche in una logica comparativa - a quelle esperienze culturali e
istituzionali orientate al pluralismo che la storia moderna ha espresso, ma non
ha saputo salvaguardare. Oltre che alle città anseatiche, egli non è parco di
indicazioni sulla vicenda dell'Olanda, all'interno della quale «esisteva una
pluralità di competenti che variava continuamente». Miglio comprende insomma
che civiltà perdute e sconfitte (quella olandese fu spazzata via dall'esercito
napoleonico) hanno ancora lezioni da trasmetterci e che soprattutto vi è
qualcosa di assolutamente contingente - come ha evidenziato pure Hendrik Spruyt-
nel successo del modello statuale «sovrano» che ha dominato gli ultimi secoli.
Il politologo sottolinea come la storia non sia soltanto in condizione di
mostrarci il carattere effimero di apparati pubblici che rivendicano per sé
l'eternità e che invece, come è ovvio, hanno avuto un inizio e conosceranno
una fine: essa ci permette pure di comprendere che la dispersione concorrenziale
del potere propria dei sistemi autenticamente federali rappresenta un forte
ostacolo alla crescita indiscriminata dell'arbitrio statale, della tassazione e
della regolamentazione. Le società politiche non centralizzate - dai liberi
Comuni medievali alle Province Unite, dalle città anseatiche alla
confederazione svizzera - erano indotte a privilegiare il mercato, la
concorrenza, la competizione. Libertarismo e teoria neofederale, insomma,
tendono sempre più a convergere.
Nella riflessione di Gianfranco Miglio, d'altra parte, il federalismo non è
considerato uno strumento pensato per unire, ma una strategia volta a «tutelare
e gestire le diversità». Esso cerca di favorire «il passaggio dall'unità
alla pluralità: ex uno plures»; al punto che si può legittimamente sostenere
che «sono federali quelle relazioni che dissolvono la concezione piramidale e
gerarchica del potere, sostituendola con una dinamica delle relazioni di potere
articolata in sfere concorrenti o esclusive dei poteri esercitabili». Questo
spiega bene perché per Miglio il diritto di secessione sia «il diritto di
stare con chi si vuole e con chi ci vuole» e perché tale diritto sia «simile
a quello di resistenza, proprio perché naturale, inalienabile e indisponibile
da parte del potere politico».
La cultura neofederalista punta così a realizzare «un 'foedus' condizionato,
temporalmente limitato» ed è per questo motivo che agli occhi di Miglio il
diritto di secessione «è un diritto prepolitico, che esiste, al pari del
diritto di resistenza, come un prius rispetto a ogni comunità politica
organizzata».
Come si è già rilevato, sullo sfondo di tali analisi migliane su un
federalismo da contrattare e rinegoziare in continuazione c'è la teoria della
doppia obbligazione (obbligo politico e obbligo-contratto): una concezione che,
sebbene abbia un'origine del tutto autonoma, può offrire un solido contributo
alla stessa dottrina libertaria. Tanto più che quella neofederalista è una
concezione sostanzialmente pattizia delle relazioni politiche, che lascia spazio
anche a federazioni a termine: rinnovabili solo se gli Stati federati trovano
giusto e conveniente farlo. La politica perde insomma quei suoi tratti
ossessivamente ancorati al concetto moderno della «sovranità», al punto che
ogni finzione istituzionale si dissolve per svelare tutta la propria fragilità.
La politica torna così a essere un fatto di uomini, più o meno disposti a
collaborare pacificamente, a combattersi, a stipulare accordi e trattati.
Il tema del carattere necessariamente precario delle istituzioni umane spinge
quindi l'anziano professore al recupero di una vecchia concezione jeffersoniana:
quell'idea in virtù della quale ogni generazione deve avere la libertà di
darsi una propria costituzione la cui durata sia ben definita. Qualche anno fa
egli espresse con queste parole la ferma convinzione che «le comunità federali
dell'ormai imminente ventunesimo secolo saranno tutte 'temporalmente limitate':
cioè soggette a essere 'revisionate' ogni trenta-cinquant'anni. Il dogma
teologico dell'immutabilità dello Stato, e della sacralità dei confini, poteva
essere accettato in tempi in cui i fattori economico-sociali cambiavano molto
lentamente, non certo ai giorni nostri. E la sfida di fronte al quale si troverà
presto il diritto pubblico europeo sarà proprio quella di disegnare istituzioni
flessibili dal punta di vista del fattore tempo».
Di fronte a un tale radicalismo anti-statalista non è certo casuale che negli
ultimi anni siano stati proprio alcuni tra i più giovani allievi del professor
Miglio ad attirare l'attenzione, all'interno della nostra vita culturale, su
quelle ricerche che prefigurano un processo di superamento dello Stato moderno e
si sforzano di valorizzare quanto vi è di autenticamente federale in talune
tradizioni politico-istituzionali. Ci si riferisce, evidentemente, agli studi
condotti da Martin Diamond e soprattutto da Daniel J. Elazar, il quale ha
individuato nella teoria federale la possibilità di rigettare le concezioni
tradizionali dello Stato: tanto quella gerarchica come quella organicistica.
In questa linea di pensiero neo-federalista all'interno della quale lo stesso
Miglio ha voluto collocarsi, la federazione è quindi intesa quale accordo
volontariamente pattuito: una relazione tra comunità che liberamente
contrattano e in tal modo danno vita a un'istituzione perennemente bisognosa di
definirsi e legittimarsi. In virtù del patto federale i rapporti tra i
partecipanti della vita pubblica si istituzionalizzano, ma senza che venga meno
la costante esigenza di ottenere conferma e consenso da parte dei soggetti
contraenti il patto. Questa vocazione al dialogo e alla transazione segna la
vita delle società federali anche al di fuori dell'ambito politico: «il
federalismo implica un atteggiamento e un modo di comportarsi nelle relazioni
sociali, oltre che politiche, che porta a interazioni umane fondate sulla
cooperazione negoziata, sulla condivisione fra le parti e sul coordinamento,
piuttosto che sulla relazione gerarchica tra superiore e subordinato». La parità
tra gli attori istituzionali che caratterizza i modelli a matrice (senza
gerarchia) è allora essenziale perché ci si trovi di fronte a un ordine
veramente federale e, quindi, rispettoso dei diritti delle comunità.
Per il federalismo libertario dell'ultimo Miglio, ogni potere legittimo è
sempre e solo un potere delegato. Entrando in società, gli uomini non cedono la
propria libertà, non si assoggettano a un tiranno né si riducono
volontariamente in condizione di schiavitù, ma semplicemente attribuiscono a
un'istituzione nuova una parte dei loro poteri e accettano una serie di regole.
Ma essi restano sempre pronti a discutere tali norme, a contestarle, a fondarne
di nuove. Gli uomini elaborano regole per difendere i loro diritti e, per questa
ragione, continuano a essere gli ultimi e più importanti tutori di tali
fondamentali prerogative, essenzialmente «pre-politiche».
Carlo Lottieri