La storia di Woody, sfigato di successo

La sua apparenza dimessa, il suo ostentato eremitaggio sarebbero un vezzo, così come le sue super publicizzate nevrosi, l'anti-divo Woody Allen è in realtà inguaribilmente affetto dalla sindrome da celebrità.
di Alberto Mingardi

MILANO - Nel 1991, una rivista francese sguinzagliò una redattrice per le vie di Parigi. La missione era comprendere le ragioni dell'esagerata popolarità di cui Woody Allen godeva Oltralpe. Sarà per i dialoghi brillanti, per le situazioni sull'orlo del paradossale, lo humour tortuoso e un po' cinico - pensavano. Nient'affatto. Sì, Woody era un beau mec, un grand'uomo. Ma se piaceva era perché "è basso, è stempato, è brutto, non riesce a scopare". Insomma: "è proprio come me".

E' da questo aneddoto che muove John Baxter, che nella nuova biografia di Allen (edita per i tipi di Lindau) va a dimostrare quanto sia arbitraria (e involontariamente comica), quest'iscrizione d'ufficio nel club degli sfigati di Woody Allen. Se Allen Stewart Konisberg è stato vittima di un'infanzia non certo felice (eppure non così anomala come si vorrebbe far credere), la sua vita privata è distinta e distante dalle nevrosi cui ha dato forma sullo schermo.  Persino in fatto di sesso: a parte il primo, fallimentare matrimonio - Allen ha avuto una girandola di compagne ed amichette da far invidia ai più palestrati divi di Hollywood.

Allo stesso modo, l'anti-divo Woody Allen è in realtà inguaribilmente affetto dalla sindrome da celebrità. La sua apparenza dimessa, il suo ostentato eremitaggio newyorkese non devono ingannare: è un vezzo. Forse addirittura una strategia pubblicitaria. Perché se il personaggio-Woody è un ipocondriaco confuso, un complessato perenne, uno schizofrenico mancato, Allen con la sua maschera cinematografica ha in comune soltanto la collezione di pillole e medicinali che porta inviariabilmente con sé.

Intendiamoci: non è una critica, Baxter si guarda bene dall'accusare il cineasta più intellettuale d'America di alcunché. Anzi, lo difende spudoratamente, ad esempio quando si parla della querelle con Mia Farrow. La Farrow, in un libro ("Quello che ho perso"), ha scaricato litri di veleno sull'ex compagno. Dimenticandosi un paio di cosette: anzitutto, non sono mai stati regolarmente sposati, e neppure conviventi. Soon Yi, poi, non era figlia adottiva di Allen ma soltanto sua. Terzo, le accuse di violenza mosse al regista verso la piccola Dylan (di cui aveva voluto diventare ufficialmente genitore) sono state regolarmente smentite da un plotone di esperti. Quarto, l'alchimia dell'attrazione fra Woody e l'asiatica ricorda pericolosamente il ménage attentamente complottato, vent'anni prima, da una Mia allora sconosciuta, e sull'orlo della bancarotta.

Cause di affidamento e gossip a parte, il libro di Baxter è interessante per l'analisi del percorso di formazione di Woody Allen. Talento naturale, certo. Ma anche una gavetta impressionante, per costruirsi una carriera. Allen cominciò giovanissimo, alle soglie dei sedici anni. Dopo essersi baloccato per diversi anni con i giochi di magia, e una volta compreso di non avere le physìque-du-role per emergere come giocatore di footbal, capì che la sua vocazione era far ridere. E cominciò a spedire battute su battute ai "rubrichisti" che tenevano banco sui giornali newyorkese. Si fece un nome come autorità della risata, e poco dopo venne il debutto come stand-up comedian, cabarettista praticamente, pronto a girare i locali di New York e non solo. All'inizio, fu un disastro. Timido, Allen aveva difficoltà a prendere il passo del pubblico. Ma piano piano le cose presero ad ingranare. E il resto è storia, dai primi passi a Broadway a capolavori come "Manhattan" e "Hannah e le sue sorelle".

C'è però un altro aspetto interessante della personalità di Allen che Baxter contribuisce a chiarire. Cioé l'Allen politico. Lo ammetterete, è un po' strano - persino in America - che un ebreo firmi dei manifesti a sostegno dei palestinesi. E' che Allen visse gli anni Sessanta a modo suo. Più che alla controcultura s'appassionò all'antipolitica. "Lyndon Johnson è un uomo politico. I politici hanno una loro etica. Ed è... mmh... una tacca più sotto di quella di un maniaco sessuale", dice Alvy Singer, forse il suo alter-ego più riuscito, in "Io e Annie".

Spietato con i democratici, non era certo tenero con i repubblicano. Così, "The politics and humor of Woody Allen" - prodotto dalla PBS - doveva contenere un finto documentario intitolato "The Harvey Wallinger Story". Wallinger era un Henry Kissinger parodiato: sua madre era stata brevemente sposata a Mussolini "finché non si accorse che era italiano", lui sta con Diane Keaton però divorziano quando lei viene a sapere di una sua scappatella con una democratica ("Non sarebbe un problema se l'avesse fatto con una del suo partito"). Una macchietta terribilmente somigliante al vero segretario di Stato. "Se la signora Nixon vuole baciare suo marito, deve prima baciare Harvey". Che, però, ci tiene a precisare che "sì, mi piace il sesso, ma non il sesso non americano". Già. Un Kissinger perfetto, troppo perfetto. Tant'è che la PBS decise di non mandarlo in onda (i giorni del Watergate erano lontani, Nixon era ancora un Presidente con la P maiuscola). Anche questa è satira.

John Baxter, "Woody Allen", Lindau, Torino, lire 46.000, 2001 (1998 ed.originale).

(3 MAGGIO 2001, ORE 12:05)

(tratto da Il Nuovo.it)

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