"Francia e Usa. Se la destra vince nel "paese profondo"


di Rocco Ronza

A pochi mesi dalla vittoria di Bush jr. alle elezioni presidenziali Usa, la recente tornata delle elezioni municipali in Francia ha riproposto un risultato per molti versi simile. Le analogie emergono dalla proiezione dei risultati del voto sulla mappa geografica. Nello scorso novembre, all'indomani della scelta dei grandi elettori, la carta elettorale dei degli Stati Uniti aveva presentato un disegno molto chiaro, che il risultato finale della Florida non ha modificato. Gli stati dominati dalle grandi metropoli, quelli del New England, dei Grandi Laghi e del Pacifico, vinti dal candidato democratico Gore, emergevano come isole in un mare repubblicano formato dagli stati rurali, quelli che gli osservatori amano etichettare come l'America profonda. La Francia che esce dalle municipali presenta una mappa molto simile. L'attesa "presa di Parigi" da parte di un candidato della sinistra (la prima dal 1977, quando la carica di sindaco, abolita dopo la Comune del 1871, venne restaurata da Giscard d'Estaing), lungi da rappresentare il coronamento di un'ondata rosa estesa all'intero paese, non fa tendenza in provincia. Nella Francia profonda, infatti, la sinistra plurale del premier Jospin guadagna solo Lione (terza città francese), vede sconfitti numerosi dei suoi ministri, perde 40 municipi e lascia 318 dei 583 comuni sopra i 15mila abitanti ai candidati della destra, capace di riappropriarsi di molti dei voti che in passato erano andati al Front national lepenista.

Questa riedizione della frattura "citta'" e "campagna" all'alba del Ventunesimo secolo ha un po' spiazzato i commentatori, che infatti non le hanno dedicato molti commenti. Eppure, essa fornisce spunti interessanti a chi sia interessato al problema della ridefinizione della destra nell'era della globalizzazione. All'interno dei grandi partiti liberal-conservatori dell'Occidente, in convalescenza dopo la crisi degli anni Novanta, si dibattono in realtà due anime, corrispondenti a due diverse destre. Da un lato, una destra istituzionale, fedele alla sua tradizione inclusiva di partito della nazione (country party), a suo agio nelle antiche capitali nazionali, moderata, aperta e sensibile al politicamente corretto: quella di Chirac che guida la crociata contro Haider e dei repubblicani liberal del New England. Dall'altro, una destra popolare, insieme più liberista, più individualista e più conservatrice (ma solo su alcune issues) che da un decennio cerca di trovare rappresentanza politica e si agita sotto fenomeni nuovi (da Perot al Reform Party canadese, da Bossi al Vlaams Blok, fino al famigerato Haider) che l'establishment accademico, politico e giornalistico della sinistra globale cerca di seppellire sotto le squalificanti etichette del populismo e della xenofobia.

La vittoria della sinistra a Parigi è certamente una sconfitta di Chirac, che da venticinque anni controllava la capitale come un suo ducato, coltivando con i metodi leciti ed illeciti della vecchia politica l'appoggio dei quarantamila dipendenti comunali. Ma è anche una sconfitta della destra istituzionale e parigina, ormai spiazzata dalla definitiva conversione della sinistra da partito del conflitto sociale a partito delle istituzioni. In quella Francia "dove i socialisti hanno introdotto con successo riforme giacobine del costume " - come scrive Giuliano Ferrara - ad uscire battuta è proprio quella "destra moderata e laica che è entrata in competizione con loro sul terreno del riformismo civile". Quali che siano gli sforzi per accreditarsi come una "quasi sinistra", solo un po' più moderata (?), è assai improbabile che questa destra possa mai attirare a sé i bobos, la nuova borghesia radical-chic ormai dominante nelle metropoli globalizzate e forte di una efficace quanto ambigua alleanza, sotto la bandiera del multiculturalismo, con la pressione demografica e politica del Terzo Mondo

Nella Gironda come nel Texas, in Virginia come nel Midi, a fermare la sinistra liberal è stata la resistenza della "vecchia America" e della "vecchia Europa". Una forza che è stata sottovalutata dalla nuova sinistra liberal e post-industriale, chiusa nelle capitali nazionali e globali e ingannata dai suoi stessi pregiudizi, ma anche dalla destra più "rispettabile", incapace di uscire dal cono d'ombra dell'avversario e di respingerne i ricatti. Il futuro della destra globale non dipende dalla sua capacità di rinunciare a un belletto conservatore, e nemmeno nel tagliare i ponti con il provincialismo regressivo o la visione confessionale e familista della vita sociale, scimmiottando la "rive gauche". Dipenderà dalla sua capacità di giungere ad una sintesi nuova e originale fra le istanze dell'Europa profonda e la parte vitale (la laicità dello stato, la difesa della tradizione formalista e procedurale del rule of law, anche contro certe forzature operate in nome dei diritti umani) dell'eredità della "vecchia" destra.

Una sintesi in cui Thomas Jefferson potrebbe contare più di Lincoln, la tradizione girondina più del giacobinismo moderato della droite gollista e bonapartista. E che fornisca i fondamentali ad una destra che sia, ad un tempo, liberale, individualista e populista, ossia memore del ruolo che nella genesi della tradizione politica occidentale ha avuto l'affermazione del principio della supremazia del popolo sul governo. Con la sua miscela di liberali e cattolici, di leghisti e di cultori dello stato forte riuniti sotto l'ombrello e la leadership berlusconiana, la Casa della libertà potrebbe contribuire in modo rilevante a questo processo nei prossimi anni.

(tratto da Ideazione.com) - 27 marzo 2001

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