Tupolev: le verità dei governi

Un altro aereo maledetto, un altro maledetto mistero. Cos’è successo, davvero, al Tupolev russo che si è inabissato nel mar Nero, trascinando con sé i suoi 77 passeggeri? Forse non lo sapremo mai. La verità resta ombrosa, sfuggente. Si affollano versioni diverse, troppo diverse, che non possono coesistere placidamente, si escludono a vicenda.

Sembra di essere tornati ai tempi della guerra fredda: è la verità di Washington contro quella del Cremlino. Il Pentagono insiste con la sua versione, si sarebbe trattato di una svista degli ucraini, un missile fuori controllo. Sarebbe “solo” un’altra Ustica.

Mosca ribatte che è troppo semplice per essere vero, e “apre un’indagine” su un possibile attentato terroristico. Un’ipotesi che suona sinistramente plausibile, viviamo ormai in un regime di sospetto obbligatorio.

Questa conflittualità estrema, questo muro-contro-muro nella ricerca di un perché, è preoccupante e provvidenziale assieme. Preoccupante perché ci racconta come la grande coalizione contro il terrorismo non sia granché coesa, una notizia che piacerà ai terroristi: la condivisione delle informazioni, il concerto delle intelligence stenta a decollare. E questo malgrado gli sforzi e la determinazione di Colin Powell.

Siamo al provvidenziale: mi sembra importante non perdere la bussola, nel turbine degli eventi drammatici da cui siamo travolti o sfiorati. E’ un rischio sempre in agguato. Non dobbiamo cominciare a vedere il mondo con contorni deformi, sostituendo a quello che è ciò che ci piacerebbe fosse. Rimpiazzando il chiaroscuro della realtà con la straordinaria nitidezza dei cartoni animati, la contrapposizione luccicante fra buoni e cattivi, uno scenario finalmente bidimensionale.

L’attacco alle Twin Towers, la minaccia del terrorismo, hanno suscitato sgomento, vergogna, senso d’impotenza e voglia di riscatto. Ma non ci devono indurre a dimenticare quanto abbiamo salatamente imparato. Se il nuovo nemico riesce a farci abiurare le lezioni del passato, ha già vinto.

La faccio breve. I governi non sono una libera associazione di principi azzurri, senza macchia e senza paura: sono fatti di gente come voi e me (e un po’ peggio), che ogni tanto sa essere buona e onestà, molto spesso no. Il potere, poi, più che la virtù attrae la doppiezza, più che la rettitudine l’avidità.

I governanti del pianeta non sono, oggi, uomini migliori di quanto lo fossero un mese fa. Sono le stesse persone, con le medesime preoccupazioni, con interessi identici.

Ecco perché questo scontro di verità, questo rimbalzo di responsabilità fra Putin e Bush è provvidenziale. Perché ci ricorda una verità taciuta negli ultimi giorni, dimenticata per il disperato bisogno di aggrapparsi alla bandiera.

Uno dei precetti fondamentali della logica è che se si dimostra falsa un’affermazione, il suo contrario risulterà vero. Se la versione fornita da Washington è vera, è falsa quella di Mosca. Oppure viceversa. Non sono ipotesi che s’incastrano, non c’è una verità nel mezzo, tipo che l’aereo è stato abbattuto da un missile ma con il “concorso” dei dirottatori. E’ stato dirottato o è stato colpito. Punto.

Se si è trattato di un dirottamento, diciamolo: è stato il dirottamento più pazzo del mondo. Anzitutto l’idea di impossessarsi di un aereo in partenza da Tel Aviv suona balzana, viste le interminabili procedure di sicurezza perfezionate da Israele. A meno che il dirottatore non fosse un membro dell’equipaggio, un’alternativa spaventosa. Ma allora non si spiega perché precipitare l’aeroplano nel mar nero, anziché dirigerlo su un’obiettivo civile. Manca l’elemento cardine di un’azione terroristica: la spettacolarità.

Del resto, lo scenario prospettato dal Pentagono non soddisfa gli esperti di intelligence, che come sempre sviluppano una vocazione dietrologica.

Fatto sta che sia l’una che l’altra prospettiva si dimostrano perfettamente funzionali ai due governi. Washington ha bisogno di rassicurare la popolazione e l’opinione pubblica mondiale, per questo ha smesso di vomitare cifre sul massacro di Manhattan, per questo ha lasciato sbollire gli animi prima di incominciare l’attacco. Bush si muove con accortezza, deve far fronte alle aspettative dell’elettorato e alla sua coscienza, compiacere i suoi consiglieri e mediare fra le diverse posizioni.

Mosca ha interessi ben diversi. In primo luogo, Putin si è già rivelato abilissimo nell’avvantaggiarsi della contingenza internazionale: è riuscito a giustificare l’operazione di pulizia etnica in Cecenia con il pretesto della guerra al terrorismo. Gli osservatori occidentali tacciono, gli attivisti dei “diritti umani” sono stati prudentemente silenziati: è bastato il miraggio di una base di Bin Laden per sedare gli animi. In secondo luogo, lo zar Vladimir ha bisogno di aggregare consenso per questa sua svolta filo-americana, e non c’è modo migliore che fare presagire ai russi quanto la minaccia sia vicina.

In questo quadro rientrano anche gli interessi, concretissimi, di Israele: che, dopo le aperture di Bush allo Stato palestinese, teme di non godere più dell’aprioristico favore degli americani. I segnali che arrivano da Washington sono chiari: un “reaganiano da guerra” come il vecchio Jack Kemp, il principale sponsor delle istanze di Israele sulla rive droite, ha preferito non firmare il j’accuse a Colin Powell pubblicato, sotto forma di lettera, dal Washington Post e firmato dal coté conservatore filoisraeliano. Puntualmente sconfessato da George Bush padre, che ha spezzato il silenzio politico che s’era autoimposto con l’elezione del figlio, per esprimere il suo totale appoggio a Powell. Lo stesso hanno fatto altri grandi vecchi della destra Usa, fra cui il “falco”  del giornalismo americano Robert Novak. Insomma, Sharon sa che i repubblicani oggi al potere non tollereranno colpi di testa - e non sembra accettarlo di buon grado.

Questi, ed altri, i fattori in campo. Per capire ciò che sta succedendo bisogna sondare quali sono i perché degli uomini al governo, nei vari paesi del mondo. Da che parte pende la bilancia della verità, lo decida il lettore. Con un “caveat”: di qui a pochi mesi, l’unica verità rimarrà quella scritta dai vincitori.

 

Alberto Mingardi