La strage al parlamento svizzero
Imperfetta libertà o perfetto statalismo?
Quanto
è fragile la civiltà. Sono giorni grigi, momenti bui quelli che stiamo
vivendo. Sembra che il mondo sia tornato indietro nel tempo, le parole
rattrappiscono, i sogni si spezzano. Berlusconi proclama che la nostra è una
civiltà superiore, ma non è quello il punto, il punto è che l’antinomia
civiltà-barbarie è tornata nel lessico politico, è ricomparsa sulle pagine
dei giornali. E il problema, più che gli arabi alle porte, questa Lepanto
d’inizio millennio, è il barbaro che è in noi.
Diciamo
la verità: l’uomo, u minuscola, è un oggetto strano. E’ una somma di
deliziose imperfezioni, di meravigliosi difetti, di raggelanti virtù (vale
anche per la donna, sia chiaro). Non vive su un’isola deserta, è un
“animale sociale” (l’ha detto Aristotele, l’abbiamo capito tutti), e
ogni tanto sembra che gli dispiaccia, che gli stia tremendamente stretto questo
barcamenarsi fra sè e il suo prossimo, questa società magmatica e frenetica,
forse ingiusta per definizione.
L’uomo
che ieri ha fatto irruzione all’assemblea cantonale di Zug, Svizzera centrale,
e ha ucciso quattordici persone (tre deputati, precisano le cronache, come se
qualcuno fosse più morto degli altri), è solo un episodio. La cronaca ne è
piena.
Ma
è questa staffetta ideale, i seimila di New York ed i quattordici di Zug,
cadaveri parlanti, che ci inquieta. “Ne vale davvero la pena?”: più che una
domanda, è un lampo di umanità. E’ un dubbio che germoglia da solo, davanti
a tanta violenza, davanti a tanto sangue. Vale la pena difendere la nostra
libertà, se alla fine è un’alba sfocata, un valore traballante, se non ci
salva la vita?
L’interrogativo
non è nuovo. E’ una di quelle domande, forse è la domanda, che attraversa
come un fiume carsico i millenni della storia umana. Una delle risposte più in
voga la diede Thomas Hobbes che (riassumo e semplifico) diceva di no, non ne
vale la pena. Meglio soffocare ogni vagito di libertà, privarsene per un bene
più alto: vivere schiavi, ma vivere.
A
Hobbes ha risposto, a sua volta, tutta quella tradizione di pensiero che
potremmo etichettare sbrigativamente come “liberalismo”. Con ottimi
argomenti. Le parole dei liberali sono state le parole che hanno raddrizzato i
torti del mondo, la penna ha ingaggiato una lotta furibonda con la spada,
restituendoci, pian piano, una briciola di splendore, una goccia di umanità.
E’
l’essere liberi che ci rende uomini. Senza il libero arbitrio non siamo
niente, solo automi impotenti, è questa maledetta possibilità di fare il male,
è questa guerra senza tregua con la tentazione, è questo continuo sbagliare e
correggerci che ci rende unici. Speciali.
L’uomo
non è sempre buono, inutile illuderci. Il male esiste, c’è, cova nel
profondo delle nostre anime, non serve andare in Afghanistan per incontrarlo.
E’
da questa consapevolezza che bisogna partire, per lasciare il porto di una
riflessione intimistica e domandarsi il senso del mondo attorno a noi. Si può
abolire il male? Qualcuno c’ha provato, per decreto, è il vicolo cieco
dell’utopia. Però si possono minizzare i danni, si può trovare un sistema,
si può immaginare un’istituzione. Quest’istituzione è la libertà.
Qualcuno
scriverà che sono paranoie superate, che il caso svizzero dimostra quanto
abbiamo torto, la libertà è una chimera e noi invece abbiamo bisogno di
concretezza, di autorità, di controllo. La Svizzera è il paese più libero del
vecchio continente, un’isola felice nel tempestoso mare dello statalismo. “E
avete visto cosa è successo”.
Gli
stessi commentatori tuoneranno contro l’articolo 13 della legge federale
sull’esercito e sull’amministrazione militare, sezione due. Quello che
istituisce il diritto-dovere per un cittadino di portare armi. “E avete visto
cosa è successo”.
Una
chiosa. Negli Stati Uniti, dove il porto d’armi è libero o quasi, le
rivoltelle vengono brandite contro i criminali due milioni di volte l’anno,
servono a prevenire più che a commettere il male. Solo che non fa notizia, come
gli anni di quiete armata (letteralmente) di cui hanno goduto i nostri cugini
elvetici.
Chi
sostiene che la possibilità di detenere un’arma rende ogni svizzero un
potenziale cecchino, è come chi dice che i coltelli di plastica serviti per il
pranzo sugli aerei rendono ogni passeggero un possibile dirottatore. Le pistole
non sparano da sole, c’è qualcuno a premere il grilletto.
Il
grande pregio della libertà è che ci permette di evitare che i pazzi, o i
malvagi, si impossessino delle leve del potere. Lo stragista di Zug, se fosse
stato in un Paese totalitario, se fosse stato inserito nei gangli della
burocrazia, avrebbe potuto evitare di sporcarsi le mani. Semplicemente avrebbe
compilato una lista, l’avrebbe consegnata ai suoi sottoposti e zac!, una firma
e alcune vite si sarebbero volatizzate.
Messa
giù dura, detta cruda cruda, è questa la differenza. E non è una differenza
da poco. Adolf Hitler ha ucciso sei milioni di ebrei senza che una sola goccia
di sangue cadesse sulle sue mani. S’è fatto eleggere, s’è installato al
potere, ha firmato un ordine, l’ha girato ai suoi passacarte, agli Eichmann di
turno, e milioni di voci si sono spente. Hitler era lo stesso baffetto che proibì
il possesso di armi, “che le razze inferiori non devono toccare”, e che non
ammetteva i fumatori nel proprio ufficio. Basta a farne un esempio di virtù?
Il
mio sarà un pensiero minimalista, non lo metto in dubbio. Ma quello che mi
sembra importante, ora come non mai, è indovinare un sistema che possa impedire
ai pittori falliti e rancorosi di diventare un nuovo Hitler, un nuovo Stalin.
E’ questo il miracolo della libertà, che magari non sempre funziona, che
magari è costellato di prezzi da pagare, di cronache uggiose e deprimenti. Ma
le preferisco ai luccicanti bollettini di regime, meglio accettare l’uomo, con
tutti i suoi difetti e tutti i suoi misteri, che volerlo cambiare, riforgiare
dal nulla, per ritrovarsi con un frankestein mostruoso.
Pensiamoci,
ricordiamoci del passato prima di cedere alla tentazione del “controllo”,
prima di abiurare noi stessi giurando che è meglio vivere schiavi che rischiare
di morire. Lo disse bene Benjamin Franklin, fra i padri di quel sogno di libertà,
la città rilucente sulla collina la chiamava Reagan, che si chiama America.
“Coloro che baratterebbero la libertà per una sicurezza temporanea, non si
meritano né la libertà né la sicurezza”. E noi, ce le meritiamo?