Lettera da un mondo senza multinazionali
DI ALBERTO MINGARDI
Cara Giò, tu sì che hai fatto
la scelta giusta. Se non sbaglio, te ne andasti ad agosto del 2001. “Ti
saluto, io qui non ci sto più”. Me lo ricordo come fosse ieri, e io che
volevo dissuaderti, ma cosa fai, ma dove vai. Fossi scappato anch’io. Come
sai, non posso più: evadere dall’Unione Europea è ormai missione
impossibile, ho perso l’ultimo treno. Vorrei essere con te a Santiago del
Cile, vorrei bermi una Coca-Cola. Non sai cosa darei per un cheeseburger.
L’avevi vista giusta, Giò.
Quando hai cominciato a sentire Ruggiero che tratta, il Berlusca che accorcia le
distanze, il Papa che li fiancheggia, hai fatto i tuoi due conti. “Questi sono
più pericolosi di quel che sembra, io me ne vado”. Avevi ragione. Mannaggia
se avevi ragione. Sembra ieri, è stato dieci anni fa. Il G 8 che si è chiuso
nel nulla, e poi i moti di piazza, il morto che c’è scappato, Luca Casarini
che parla alla nazione. Fu l’inizio della fine. Non mi dimenticherò mai
Berlusconi che s’affanna, che media, che ammicca, e infine che se ne va,
la lettera di dimissioni in una tasca, il biglietto per Nairobi nell’altra. E
gli è anche riuscito di sbolognare allo Stato le sue televisioni. Che lenza.
E Fini, te lo ricordi Gianfranco
Fini? Il Ken-doll della destra italiana, come lo chiamavano a Washington. Fini
che stringe la mano a Bertinotti, il governo di unità nazionale e socialista,
Prodi che plana su Roma e poi il grande patto Jospin-Schroeder-Agnoletto. La
Tobin Tax europea, la ratifica del Trattato di Kyoto. Mio padre ha perso il
lavoro così, lo sai. Lui e tre milioni e fischia di europei. “Non possiamo
subordinare la difesa dell’ambiente allo stipendio di due sfigati”, se la
rideva il ministro Realacci in televisione. Io sono meno contento. Abbiamo
venduto la casa, ma era troppo tardi per emigrare, la Svizzera ha le frontiere
serrate e i caschi rossi Ue sparano a vista a chi s’avvicina al confine, a
Chiasso. Così ci arrabattiamo. Non si fuma più, non si mangiano carni rosse,
adesso vogliono muover guerra alle caramelle mou - non si vive, si sopravvive.
Qualcuno sopravvive più dignitosamente di altri. Maurizio Costanzo spadroneggia
in tivvù, il dibattito (almeno in teoria) la fa da padrone, bisogna decidere se
rimanere al livello attuale di tassazione del 70% del reddito oppure se scendere
al 69,9%, siamo in democrazia che diamine.
Lo spaccio di Nike e altri
prodotti delle multinazionali è stato minimizzato dopo l’ultima retata. Non
riesco a procurarmi neanche un’unghia di Nescafé - il mio pusher, un tizio a
Milano che riusciva a portare a casa ogni tanto del Nesquik, se andava bene
cioccolato svizzero, se andava alla grande qualche succo tropicale, è stato
preso e messo in gattabuia.
E scusami se questa lettera è
manoscritta, lo so che farai fatica a leggere, ma da quando abbiamo chiuso le
frontiere e abbiamo dovuto restituire i nostri personal computer americani o
giapponesi, l’alta tecnologia made in France costa un occhio della testa. Non
posso permettermela, e se anche potessi, Internet me lo devo scordare, non c’è
un software europeo che valga una cicca.
Eppure Prodi ieri sera in
televisione ci ricordava che scelta lungimirante abbiamo fatto, che grande
esempio di umanità siamo. Sarà. Ma due giorni fa ero a Roma da un amico, uno
che è riuscito a riciclarsi, lavora al Partito e fa la bella vita, e sono
riuscito a sbirciare un ritaglio del “Wall Street Journal”. Loro lo leggono.
E quando ho letto dei trionfi new economy del Pakistan, del reddito pro-capite
che si decuplica a Bangkok, dei successi commerciali dell’Argentina, Agadir
capitale dell’information technology mi ha preso un senso d’ilarità. Un
po’ come quando avevamo ridichiarato guerra alla Somalia, per salvarli dalle
multinazionali americane, e a Adua ci hanno rimandati a casa (e poi dicono che
la storia non si ripete).
Devo salutarti, spero che questa
lettera arrivi da qualche parte. Il mio amico mi ha garantito che farà del suo
meglio. Incrocio le dita. Te lo confesso: alla fine, la camicia bruna (marrone,
va be’, dicono marrone) me la sono messa anch’io. Cosa volevi che facessi?
La indosso e marcio a passo lento verso le mie due ore al giorno di lavori
socialmente utili. A chi, a cosa, non fare di queste domande, tanto nessuno sa
rispondere e forse forse è un bene.
15 luglio 2011.
tratto da Libero-Opinioni Nuove