“Il
sesso nel quale sono coinvolte le prostitute
Non
aveva probabilmente torto, Irene Pivetti, quando il 14 dicembre scorso, sul
quotidiano telematico “il Nuovo” ha scritto che “contro il mestiere più
antico del mondo nessuno la spunterà mai, perché ci sarà sempre offerta finché
ci sarà domanda, e domanda ci sarà finché il testosterone vorrà fare la sua
parte senza implicazioni sentimentali”. E ha ragione da vendere a dire che
legalizzare la prostituzione “sarebbe come legalizzare lo spaccio della droga
“ .
E
aveva ragione, contro le sue stesse intenzioni, in almeno tre sensi.
Innanzitutto, perché droga e prostituzione hanno in comune il fatto di essere
due fenomeni con i quali l’umanità convive da sempre. In secondo luogo, e
contrariamente a ciò che lei stessa sembra ritenere, perché altrettanto
analoghi sono gli effetti che il proibizionismo di Stato ha sortito in entrambi
i casi, e che sono sotto gli occhi di tutti. In terzo luogo, perché non meno
deprecabili sono l’idea di una “droga di Stato” o di una “prostituzione
di Stato”.
Il
proibizionismo, innanzitutto. Il suo fallimento, tanto di fronte allo spaccio di
droga quanto alla prostituzione, è talmente palese che non c’è neppure
bisogno di argomentarlo. Su questo, ci pare sufficiente osservare che il
fallimento dei provvedimenti statali antiprostituzione, tanto che colpiscano il
solo cliente, la sola prostituta, o entrambi, rispecchia il fallimento di ogni
forma di proibizionismo che pretende di applicarsi a fenomeni per i quali,
giustappunto, esiste una forte domanda sociale (droga, gioco d'azzardo, ecc.).
Del resto, il proibizionismo sulla prostituzione non solo ha fallito, come
dimostra il fatto che, a dispetto di maximulte ai clienti e tante altre trovate
le nostre strade restano piene di prostitute, ma finisce per danneggiare quelle
stesse donne i cui destini la retorica dei politicanti alla Pivetti sostiene di
avere a cuore.
Un
esempio tra tutti: la condizione di clandestinità in cui le prostitute sono
respinte finisce per scoraggiarle dal rivolgersi alla polizia in caso di
violenze. Dato che la denuncia viene da una "criminale", si deve
supporre che la sua parola non sarà presa sul serio. La criminalizzazione della
prostituzione e il suo relegamento ai margini della società finiscono poi per
determinare un netto peggioramento delle condizioni di lavoro, per cui, anche in
questo caso, la clandestinità finisce per mettere le lavoratrici (e i
lavoratori) del sesso (prostitute, transessuali, ecc.) a diretto contatto con
altre attività illegali .In molti casi, poi, le leggi antiprostituzione
finiscono non solo per esercitare un'ulteriore forma di censura e di oppressione
sulle donne, ma per esporle ulteriormente a violenze e soprusi: in molti paesi,
le prostitute vengono schedate ed etichettate come tali, anche sui documenti di
identità, e molti stati le rifiutano. Il tutto non solo si traduce in una
inaccettabile restrizione della libertà di movimento, ma finisce per convincere
le donne a rimanere nel silenzio, per evitare di essere marchiate.
Ma,
accanto alle considerazioni di carattere utilitaristico, c’è un’altra
ragione per rifiutare ogni forma di legislazione repressiva nei confronti della
prostituzione, ed è che il proibizionismo, indipendentemente dai suoi
risultati, è immorale. Ed è immorale
non solo perché sortisce effetti peggiori dei mali che pretenderebbe di
estirpare, ma perché, con buona pace della Pivetti, viola in più di un aspetto
la libertà degli individui che vi sono coinvolti. Neppure la più repressiva e
draconiana normativa antiprostituzione può infatti cancellare il fatto che
l’esercizio della prostituzione, in sé e per sé, altro non è che un
"crimine senza vittime", ossia, nella fattispecie, un libero scambio
fra individui adulti e consenzienti, che non danneggia nessuno se non la
sensibilità di qualche terzo che non è minimamente coinvolto nella
transazione.
“Il
punto – sostiene la Pivetti - è se io società, se io Stato posso dire ai
miei cittadini che la prostituzione è un mestiere, e che quella è una vita
come un'altra. E cioè non solo che, come tutti gli altri, è un lavoro che
produce un reddito su cui si devono pagare le tasse, e dal quale avere ferie,
liquidazione e pensione, ma che come ogni altro può avere una carriera, può
dare gratificazioni, realizza la personalità, favorisce la socializzazione - è,
in ultima analisi, un diritto e luogo di altri diritti.
E non si venga a dire che c'è chi lo sceglie: ammesso e non concesso - ma
proprio non concesso - che vi sia una sola donna che, potendo fare altro,
preferisca mettersi in affitto, la verità è che ormai la prostituzione non ha
più niente a che vedere con le artigianali senorine della guerra o con le poche
migliaia di praticanti che l'onorevole Merlin vedeva ai suoi tempi.”
Innanzitutto,
alla signora Pivetti occorre dirlo eccome, e poco importa se non è disposta a
concedercelo: quel lavoro c’è davvero
chi se lo sceglie. Studi
condotti negli Stati Uniti (Wendy McElroy, Jennifer James) hanno messo in luce
una gamma vastissima di motivazioni che possono indurre le donne a diventare
prostitute. La prostituzione ad esempio, attrae molte donne povere perché non
richiede un alto grado di istruzione o di competenze professionali. “Nello
svolgere una ricerca femminista – ha scritto Wendy McElroy – ho incontrato
molte prostitute (la maggior parte di loro preferisce la parola puttana):
sono donne intelligenti, mature, in possesso di un pensiero articolato, le quali
insistono nel ribadire che la prostituzione è una loro “scelta”: insistono
che non sono state costrette forzosamente, per motivi economici o altro, a
vendere i loro corpi. Forniscono vari motivi per essere diventate prostitute;
una vena di esibizionismo, un desiderio di guadagnare un bel po’ di denaro con
un impegno di poche ore, un senso di ribellione contro la morale sessuale della
società”. Parole che smentiscono clamorosamente il mito, patriarcale e
femminista ad un tempo, che dipinge la prostituta necessariamente come schiava o
come persona con problemi emozionali, o comunque “anormale”.
Ma
il nocciolo della questione non è neppure questo: anche se si potesse
dimostrare che neppure per una donna la prostituzione è una scelta volontaria,
vi sarebbe sempre l’eventualità che almeno una
donna
decidesse di fare questa scelta. Il punto, allora, è casomai se lo Stato ha il
diritto di interferire in un’opzione di vita che, in quanto tale, non
danneggia i diritti di nessuno, e ha unicamente a che vedere con il libero
esercizio della propria libertà sessuale, della propria libertà economica, e,
in molti casi, della propria libertà di associazione. E' apparentemente
bizzarra, ma in realtà niente affatto casuale, la coincidenza di posizioni tra
la cattolica iperintegralista Pivetti e un certo tipo di femministe,
particolarmente attive negli Stati Uniti, che pretendono di negare ogni reale
consistenza alla libera scelta di una donna di avere rapporti sessuali con chi
vuole. In realtà, una delle più forti spallate al sistema patriarcale è stato
il riconoscimento del diritto della donna non solo a dire di no a rapporti
sessuali non desiderati, ma anche a dire sì a rapporti desiderati (per amore,
per piacere, e anche per denaro). La prostituzione non è altro che un aspetto
particolare del diritto di ogni individuo adulto e consenziente ad intrattenere
rapporti sessuali con chi preferisce.
In
secondo luogo, si è detto, il libero esercizio della prostituzione ha a che
vedere con la libertà economica, ossia con il diritto di ciascun individuo a
disporre come meglio crede della sua proprietà: dei propri soldi nel caso del
cliente, del proprio corpo nel caso della prostituta. Visto anche in
questo caso dalla prospettiva della prostituta, il punto è se la donna ha o no
diritto di vendere i propri servizi sessuali. E allora, anche in questo caso,
alla signora Pivetti bisogna dirlo chiaro e forte: la prostituzione è, o può
essere, un lavoro, e pertanto “un diritto e un luogo di altri diritti”.
Per
quanto possa risultare inaccettabile alla sensibilità di Irene Pivetti (e,
d’altro canto, del mainstream femminista
non solo americano), il modo in cui la prostituta fa commercio dei propri
servizi – qualora non intervenga la coercizione, cosa che, con sua buona pace,
avviene eccome - non è diverso, nella sostanza, da quello in cui moltissime
altre lavoratrici (e lavoratori) esercitano le loro prestazioni lavorative:
un'avvocatessa vende la propria competenza legale e la propria abilità
oratoria, una scrittrice vende la propria abilità con le parole, una
ricercatrice vende le proprie competenze scientifiche, e così via. Tutti i
lavori, del resto comportano proprio la vendita di prestazioni di parti del
proprio corpo: un'operaia vende quelle delle proprie mani, una dattilografa
quelle delle proprie dita, un'atleta quelle dei propri muscoli, e così via.
"Io - ha dichiarato una prostituta inglese, Eva Rosta - ho scelto di
vendere il mio corpo nel modo che preferisco, e ho scelto di vendere la mia
vagina".
Il
deliberato rifiuto della Pivetti a credere che ci siano donne per le quali la
prostituzione è una scelta, è certo legittimo come qualsiasi altra opinione.
Illegittima è invece la pretesa che lo Stato agisca in modo paternalistico
proteggendo le donne innanzitutto da loro stesse e dalle loro libere scelte,
tantopiù che le leggi che vietano la prostituzione, di fatto, danneggiano in
primo luogo le prostitute, che, costrette in un mercato nero, sono esposte alle
minacce ed alle violenze dei clienti e dei protettori.
Un
altro risvolto illiberale delle leggi proibizionistiche, in special modo quelle
che vogliono ostacolare la creazione di bordelli, è poi il fatto che violano la
libertà di associazione. Anche in questo caso, del resto, le considerazioni che
riguardano la natura più o meno illiberale della normazione si intrecciano
strettamente con i suoi effetti pratici: se due o più prostitute vogliono
associarsi perché si sentono più sicure, vi sono leggi che lo vietano: la
legislazione antiprostituzione, come ha scritto Wendy McElroy, vuole donne
isolate, sole, vulnerabili. Non soltanto lo stato non riconosce, di fatto, il
diritto di proprietà della donna (sul proprio corpo) e la sua libertà
economica (decidere come, quando, a chi e a che condizioni vendere i propri
servizi), ma pretende di isolare alcune donne dalla società, e finanche di
cancellarne l'identità. Nel secolo scorso, ad esempio, le prostitute registrate
erano private dei documenti di identità e "librettate", ossia fornite
di un particolare libretto contenente i dati anagrafici dell'intestataria. Le
prostitute, ovviamente, cercavano in ogni modo di eludere la schedatura, anche
attraverso la corruzione degli ufficiali di polizia, sicché finì per
diffondersi una pratica della prostituzione part-time e clandestina, che
consentiva alle donne di entrare o uscire dalla prostituzione e di formare una
famiglia Con gli anni, la prostituzione clandestina aumentò sempre di più, a
scapito di quella legale.
Ma
se l'ingerenza dello stato sotto forma di legislazioni proibizionistiche si
dimostra fallimentare, non meno perplessità dovrebbe suscitare l'ipotesi di una
regolamentazione statale. E questo non tanto per l'abusato e moralistico
argomento del "lenocinio di stato", quanto per i danni che anche
"soluzioni" di questo genere finiscono per creare. Non a caso, sono
spesso le prostitute le prime a rifiutare la regolamentazione, la quale
finirebbe per istituzionalizzare soltanto gli aspetti peggiori della
prostituzione. La vendita di sesso, infatti, "riemergerebbe", ma, di
fatto, seguiterebbe ad essere vietata, se non nei termini e ai prezzi stabiliti
dallo Stato.
Le
prostitute dovrebbero sottoporsi a periodiche visite mediche, ma non con il
medico che preferiscono, bensì, anche in questo caso, con quello imposto dallo
Stato: in questo senso, la posizione di “Civiltà cattolica”, secondo cui
alle donne che scelgono di prostituirsi dovrebbe essere concessa la possibilità
di sottoporsi a “visite mediche non obbligatorie ma agevolate ed efficaci per
limitare i rischi di contagio” ha se non altro il pregio di essere un poco
meno illiberale di tante altre.
Ma
soprattutto, l'obbligo di pagare le tasse e le restrizioni alla libertà
finirebbero per togliere alla vendita di sesso le caratteristiche che la rendono
attraente agli occhi di molte prostitute: l'autonomia con la quale queste
professioniste decidono i loro prezzi, i loro orari, ecc. Nel 1877, nel pieno
delle discussioni fra "regolamentaristi" e "abolizionisti"
(che si battevano per l'abrogazione dell'allora vigente legislazione sulle
"case chiuse", il cosiddetto "regolamento Cavour"), il
ministro dell'Interno del governo Depretis, Giovanni Nicotera, denunciò in
questi termini l'intromissione di stato nella prostituzione: "Un'ingerenza
fastidiosa e minuta dell'autorità, in particolari dove non apparisce richiesta
da veruna plausibile ragione; le donne sospette di meretricio sottoposte ad un
arbitrio sconfinato e senza controllo da parte degli infimi agenti della
polizia; nessuna guarentigia valevole a prevenire equivoci che possono gettare
lo scompiglio e la desolazione nelle famiglie; l'autorità governativa che
discende fino al punto di regolare il prezzo della prostituzione e i lucri dei
tenenti postribolo, e persino gli accordi e i contratti tra questi e le
prostitute". Al contrario, è proprio il grado di controllo sul proprio
lavoro che rende la vendita di sesso attraente per molte prostitute, che
rivendicano l'autonomia e la legittimità della loro scelta.
Come ha scritto Wendy McElroy, "le prostitute chiedono rispetto, non
pietà né accondiscendenza. Ma soprattutto, le prostitute vogliono essere prese
sul serio". Anche come lavoratrici. Ripetiamolo ancora una volta:
l’esercizio della prostituzione è un lavoro, e lo scambio di servizi sessuali
in cambio di denaro è a tutti gli effetti un legittimo atto di capitalismo tra
adulti consenzienti. Per questo, risulta inaccettabile qualunque legislazione
che, sulla base di una concezione pedagogico-propagandistica del diritto che
pretende di favorire l'introiezione di un senso di ripulsa verso atti che si
considerano moralmente riprovevoli attraverso la solennità della loro sanzione
penale, limiti il libero esercizio della prostituzione, e, con esso, dei diritti
di proprietà, di scelta e di associazione.
In
particolare, è fondamentale che le prostitute possano esercitare il pieno
diritto di associarsi e di dar vita ad aziende di commercializzazione di servizi
sessuali (e, a questo proposito, non si capisce perché la recente proposta di
Livia Turco preveda soltanto la forma cooperativa: una limitazione che non si
spiega se non come riflesso di una mentalità anticapitalistica e cattocomunista
che vede nelle cooperative l’unico tipo di aziende nelle quali il lavoratore
non è soggetto a sfruttamento). Gli stessi gesuiti di “Civiltà Cattolica”,
poi, ritengono che, sul piano legislativo, “si potrebbe eliminare il reato di
agevolazione, per orientare l’esercizio della prostituzione almeno in luoghi
più protetti che non la strada”. Si può vedere in questa richiesta un segno
di quel realismo pragmatico che spesso caratterizza i gesuiti. In realtà, sulla
questione delle strade il punto fondamentale ci pare un altro, e lo diremo
subito dopo. Quanto al reato di favoreggiamento (o di “sfruttamento”) della
prostituzione, davvero non si comprende come una donna che intende esercitare il
proprio diritto a vendere servizi sessuali non possa accordarsi con qualcuno che
a propria volta le fornisca servizi di protezione e di intermediazione (che tra
l’altro hanno l’effetto, come ha dimostrato l’economista libertario Walter
Block, di diminuire i prezzi favorendo l’incontro fra domanda e offerta, come
avviene con qualsiasi agente di commercio).
Una
prima, ovvia osservazione a cui queste considerazioni si espongono è ovviamente
il disagio con cui molti cittadini vivono il crescente affollamento delle strade
e delle periferie urbane di donne disponibili a vendere il proprio corpo.
Disagio, ovviamente, non meno legittimo, e richiamato anch’esso dalla rivista
dei gesuiti, i quali riaffermano che il millenario fenomeno della prostituzione
deve essere “vietato in luogo pubblico o esposto al pubblico”. A pochi,
finora, sembra però essere venuto in mente che il problema stia non tanto nella
presenza delle prostitute, quanto proprio nella natura pubblica di quegli spazi. In realtà, è tutt’altro che casuale il
fatto che i luoghi in cui il fenomeno si manifesta nei suoi aspetti più molesti
sono generalmente strade e parchi sottratti alla proprietà privata, e requisiti
dal demanio pubblico. Di fatto, come dimostrano le esperienze ormai ampiamente
collaudate delle “privatopie” americane, una gestione privatistica degli
spazi attualmente pubblici darebbe agli abitanti di un singolo quartiere o
condominio la possibilità di esercitare liberamente il proprio diritto di
inclusione e di esclusione, e di vietare l’ingresso all’interno dei propri
spazi di elementi indesiderati (in questo caso, i clienti e le prostitute).
Ad
esempio, potrebbe accadere che tutti i proprietari di terreno di un determinato
isolato potrebbero diventare comproprietari dell'isolato stesso, formando una
compagnia, la quale fornirebbe la protezione di polizia, i cui costi sarebbero
sostenuti o direttamente dai proprietari di case o tramite il canone degli
inquilini, nel caso in cui vi fossero appartamenti dati in affitto. I
proprietari di case avrebbero un notevole interesse a garantire la sicurezza del
loro isolato, e ad escludere gli elementi indesiderati che non detengono diritti
di proprietà nell'area in questione, incluse, eventualmente, le prostitute.
A
propria volta, la protezione di polizia fornita da agenzie private non farebbe
che estendere al campo della sicurezza quel principio di concorrenza che, come
sempre più persone riconoscono, è la miglior garanzia di efficienza e di
qualità. Dl resto, gli istituti di vigilanza privata già esistono, e, secondo
alcune stime, rappresentano ormai la terza forza di polizia italiana per numero
di addetti (ma forse la prima quanto a personale effettivamente schierato sulle
strade). Se negozi, banche, fabbriche, centri commerciali hanno già,
all’interno della loro proprietà, guardie e sorveglianti, un'ulteriore
estensione del metodo di gestione privatistica non farebbe altro che estendere
tale sano ed efficiente sistema anche alle strade.
Per
altro verso, le prostitute stesse sarebbero libere di acquistare appartamenti,
palazzi, strade, o al limite interi quartieri nei quali esercitare il proprio
lavoro senza interferire con la libertà di chi non gradisce assistere ad atti
di mercimonio sessuale.
La
soluzione al problema di luoghi pubblici affollati di prostitute e clienti non
graditi dagli abitanti dei quartieri circostanti passa quindi, evidentemente,
attraverso la "riappropriazione comunitaria" di aree sulle quali fino
ad oggi era mancata la possibilità di controllo da parte degli abitanti.