DI ALBERTO MINGARDI
Piaccia o non piaccia, l’astensionismo è una
costante delle società avanzate. Sempre più persone decidono di disertare le
urne e, se permettette, con ottime ragioni.
Purtroppo la nostra realtà è caratterizzata da vizi neanche ideologici,
culturali, che ci spingono ad abbracciare alcune bizzarre teorie. Per esempio,
siamo convinti che l’etica abbia in qualche modo a che fare con il sacrificio
personale. Chi si “sacrifica” (o, più spesso, dice di farlo) è
generalmente visto come un esempio per la comunità, quasi che il destino voglia
saggiarci quotidianamente o che il Signore non desideri che i suoi figli vivano
felici. Quest’atteggiamento “passa” nella vita di ogni giorno andando ad
alimentare tutta una serie di luoghi comuni. Il più abusato è che chi fa
qualcosa senza riceverne nulla in cambio, sia degno d’ammirazione e riverenza.
Come può constatare qualsiasi bambino di terza elementare, è un’idea
piuttosto stupida: se ammazzare il mio vicino di casa non mi dà nessun
vantaggio, e lo faccio “gratis”, sono un pazzo non un brav’uomo. Eppoi è
sostanzialmente un punto di vista antiumano: quel che ci distingue dalle bestie,
infatti, è che siamo “animali razionali”. Si badi, non in relazione ai
“fini” (soggettivi, opinabili, irrazionali sovente), ma per quel che
riguarda i mezzi: l’uomo cerca puntualmente la strada più breve per
conseguire quanto si propone.
Non è soltanto una nostra dote, siamo costretti alla razionalità. Per un sacco
di buoni motivi, le risorse (il tempo, soprattutto) sono “scarse”, abbiamo
informazioni molto limitate su ciò che ci circonda, per stare al mondo dobbiamo
continuamente scegliere. Non si scappa, ogni azione implica una scelta, e il
meccanismo che ci porta a decidere è la nostra capacità di fare un
ragionamento in termini di costi e benefici. Mettiamo sul piatto gli uni e gli
altri, e vediamo, per farla breve, “cosa ci conviene”.
Lo stesso succede quando scegliamo di andare a votare o no. Faccio il mio caso:
vivo fuori paese, il che non significa che pascoli assieme alla capre, ma poco
ci manca. Vuol dire che, per recarmi al seggio, dovrei vestirmi di tutto punto,
uscire di casa e prendere la macchina. Ognuna di queste azioni porta con sé una
serie di “rischi” possibili, in cui posso incappare. Potrei spruzzarmi il
profumo (guai uscire in disordine) negli occhi e perdere l’uso della vista -
ma è poco probabile. Potrei cadere facendo le scale per arrivare al garage e
fratturarmi l’osso del collo - ma è poco probabile. Potrei fare un incidente
stradale e, questo è decisamente più probabile. Basta un attimo, una
distrazione, penso a come si chiama il candidato al Senato del mio collegio e
zac sbaglio una curva ed è andata.
Facciamo finta che sia, fortunosamente, arrivato al seggio. Lì mi tocca entrare
in una scuola elementare fatiscente, e mi prende il magone. Aggiungete che devo
fare la coda (m’incazzo) e poi ancora tornare a casa. Lo ammetto: non è
esattamente un’avventura alla Indiana Jones. Ma resta un costo, anche
notevole: perché magari non mi piace guidare, perché corro dei rischi,
soprattutto perché stando in fila mi deprimo, tanto basta per rovinarmi una
giornata.
Guardiamo l’altro piatto sulla bilancia, i benefici. Che cosa mi viene in
tasca dall’essere andato a votare? Assolutamente nulla: non stiamo parlando
dell’elezione di un sindaco in un paese di mille abitanti, qui il mio singolo
voto non sposta una virgola. Il fatto che vinca Tizio o Caio significa solo che
(con le tasse che pago) mi toccherà mantenerne uno dei due - prospettiva mica
tanto esaltante. E di fatto, votando, va a finire che butto via mezz’ora della
mia vita. L’avrei potuta usare in modi più piacevoli, più soddisfacenti,
remunerativi.
Il discorso potrà sembrarvi disdicevole, immorale, ma spiega bene il motivo per
cui molti s’astengono. Non ci sono incentivi per fare altrimenti. Praticamente
andare a votare è una scelta masochistica, o almeno così dice l’economista
Heckelman (Università del Maryland) in un articolo del 1995 uscito su “Public
Choice”. Il professor Heckelman argomenta che l’astensionismo è una
conseguenza, più o meno diretta, dello scrutinio segreto. Mi spiego: col voto
palese, è molto facile, per i partiti, sapere chi li ha votati e come
ricompensarli. Nasce così una sorta di “mercato dei voti”: tu fai la x sul
mio nome, io ti do questo quello e quell’altro.
Che orrore che vergogna, diranno i benpensanti. Peccato che sia un meccanismo
molto più onesto di quello cui siamo sottoposti noi. Anche oggi, c’è gente
che va a votare e le viene in tasca qualcosa. Ci sono personaggi che “spostano
voti” e ne ottengono un certo vantaggio, al Meridione e non solo. Costoro non
faranno mai parte del popolo degli astenuti, perché i “costi” che
rappresenta l’andare a votare, sono ampiamente bilanciati dal beneficio che si
ottiene con la vittoria del proprio “santo in paradiso”.
Intendiamoci: se, per una crocetta tracciata su un dato nome (un atto di per sé
ridicolo, e senza alcun significato ideologico), mi garantissero uno stipendio
da due milioni al mese, mi fionderei al seggio anch’io. Non solo, farei di
tutto per convertire i miei amici, parenti, vicini di casa. Il problema è che
non è così, e se nessuno parla più di “voto di scambio”, tuttavia il voto
di scambio ancora esiste e fa la differenza fra gli elettori ligi al
diritto/dovere e quelli che, piuttosto che ridursi complici della classe
politica, “vanno al mare”.
Be’, mi sono stufato. E come quei pazzi che in America hanno messo all’asta
il loro voto, faccio lo stesso anch’io.
Cari berluscones, per barrare la casella della “Casa delle libertà”,
m’accontento del rimborso spese nudo e crudo. Se Bertinotti mi vuole, io,
ultraliberista, sono a sua disposizione per la modica cifra di un milione di
lire. Quanto all’Ulivo... Mastella, telefonami.