Napster e la libertà di copiare.

di Paolo Pamini

paolo.pamini@lionsexchange.ch

Il recente ordine di sospendere l’attività di Napster, un software che permetteva agli iscritti di scambiarsi facilmente files musicali nel nuovo formato “mp3” (che occupa circa un decimo dell’abituale spazio di un CD), ci permette di aprire un vasto discorso sulle interazioni tra tecnologia e diritto. Va da sé che il caso americano tocca sul vivo i diritti d’autore, e con essi soprattutto gli utili milionari del mondo discografico.

La prima impressione da una veloce analisi dei fatti ci riconduce metaforicamente a una lite tra due bambini che sta per esser risolta dai genitori, i quali molto probabilmente prenderanno una decisione senza sapere esattamente che cosa sia successo tra i pargoli. I giudici americani non sembravano infatti troppo interessati ai dettagli tecnici della faccenda, mostrando chiare lacune in merito (si credeva per esempio che l’indirizzo IP stesse per “intellectual property”, anziché il corretto “internet protocol”).

Davanti a un fenomeno del genere, ma soprattutto davanti a più di 20 milioni di persone coinvolte, è difficile rimanere indifferenti. Prima di tutto dovremmo chiederci come reagirà la società intera alla decisione giudiziaria, soprattutto quali alternative automaticamente si apriranno. È facile pensare che Internet resterà colma di musica gratuita, probabilmente semplicemente un po’ più nascosta di ora. Altri siti di scambio di materiale, anche video, peraltro già esistono, e la decisione di sospendere Napster non potrà che trasformarsi in una loro indiretta sovvenzione.

Sembra proprio che da questi cambiamenti non si possa fuggire. Ma è per forza un male? Lo stato delle cose è sempre in evoluzione, e i colossi discografici avrebbero forse fatto meglio a cavalcare l’onda delle nuove tecnologie e delle nuove porte apertesi, piuttosto che ciecamente guardare indietro verso vecchie soluzioni (che sembrano ormai rivelarsi inutili nei fatti) e correre così in cerca dell’aiuto dello Stato.

Rimane dubbio anche il fatto che il governo riesca proprio laddove la Sony ha fallito: nella difesa dei diritti sul copyright.

La retorica ufficiale ama parlare di utenti “addescati”. Senza dimenticarne tuttavia il numero, è lecito chiedersi quanto illegale sia il libero scambio di materiale musicale senza fini di lucro.

Al di là delle vicende tecnocratiche e tecnologiche il caso Napster ci serve su un piatto d’argento la tematica dei diritti d’autore, che leggeremo soprattutto in chiave economica.

 

I diritti d’autore

 

Notoriamente sotto questo termine si intende la proprietà sulle idee, più precisamente su invenzioni tecnico-scientifiche o su opere d’arte.

È interessante considerare la nascita di tali leggi. Pur essendo vecchie, non lo sono in realtà più di quel tanto. Riscontriamo nella Boemia cinquecentesca di Venceslao II, o ancora proprio in quel periodo nella Serenissima, i primi casi di “privilegi”, termine scelto non a caso. La piena affermazione della proprietà intellettuale arriverà solo nel secolo successivo, introdotta soprattutto in Inghilterra dal re, quando decise di distribuire patenti ai tipografi. Lo scopo era chiaro: controllare quanto venisse pubblicato, soprattutto per impedire la diffusione di testi protestanti. A pari passo con questa disposizione seguiva quindi l’obbligo di annunciare tutte le opere in stampa, cosa trasformata formalmente nel riconoscimento dallo Stato sovrano (nato nella sua piena forma solo il secolo precedente) del diritto d’autore.

Forti dibattiti sulla questione dei copyrights si ebbero soprattutto nella Francia dell’800. A loro sostegno vi furono diverse argomentazioni, dal diritto naturale di proprietà dell’opera (per esempio De Molinari), a considerazioni sugli incentivi generati da tali diritti (originariamente già in Adam Smith), a un diritto morale di proprietà e inalienabilità dell’autore dall’opera (Kant) fino a visioni consequenzialiste e utilitariste sulla necessità di tali leggi (Bentham).

Il giurista liberale Charles Coquelin tuttavia mise ben in evidenza quanto i sostenitori stessi dei diritti d’autore ne ammettessero l’incompletezza, parlando sempre di diritti limitati nel tempo (per esempio alcune decine d’anni) e non eterni, i cui proventi dovrebbero esser ereditati dai discendenti.

Se Watt in fondo fosse veramente stato padrone delle proprie invenzioni e di ciò che con queste fu creato, e badiamo che il concetto di proprietà non può esser limitato nel tempo per poi svanire nel nulla, dovremmo dedurre che circa nove decimi della ricchezza mondiale appartengano ai suoi eredi. Qualcosa chiaramente non funziona, e questo dovrebbe metterci una pulce nell’orecchio.

C’è infatti una differenza sostanziale tra il mondo delle cose materiali e il mondo delle idee: la scarsità. Proprio l’economia si occupa tipicamente di questioni di scarsità, e in questo caso il concetto di proprietà sta al centro delle riflessioni. L’istituzione della proprietà serve proprio a regolare in modo pacifico le transazioni di beni scarsi. Ma che dire delle idee, infinitamente replicabili e modificabili? Proprio il fatto che si possa copiare un’idea dimostra che non esista proprietà economica (ovvero il potere esclusivo di disporne) in questo campo. Si crea dunque un surrogato tramite l’adozione di leggi.

Se accettiamo il principio che divento padrone degli oggetti che creo, mischiando il mio lavoro personale ai materiali iniziali, risulta difficile contestare la possibilità di prendere per esempio un testo, dei blocchi di fogli bianchi, delle confezioni di toner, una fotocopiatrice, le mie competenze e il mio tempo, e non essere poi l’unico titolare del prodotto così creato, ormai differente dall’originale. Se ne sono proprietario, posso però disporne a mio piacimento, anche vendendolo e ricavandone un profitto. In alternativa stiamo affermando che il proprietario originario del testo rimane tale anche dopo le trasformazioni da me attuate, il che nega la definizione iniziale di proprietà. Come già detto, è l’assenza di scarsità che rende vacuo il concetto di proprietà. In economia si parla in questi casi di beni liberi, tipicamente senza prezzo (per esempio l’aria).

Tutta la giustificazione economica dei diritti di proprietà si fonda sulla creazione dei necessari incentivi che permettano comunque la creazione di nuove invenzioni, utili a tutti. Una scoperta genera effetti positivi anche su terzi (tecnicamente si parla di esternalità positive), che non possono esser rimunerati. Tuttavia proprio la diffusione di queste nuove idee permette un ulteriore progresso. Da queste due considerazioni si comprende la classica posizione utilitaristica, che ammette i diritti d’autore quale incentivo, ma solo per un tempo limitato per non impedire gli effetti benefici della diffusione del sapere.

 

Quali le alternative al copyright?

 

Se, almeno dal puro punto di vista teorico, il diritto d’autore è difficilmente sostenibile, dobbiamo perlomeno chiederci quali siano le alternative a tale concetto.

i) Una soluzione sarebbe di ricorrere alle conoscenze tecnologiche per impedire la diffusione indesiderata e “abusiva” del prodotto della propria creazione. Sappiamo che il principio “fatta la legge trovato l’inganno” vale anche nel campo tecnico, tuttavia è utile ricordare sistemi già oggi esistenti: la carta per fotocopie su cui compare la scritta “unauthorized copy”, l’uso di carte che generano copie interamente nere, sistemi di protezione e codifica di dati nell’elettronica, sistemi di codici,…

ii) Una seconda soluzione, soprattutto adottata in campo informatico, è il cosiddetto sistema “shareware”: il prodotto viene ceduto gratuitamente (in ogni caso la produzione di una copia ulteriore non costa nulla) e si chiede un’offerta volontaria per coprire i costi fissi e per permettere un nuovo sviluppo.

iii) Una terza via consiste proprio nel saltare la pretesa di un ricavo dalla vendita del prodotto, passando direttamente alla sua larga diffusione e miglioria di cui tutti possono godere. Si tratta di un modello di “bene comune” in cui tutti investono, profittando in toto dei vantaggi generati. Un esempio pratico lo troviamo ancora nel campo informatico: Linux, il sistema operativo alternativo a MS Windows è a disposizione gratuitamente su Internet, e regolarmente escono nuovi releases che racchiudono le migliorie proposte in modo decentralizzato dagli appassionati. Tutti i sistemi operativi cosiddetti “aperti” appartengono a questa famiglia. Un altro esempio è il sistema Epoc per i palmari della Psion, concorrente di MS WindowsCE. Nel linguaggio economico si parla di modelli di autorganizzazione o di commons.

Una variante concerne gli effetti positivi che le copie e i gadgets, per esempio in campo artistico, generano sul valore dell’originale, che gode di pubblicità gratuita.

iv) Ma le alternative non si esauriscono qui, abbiamo detto che il problema principale in materia di diritti d’autore sono le esternalità positive non remunerate. Si dice erroneamente che un’invenzione è una sorta di bene pubblico, appartenente a tutti non appena messa sul mercato. Una soluzione molto semplice consiste nell’offrire il bene “gratuito” assieme a un bene privato. Quando Macintosh elabora un nuovo processore, e ammettendo che non esistano brevetti, questo viene venduto in un determinato tipo di computer con un determinato design. Un CD musicale non consiste solo della musica, ma anche del libretto allegato, con foto e spiegazioni, che spesso è la parte più costosa di tutto il prodotto.

v) Questa riflessione ci porta direttamente su un ulteriore punto: il gusto per l’originale. Tutti sono d’accordo che non sia la stessa cosa disporre di una biblioteca di testi fotocopiati, o di una serie di cassette o CD masterizzati, piuttosto che possedere gli originali. Nel calcolo dovremmo, oltre alla perdita di qualità, includere il tempo necessario al tutto. Risulta così chiaro che soprattutto i ricchi si dirigeranno verso gli originali, e per due motivi: dispongono dei mezzi per acquistare la qualità migliore (rispetto al falso) e il loro tempo vale troppo per esser trascorso a copiare le opere (i cosiddetti costi di opportunità del tempo). In questo senso le leggi sui copyrights riguardano soprattutto i poveri, un’interessante considerazione “sociale”…

vi) Rimarrebbe ancora una possibilità, nei fatti simile agli attuali diritti d’autore, nella sostanza tuttavia diametralmente opposta: l’autore può scrivere in prima pagina la frase in cui l’acquirente, con l’acquisto del libro per esempio, si impegna di non copiare e ridiffondere l’opera. A prima vista sembrerebbe la stessa cosa, in realtà siamo passati a una relazione di puro diritto privato, in cui lo Stato gioca un ruolo marginale.

Un passo non da poco se pensiamo a come siano venuti al mondo i diritti d’autore…

Indietro