Marcia per il Libero Mercato
Marciamo per il libero mercato, di Roberto Enrico Paolini
Marciamo
per il libero mercato |
|
Aprite la vostra agenda e andate su Sabato 1 Dicembre. Penna alla mano, appuntatevi: Milano, Largo Cairoli, ore 15: la Vostra marcia. Sì perché marciare per il Mercato, significa marciare per il vostro portafoglio, per il vostro interesse individuale. Qui non si tratta di manifestare la solita solidarietà a qualcun’altro che mai incontreremo, mai vedremo: i bambini del Burundi, le donne dell’ Afghanistan ecc. Questa volta si tratta di mobilitarsi per il benessere delle nostre famiglie, dei nostri figli, senza false ipocrisie. Ma direte voi, che c’entra tutto ciò col Libero Mercato? C’entra. Quando lo stato si immischia nei nostri affari pretendendo gabelle, quando entra nelle nostre case con il pretesto di proteggerci, ecco che il Mercato fa un passo indietro. Noi vogliamo invece riaffermare il diritto a disporre della nostra vita e della nostra proprietà, liberi cioè dalla quotidiana espropriazione perpetrata dallo stato attraverso la legge e le tasse. Noi non vogliamo essere protetti, ma desideriamo difenderci da soli. Non vogliamo le sue scuole, i suoi ospedali, i suoi tribunali, la sua polizia, in quanto servizi in regime di monopolio o quasi. Auspichiamo invece un futuro dove possiamo comprarci tali servizi sul mercato, offerti da agenzie o imprese in concorrenza tra loro. Per questo ho deciso di organizzare una Marcia per “il Libero Mercato”, anche se l’espressione suona come un paradosso logico. Qualcuno potrebbe obiettare: il mercato o c’è, e allora è per forza di cose libero, o non c’è, e allora al suo posto c’è il politico, il burocrate, il funzionario. Ma in Italia, dove l’intervento della manona statale è fin troppo visibile, i soliti professionisti della mistificazione marxista, scaricando sul mercato i fallimenti dello stato, hanno infettato anche il lessico: per questi signori servono le autorities, le commissioni parlamentari, la concertazione e così via; ci hanno venduto per anni la giungla delle carte bollate e delle autorizzazioni governative per capitalismo selvaggio. Per capirsi, per dire che noi stiamo dall’altra parte, occorre parlare di Mercato “Libero”, libero da costoro. Esso non è quello descritto dagli economisti neoclassici, quello che si insegna nelle aule delle università: neutro, astratto, statico, matematico. La scuola marginalista austriaca ha dimostrato che si tratta di un processo dinamico determinato dalle scelte di individui che interagiscono tra loro. Dunque è una realtà fatta di persone, con le loro differenti preferenze soggettive, la loro cultura, la loro religione. E’ qualcosa di vivo, è una moltitudine di scambi dove entrambe le parti ci guadagnano. L’imprenditore vende un bene o un servizio a me in cambio del mio denaro: sono io consumatore che determino il suo successo. Nel mercato, il consumatore è veramente sovrano, è libero di scegliere; il cittadino, invece, è sempre subordinato al potere politico. E’ sempre suddito, in balia, ieri, del capriccio del monarca assoluto, oggi della tirannia della maggioranza; il risultato non cambia: qualcun altro decide per te, e per di più con i tuoi denari. Il socialismo voleva dar da mangiare, da vivere e da vestirsi all’umanità. Ma gli uomini preferiscono mangiare, vivere, vestirsi e cercare la felicità a modo loro. Così parlava Von Mises. Oggi direbbe lo stesso a proposito dello stato democratico: pretende di pensare al tuo posto cosa è meglio per te. Ebbene, se non vuoi essere calpestato, se vuoi essere sovrano di te stesso, se desideri disporre come meglio credi dei frutti del tuo lavoro, vieni a marciare con noi: la tua libertà è la nostra libertà. Roberto
Enrico Paolini tratto
da L'Opinione, 27 novembre 2001 |
di Roberta Tatafiore
Di marce e piazze ne abbiamo viste diverse dopo
l’11 settembre e il suo seguito di guerra: da quella dei noglobal travestiti
da diessini, e dei diessini travestiti da noglobal, ad Assisi, alla piazza
moderata dell’ USA Day di Roma. Sul fronte interno della guerra sociale la
piazza sindacale ci verrà risparmiata e probabilmente anche quella
destro-sociale contro i licenziamenti un po’ più liberi. Per la libertà
economica si preannunciano nette le walks for capitalism, le marce per il
capitalismo che nel fine settimana si terranno in 108 città e cittadine del
mondo: in Australia, in India, in Inghilterra e in tanti altri paesi, compresa
l’Italia. A promuoverle sono i libertari, o anarco-capitalisti, o
“predicatori della libertà”, come piace loro definirsi. Gli italiani “in
difesa del il libero mercato
e dei diritti individuali” si sono dati appuntamento per sabato, in
piazza Cairoli a Milano, alle tre del pomeriggio. Hanno nel cuore le tavole dei
Dieci Emendamenti della settecentesca Costituzione americana e nella
memoria hanno i nomi di Richard Cobden e John Bright, i due liberali inglesi
dell’Ottocento che, predicando predicando, convinsero prima la gente poi il
governo ad abolire le tariffe sul grano e con esse il protezionismo che bloccava
l’economia dell’Isola. I marciatori pro-global hanno dunque salde tradizioni
alle spalle.
Nel mondo occidentale di oggi che saldo non è e
che spesso sputa incautamente sulle tradizioni, anche perché le ha dimenticate,
i libertarians (il nome più chiaro per definirli) sono nemici giurati, ancorché
pacifici, dello Stato perché “esso non possiede che ciò che sottrae ai
lavoratori”, come scriveva un altro pensatore ottocentesco, al di qua della
Manica, anche lui sostenitore del libero scambio: Frédéric Bastiat. La guerra,
e le sue restrittive conseguenze sulla globalizzazione finanziaria, è un
tema di fondo dei marciatori capitalisti, e magari qualcuno di loro inalbererà
un cartello di solidarietà per Paul O’Neil, il governatore del protattorato
inglese dell’Isola caraibica Caymann che ha dovuto chinare la testa di
fronte al diktat di Bush: niente più segreto bancario. Nessun paese al mondo può
sottrarsi dal mettersi a disposizione della guerra finanziaria contro i
terroristi. Per i libertararians, ogni paradiso fiscale che cade è un colpo al
cuore. E ogni bomba che cade pure, perché sono eticamente pacifisti,
anche se, oggi, devono fare i conti con la solidarietà, altrettanto
etica, verso l’America colpita a morte e decisa a dare morte pur di
sconfiggere il nemico terrorista. Ma gli apostoli della libertà non hanno
intenzione di fermarsi di fronte alle feroci contraddizioni politiche del
presente.
E credono che
cultura e politica vanno insieme. Gli scambi via Internet, i libri, le
accademie, i circoli dove la gente si incontra e discute costituiscono la rete
della loro pratica politica. Io, confesso, ne sono un’assidua frequentatrice
perché offre modi di ragionare, punti di vista sulla storia e l’attualità
sensati anche se estremi, politicamente scorretti senza essere banalmente
trasgressivi.
Eccone un esempio che calza perfettamente con la data del 1° dicembre.
Come è noto, è anche la giornata del digiuno globale promosso da Emma Bonino
in omaggio alla libertà delle donne afgahne. Un’iniziativa lodevole, ma che
si muove sui binari della libertà-sulla-punta-del-fucile: prima la guerra, poi
la ri-occidentalizzazione del paese da trent’anni bloccato e umiliato dai
regimi religiosi dei mujaheddin, prima, dei talebani, poi. Ovvero: la
guerra con la responsabilità di modellare la pace (cosa che, tra l’altro, non
sta proprio nella testa di Bush), e per la pace ci vogliono le donne,
nelle trattative tra le fazioni vincitrici (che peraltro stanno andando a
rotoli), nel futuro governo. E’ una tipica mossa da cultura democratica
classica: il cambiamento dall’alto, il privilegio dell’emancipazione
politica di poche che rappresentano “le “altre” piuttosto che la libertà femminile individuale che non richiede
rappresentanza dei diritti ma che compete a tutte. Wendy McElroy, femminista
libertarian, la smaschera. E dal suo sito assai godibile, dalla sua autorevole
postazione tra i commentatori di Foxnews (uno dei siti d’informazione più
importanti degli Stati Uniti) lancia una proposta indecente: armi alle afghane,
subito. Non perché creino un esercito femminile in opposizione a quelli
degli uomini, o in appoggio a questa o quella fazione, ma per
autodifesa personale. Per riconoscere loro il sacrosanto diritto pre-politico di
difendere la proprietà della loro casa, del loro corpo, del corpo dei loro
bambini e bambine, dei loro vecchi. Ci stracciamo le vesti, in occidente, perché
le istituzioni internazionali (per i libertarians: articolazioni dello Stato
Globale che ci minaccia) non le hanno difese quando gli studenti del
Corano le hanno obbligatoriamente sepolte sotto il burqa, sappiamo che anche
nell’Afghanistan “liberato” grazie ai bombardamenti dei “nostri” la
maggior parte di loro non sta a Kabul e non fa parte dell’avanguardia che di
giorno si è tolta il sudario e messa il rossetto, ma vive nelle città
spettrali dove quando cala il buio può succedere di tutto, nei villaggi rasi al
suolo, nelle postazioni sconvolte dal massacro prigionieri. E sappiamo che
possono essere oggetto di scherno, di oltraggio, di stupro. Non può essere
l’Onu a proteggerle, ma un’arma a disposizione sì. Eppure, tra i e le
pro-donne che puntano
al massimo per avere il minimo (tre donne al tavolo delle trattative, una buona
percentuale di parlamentari e qualche ministra poi) la proposta non può che
suscitare scandalo.
Dunque: viva lo scandalo dei libertarians, e
delle loro marce per tenere alta la bandiera del libero pensiero, del libero
commercio, della libertà di ognuno.
Roberta Tatafiore
Tratto da Libero, 1 Dicembre 2001