Ecologia di mercato

Il libro di Lomborg

 

Cassandre ecologiste in fuga, di Nicola Iannello

Tutta la verità, nient'altro che la verità, di Andrea Mancia

Il vero ambientalismo è la  crescita economica, di Stefano Da Empoli

Non è colpa dei ricercatori, ma di chi divulga la Litania", intervista a Bjørn Lomborg di Carlo Stagnaro

Per un ecologismo federalista, di Guglielmo Piombini

Privatizziamo le balene, di Alberto Mingardi

Gli ecologisti, la dottrina del rischio zero e Cappuccetto Rosso. Quanto costa credere alle favole?, di Michele Ferrarini

 

 

Cassandre ecologiste in fuga
di Nicola Iannello

Nel 1980 due studiosi che si confrontavano in un dibattito sulle pagine della “Social Science Quarterly” fecero una scommessa sui prezzi di cinque metalli: da lì a dieci anni sarebbero aumentati o diminuiti? Non si trattava di una sfida economica ma ecologica; infatti il prezzo è il principale indicatore della scarsità o abbondanza di una risorsa. Per Julian Simon tutti i metalli del paniere (cromo, rame, nichel, stagno e tungsteno) sarebbero diventati meno cari, ovvero più abbondanti; per Paul Ehrlich sarebbe accaduto il contrario. Nel 1990 il primo vinse la scommessa. Il nome di Simon – professore di economia all’Università del Maryland, morto nel 1998 – ha rappresentato per lungo tempo lo spauracchio del catastrofismo ecologista, dell’ambientalismo anti-capitalista e statalista. Proprio per questo, un professore universitario di statistica, danese, militante di Greenpeace, tempo fa si prese la briga di studiare le opere di Simon con lo scopo di confutarle. Ma come ben sa la Chiesa, è pericoloso leggere testi eretici. Infatti Bjørn Lomborg è diventato un eretico, e da quando il suo “The Skeptical Environmentalist” è uscito l’anno scorso, la “chiesa” ecologista grida “al rogo” (basti vedere il comico avviso ai giornalisti diffuso su internet da WWF e World Resources Institute, in cui si avvertono i recensori della pericolosità del libro). Basandosi sulle stesse fonti statistiche cui attingono gli ambientalisti di maniera, il professore danese ribalta i luoghi comuni più diffusi: la disponibilità di risorse non diminuisce ma aumenta, gli effetti negativi del “riscaldamento globale” sono ben lungi dall’esser dimostrati, la qualità dell’aria migliora invece di peggiorare, ecc...

Un libro pieno di numeri questo “ecologista scettico” che adotta il punto di vista più proficuo per gli economisti avveduti, quel lungo periodo così disprezzato da Keynes. Da questo angolo di osservazione – che non si lascia confondere da temporanee crisi di panico – si può constatare come l’umanità non se la passi poi così male; i problemi certo non mancano – nessun osservatore serio nega l’inquinamento nei paesi industrializzati, le carestie in quelli poveri, la desertificazione di vaste aree del pianeta – ma vanno compresi con categorie concettuali scientifiche. L’economia ci insegna a non restare alla superficie delle cose; le risorse naturali significano qualcosa solo perché c’è l’uomo a dar loro valore (il petrolio prima della scoperta del suo uso per produrre energia, per le popolazioni arabe era un inquinante dei pozzi d’acqua). Non a caso l’opera più famosa di Julian Simon si intitola “The Ultimate Resource”, che potremmo tradurre con la “risorsa fondamentale”, dove questa risorsa è appunto l’uomo.

Il libro di Lomborg si inserisce nella tradizione economica liberale che ha contribuito a spazzar via le cassandre ecologiste. Ricordiamo che quest’anno ricorre il trentennale della pubblicazione dello sciagurato “The Limits to Growth”, il rapporto per il Club di Roma di Donella e Dennis Meadows, Jorgen Randers e William W. Behrens (“I limiti dello sviluppo”, Mondadori, 1972). L’opera conteneva la quintessenza del catastrofismo anti-capitalista: “Nell’ipotesi che l’attuale linea di sviluppo continui inalterata nei cinque settori fondamentali (popolazione, industrializzazione, inquinamento, produzione di alimenti, consumo delle risorse naturali) l’umanità è destinata a raggiungere i limiti naturali dello sviluppo entro i prossimi cento anni. Il risultato più probabile sarà un improvviso, incontrollabile declino del livello di popolazione e del sistema industriale”.

La scienza economica ci fornisce un altro esempio di teoria applicata a un caso storico. Il premio Nobel Friederich von Hayek racconta di come nell’immediato dopo guerra si voleva far fronte a una forte scarsità di rame sul mercato mondiale, dove il prezzo schizzò alle stelle; alle Nazioni Unite si pensò di razionarlo, ma per fortuna la misura non venne adottata e il mercato – ovvero le persone che fanno scelte – trovò la soluzione. L’alto prezzo del metallo non solo incoraggiò un uso più parsimonioso e il riciclo, non solo rese convenienti investimenti per la ricerca di nuovi filoni e miniere, ma incentivò a trovare sostituti. Il risultato fu una maggior disponibilità di rame (il cui prezzo infatti nel lungo periodo è calato) e l’invenzione delle fibre ottiche. Lo stesso si potrebbe dire del petrolio, spesso portato a esempio dai catastrofisti che dimenticano come il prezzo al consumo sia artificiosamente tenuto alto da un cartello di stati. Questo l’economia e il libro di Lomborg ci insegnano. L’ambiente – per parafrasare Clémenceau – è una cosa troppo seria per lasciarlo nelle mani degli ambientalisti. Chi ha a cuore il futuro del pianeta deve contribuire a spezzare il monopolio degli ecologisti nella cultura e nella politica ambientale.

Tutta la verità, nient'altro che la verità
di Andrea Mancia

"The Skekptical Environmentalist", scritto dal danese Bjørn Lomborg per la Cambridge University Press (e di prossima pubblicazione in Italia), non sembra - a prima vista - un libro capace di accendere le passioni e spaccare in due la comunità scientifica. Questo libro di quasi 500 pagine pieno di numeri, grafici (162) e note bibliografiche accuratissime (2900) è invece riuscito dove pamphlet propagandistici costruiti con ben altre pretese avevano miseramente fallito. E ha finalmente gettato un po' di luce su quella "grande truffa" della litania ambientalista che inquina, ormai da decenni, il nostro pianeta.

Lomborg - professore associato di statistica, ecologista, ex attivista di Greenpeace, vegetariano e vicino (per sua stessa ammissione) alle idee della sinistra scandinava - è diventato un "ambientalista scettico" quasi per caso, soggiogato dalla forza dei fatti e dal potere persuasivo dei numeri. Era partito per dimostrare che la Terra era moribonda, insomma, e si è ritrovato a raccontare una storia del tutto diversa, fatta di una malattia in avanzato stadio di guarigione e di una pletora di medici pronti a giurare il falso pur di ottenere qualche finanziamento in più. Una storia triste, senza dubbio, ma molto meno tragica di quanto la lobby internazionale degli scienziati-verdi abbia voluto farci credere negli ultimi anni, anche grazie alla criminale complicità di un poderoso network massmediatico.

"The Skekptical Environmentalist" parte dalle stesse fonti utilizzate dalle Cassandre egologiste per gridare al disastro imminente, ma le analizza con rigore scientifico-matematico da una prospettiva di lungo periodo. E bastano poche pagine per accorgersi della differenza: sulla deforestazione, la fame nel mondo, l'inquinamento dell'aria, le specie animali in via d'estinzione... Perfino il Sacro Testo del Protocollo di Kyoto finisce per essere ridimensionato dalla fredda analisi di Lomborg che, in punta di penna e senza alzare la voce, si sbarazza di una serie infinita di petulanti luoghi comuni travestiti da para-scienza.

Naturale, dunque, che il Gotha ecologista si sia sentito toccato, nel profondo, dal lavoro del ricercatore danese. Ma la reazione scomposta degli ambientalisti è andata oltre, dimostrando una violenza ed un'arroganza dimenticate dai tempi della Terza Internazionale. "Scientific American", che ormai da tempo è diventata una Bibbia dei pasdaran verdi, ha dedicato un numero speciale alla distruzione sistematica del libro di Lomborg, non andando oltre - per la verità - ad una meschina raccolta di insulti gratuiti. Anche Greenpace, WWF e Worldwatch Institute si sono lanciati in una serie impressionante di attacchi che molto spesso sono scivolati nel campo delle offese personali. Quasi nessuno, invece, ha avuto il coraggio di affrontare Lomborg sul suo campo, quello dell'analisi statistica dei dati. E questo è un vero peccato, perché la scienza avrebbe bisogno di discussione e confronto tra idee per progredire. Al contrario, l'isteria e la demonizzazione dell'avversario o di chi, semplicemente, la pensa in maniera diversa, servono soltanto a chi - in perfetta malafede - ha bisogno di continuare a coltivare il proprio orticello moribondo (o presunto tale). Ma tutto questo con la scienza e la ricerca della "verità" non ha nulla a che fare.

Il vero ambientalismo è la  crescita economica
di Stefano Da Empoli

Finalmente anche i pro-global hanno trovato la loro Naomi Klein. Bjørn Lomborg è giovane e di bell’aspetto, è disinvolto con la lingua inglese ma, Dio sia lodato, non proviene dal paese più odiato del mondo (gli USA, naturalmente) bensì dalla discreta Danimarca, la nazione che ha il primato di aiuti al Terzo Mondo (rispetto al prodotto interno lordo). Insomma, una bella svolta per uno schieramento percepito fino all’altro ieri come polveroso e retrò. Soltanto che Bjørn Lomborg avrebbe il diritto di querelarci qualora lanciassimo un simile paragone. Mentre Naomi Klein scorrazzava piacevolmente per il mondo, Lomborg lavorava sodo in biblioteca. Risultato: il suo bestseller internazionale “The Skeptical Environmentalist” contiene quasi tremila note e settanta pagine di bibliografia. Dati che la dicono lunga sulla serietà di Lomborg, statistico di professione dell’Università di Aarhus.

Al di là di qualsiasi giudizio sui contenuti, il libro merita alcune osservazioni metodologiche. Le sue tesi anti-conformiste (in sintesi, la terra non sta male come si dice) non sono una novità assoluta. Molti economisti si erano cimentati sugli stessi argomenti, arrivando a conclusioni simili. Quel che impressiona è la ricchezza di dati e l’agilità con la quale Lomborg li domina. Il check-up della salute del pianeta è completo: si passa dalla prosperità al cibo, dai pesticidi alla spazzatura, dall’energia al surriscaldamento terrestre. Il bilancio è sostanzialmente positivo: contrariamente a quanto sostiene l’affollato club dei catastrofisti la terra non è mai stata bene come oggi. Questo non vuol dire, sostiene Lomborg, che ci si debba sedere sui risultati acquisiti. Ricordandosi, però, che l’ottimo è nemico del bene. Qualsiasi misura pro-ambiente deve passare attraverso una seria analisi costi-benefici. Analisi che boccia inesorabilmente il Protocollo di Kyoto, che, a fronte di una diminuzione poco più che infinitesimale della temperatura del globo, metterebbe a rischio il nostro benessere economico. Del quale forse noi occidentali ci possiamo tutto sommato disinteressare. Non così il Terzo Mondo, per il quale un punto di crescita in più degli scambi mondiali significano milioni di poveri in meno (nonché di vite salvate).

Il nemico principale del libro di Lomborg, attivista pentito di Greenpeace, sembra essere proprio l’elitarismo di sinistra che, sotto le simpatiche vesti del movimento ambientalista e no-global, se ne infischia delle sorti dei più poveri del pianeta. Invocando, in assenza di prove scientifiche a sostegno delle tesi ambientaliste, il principio di precauzione, secondo il quale dovremmo adottare tutte le cosiddette misure “ecocompatibili” per semplice cautela. Il problema è che la cautela costa. Peraltro in modo selettivo. Chi sta avanti può permetterselo, chi sta indietro no. La migliore precauzione, conclude Lomborg, è la crescita economica, il più possibile libera da lacci e lacciuoli ambientalisti e no-global.

Non è colpa dei ricercatori, ma di chi divulga la Litania"
intervista a Bjørn Lomborg di Carlo Stagnaro

Ha appena 36 anni, Bjørn Lomborg, ma già è una delle persone più discusse sulla faccia della terra. Docente di statistica presso l’Università di Aarhus (Danimarca), egli è l’autore del libro che ha fatto rodere il fegato a tutti gli ambientalisti del mondo: “The Skeptical Environmentalist”, edito nell’estate del 2001 da Cambridge University Press e giunto già alla sesta ristampa – e di prossimo arrivo in Italia per Mondadori. Tale volume è una raccolta di dati, crudi numeri e studi effettuati dai più accreditati enti di ricerca (dall’Organizzazione mondiale della sanità alle varie branche dell’ONU, fino alle più prestigiose università). Gli stessi dati di cui dispongono gli ambientalisti, dunque. Lomborg, però, mostra come le cose stiano assai meglio di quanto ci venga abitualmente detto. La maggior parte delle politiche ambientali, inoltre, rappresentano – secondo l’autore – altrettante ingiustificate e inefficaci occasioni di sperpero del denaro pubblico. Se si focalizza l’attenzione sull’ambiente, infatti, la si distoglie dall’uomo; si perdono di vista i grandi problemi che, in ultima analisi, possono essere riassunti in una sola parola: povertà. La vera via da percorrere, allora, è quella dello sviluppo e della sperimentazione, non quella della paura e dell’ostilità verso la scienza. Se lo dice Lomborg, ambientalista sì (ha alle spalle anche una militanza in Greenpeace), però scettico, bisogna crederlo.

Professor Lomborg, cosa significa essere un “ambientalista scettico”?

Significa che io sono un ambientalista, perché – come la maggior parte della gente – mi preoccupo per la nostra Terra e per la salute e il benessere delle generazioni a venire. Ma sono anche scettico, poiché me ne preoccupo abbastanza da non voler agire sulla base di semplici miti, ottimisti o pessimisti che siano. Al contrario, gli uomini dovrebbero utilizzare le informazioni più accurate di cui dispongono per perseguire, tutti insieme, l’obiettivo comune di rendere migliore il domani.

Lei ha definito le tendenze pessimistiche come “la Litania”. Ha qualcosa da aggiungere?

La Litania ha pervaso il dibattito così profondamente e così a lungo, che affermazioni chiaramente false possono essere dette e ripetute, senza alcun riferimento preciso, e ciò nonostante essere prese per buone. Questa non è la conseguenza del fallimento della ricerca accademica sui problemi ambientali, che anzi è bilanciata e competente. Piuttosto, ci troviamo di fronte alla disfatta della divulgazione delle conoscenze ambientali, che tocca insistentemente la corda delle nostre credenze fatalistiche.

In effetti, quello ambientalista viene presentato abitualmente come un punto di vista oggettivo. Lei non la pensa così?

Diciamo le cose come stanno. Quanto peggio viene ritratto lo stato di salute dell’ambiente, tanto più facile è per gli ambientalisti convincerci a spendere denaro su di esso anziché in ospedali, asili, eccetera. E, per favore, tenga presente che io ero fino a poco tempo fa il tipico uomo di sinistra, tranquillo e impegnato. Se me lo avesse chiesto nel 1980, non avrei mai potuto immaginare che, ai giorni nostri, non vi sarebbe stato alcun pericolo di esaurimento delle risorse. Allora partecipavo a manifestazioni e cortei, ma solo a quelli: non facevo nulla di illegale, insomma. Sono troppo provinciale e accademico per questo genere di cose.

Mi scusi, professore, davvero lei pensa che non stiamo esaurendo le nostre risorse?

Certamente. I dati mostrano che il cibo probabilmente continuerà a diventare più economico e meno scarso e che saremo in grado di nutrire un numero sempre maggiore di persone. Le foreste non sono scomparse, anzi. L’acqua è una risorsa abbondante e rinnovabile, sebbene possa essere localmente scarsa (in parte poiché non è stata considerata prima una risorsa limitata e di valore). Non sembra esservi alcun serio problema per quanto riguarda le risorse non rinnovabili, come l’energia e le materie prime. In particolare, il nostro consumo di energia non ha un limite superiore, né nel breve né nel lungo termine.

In ogni caso, vi è chi dice che dovremmo comunque riciclare le materie: in caso contrario, arriverà un giorno in cui non sapremo più dove mettere i rifiuti. Pensa che dobbiamo pagare questo prezzo?

La credenza sottesa a gran parte delle argomentazioni a favore del riciclaggio è che stiamo esaurendo le risorse. Si tratta, questo, di un esempio spettacolare in cui i vecchi ambientalisti, molto semplicemente, avevano sbagliato. Ma molte persone ancora ne sono convinte. Il riciclaggio talvolta ha senso, ma non dovremmo prenderlo per un dogma di fede. Non stiamo esaurendo le risorse e non stiamo esaurendo lo spazio per stoccare i rifiuti. Anche se gli Stati Uniti aumentassero la loro produzione di spazzatura pro capite del 15 per cento all’anno e raddoppiassero la loro popolazione, l’intera produzione di rifiuti del ventunesimo secolo potrebbe essere sistemata in un cumulo alto una trentina di metri su una superficie a base quadrata di 28 Km di lato. Rispetto all’intero Nord America, si tratta di un’estensione irrisoria: un puntino sulla carta geografica degli USA. Trovare un sito per stoccare i rifiuti è una questione politica – nessuno li vuole nel proprio cortile. Ma non è un problema di spazio.

Se le cose stanno come dice lei, dovremmo sentirci davvero bene…

Sarebbe irrealistico dire che tutto stia migliorando. Ma dobbiamo sviluppare la capacità di costruire una scala di priorità. Per esempio, il livello di inquinanti sta diminuendo rapidamente nei paesi industrializzati. L’aria di Londra è oggi più pulita di quanto lo sia mai stata fin dal 1585. Il londinese medio stava nel passato molto peggio di oggi.

Quindi, lei non pensa che noi dovremmo investire in politiche che, si suppone, possano aiutare il Terzo Mondo. Cosa pensa, per esempio, del protocollo di Kyoto?

Penso che potremmo aiutare il Terzo Mondo assai di più facendo altre cose, per esempio fornendo loro acqua potabile e servizi sanitari. Con la spesa di 200 miliardi – che è il costo di Kyoto per un solo anno – potremmo garantire acqua potabile a chiunque e per sempre. Questo salverebbe ogni anno due milioni di persone dalla morte e mezzo miliardo di persone da una grave malattia. In ogni caso, il fatto è che, per quel che riguarda tutti i nostri problemi principali, gli uomini, in media, sono più ricchi, godono di una migliore salute, hanno una più lunga aspettativa di vita e si nutrono meglio che in qualunque altro momento nella storia dell’umanità. Tra vent’anni, ci volteremo indietro e ci meraviglieremo di esserci preoccupati così tanto. L’ambientalismo non sarà più una forma di religione, ma semplice buonsenso.

Lei è giovane quanto famoso – alcuni si sono innamorati del suo lavoro, altri la vedono come l’Anticristo. Come ci si sente in queste condizioni?

Essere famosi non è bello, ma è bello essere nel giusto.

Tutti gli articoli fin qui elencati sono stati pubblicati sul n. 60 di Ideazione.com, 1 Marzo 2002


Per un ecologismo federalista.
di Guglielmo Piombini

L'ecologismo federalista garante delle libertà locali.

Le soluzioni proposte dall'ecologismo liberista trovano la loro ottimale realizzazione pratica ad un livello politico quanto più decentrato possibile. La forma di stato federale o confederale, nella quale le autonomie locali detengono effettivi strumenti di autogoverno, rappresenta la cornice istituzionale che meglio si combina con gli obiettivi dell'ambientalismo di mercato, che sono quelli di trasporre fedelmente i principi liberali che regolano la convivenza umana ad un campo, come l'ecologia, al quale sono per lungo tempo rimasti estranei.
È infatti convinzione diffusa che i problemi ambientali possano essere affrontati solo in un'ottica autoritaria, repressiva, penalistica. 
Al principio liberale del contratto si preferisce, nella tutela ambientale, il principio della coercizione; l'assoluta obbligatorietà del comando proveniente dall'autorità centrale è ritenuta soluzione più sicura della ricerca dell'unanimità tra tutte le parti coinvolte; invece di far leva sugli incentivi individuali ad agire (com'è tipico del mercato) si adotta quindi il sistema terroristico di minacciare multe o reclusioni.
Se l'ecologismo libertario è tollerante, perché rispetta le scelte individuali in materia di ambiente fino a quando queste non danneggiano la sfera giuridica altrui, l'ecologismo statalista non è altro che una variante dell'idea giacobina e totalitaria secondo cui l'autorità, essendo in grado di identificare meglio della società quale sia il bene di questa, ha il diritto e il dovere di imporglielo con la forza.
Le politiche accentratrici degli attuali Stati nazionali sono del tutto in linea con le idee e le proposte dell'ecologismo dominante, con il suo culto per le regolamentazioni burocratiche e le direttive ministeriali, e il suo disprezzo per i rapporti tra comunità e individui fondati sul mutuo consenso.
L'ambientalismo liberista è fondamentalmente decentralizzatore, perchè lascia agli individui, ai piccoli gruppi, alle associazioni e alle comunità di base le decisioni finali sulla gestione dei beni ambientali che li riguardano. L'ambientalismo social-statalista è per sua natura collettivista, e quindi accentratore al massimo grado.
Del tutto chiaro è allora il collegamento tra l'affermazione di Gianfranco Miglio, secondo cui il socialismo, con la sua concezione esasperata di sovranità, rappresenta l'emblema e il culmine della mentalità centralista, e quella di Wilhelm Röpke, per il quale "l'economia di mercato, spostando le decisioni di economia verso i singoli nuclei familiari e le singole imprese, è un principio di decentramento di grandissima importanza".
Le affermazioni dell'ecologismo federalista si scontrano quindi frontalmente con le tendenze prevalenti nell'ideologia ambientalista, portata sempre più spesso, per logica di ragionamento, a perorare la concentrazione e la centralizzazione del potere. È ormai un luogo comune sostenere che i fenomeni ecologici, in quanto estremamente complessi e interdipendenti tra loro, possono essere efficacemente affrontati solo da istituzioni sovranazionali.
Secondo l'autore di uno dei più diffusi testi sull' "ecologia dello sviluppo sostenibile", la salvezza dell'ecosistema potrà essere raggiunta solo creando onnipotenti istituzioni governative di livello planetario, finalizzate a realizzare politicamennte i seguenti programmi: 1) la stabilizzazione della popolazione; 2) la stabilizzazione dello stock delle ricchezze naturali attualmente esistenti; 3) l'equa allocazione tra la popolazione di queste risorse.
Su questo punto, le opinioni federaliste non potrebbero essere più radicalmente divergenti. L'idea fondamentale è che una pianificazione di tali estensioni non ha la minima possibilità di raggiungere obiettivi significativi. Al contrario, vi sono numerosi argomenti a favore di una gestione delle risorse naturali fondata sul principio di sussidiarietà, cioè massimamente decentralizzata.
Innanzitutto, come si è visto, solo una strategia ambientale federalista è rispettosa dei diritti dei gruppi e degli individui, e non richiede la presenza di costose, arbitrarie e mastodontiche burocrazie pubbliche.
In secondo luogo militano a suo favore diverse considerazioni d'efficienza: 1) la pianificazione centralizzata fallisce per la difficoltà del calcolo economico e per l'impossibilità di concentrare la conoscenza dispersa tra milioni d'individui; 2) il municipalismo ambientale rafforza le virtù civiche dei cittadini, incentivandoli a partecipare alla vita comunitaria; 3) la gestione politica accentrata è soggetta agli effetti perversi derivanti dalle pressioni delle lobbies, che sfruttano l'asimmetria esistente tra l'interesse pubblico (disperso) e gli interessi particolari (concentrati). [Questa asimmentria è alla base della "tragedia dei beni collettivi", ed è tanto più marcata quanto più numerosi sono i fruitori del bene collettivo]; 4) la programmazione dal centro non permette gli opportuni adattamenti alle diverse esigenze locali. 

Il problema del calcolo economico e della dispersione della conoscenza.

Uno degli aspetti più sorprendenti del dibattito ecologico contemporaneo è costituito dal ritorno della tematica del calcolo economico sotto il socialismo, iniziato da Ludwig von Mises negli anni '20 e '30 e proseguito poi da altri esponenti della scuola austriaca d'economia come Friedrich von Hayek e Israel Kirzner.
Von Mises dimostrò l'impossibilità della pianificazione economica centralizzata facendo notare come, in assenza di prezzi di mercato, il calcolo economico fosse irrealizzabile. Non è possibile alcuna gestione economica razionale senza le informazioni, incorporate nei prezzi, sulla scarsità o abbondanza di risorse, sul livello della domanda e dell'offerta, sui gusti in continuo cambiamennto dei  consumatori. Tali informazioni, come successivamente spiegò Hayek, non possono essere supplite neanche da modelli statistici e matematici, come sostenevano i socialisti, perché l'enorme ammontare di conoscenze necessario per determinare prezzi sufficientemente realistici è disperso e frammentato tra miliardi d'individui, assolutamente impossibile da centralizzare. Nessuna mente o gruppo di menti potrebbe contenere tutti i dati necessari per assolvere quel compito che i prezzi di mercato assolvono automaticamente in maniera straordinariamente efficiente. I pianificatori, ha aggiunto Kirzner, non solo sono del tutto privi delle necessarie informazioni, ma, quel che è più grave, sono spesso ignoranti della loro stessa ignoranza. 
Queste conclusioni dimostrano chiaramente quanto siano presuntuose e velleitarie le pretese dei politici di amministrare burocraticamente "entità" immense come l'atmosfera, gli oceani, la popolazione mondiale. La quantità di informazioni necessaria si moltiplica geometricamente con l'allargarsi dell'oggetto da "programmare". Le probabilità di perseguire con successo gli obiettivi ecologici sono quindi tanto più alte quanto minore è il numero di variabili che devono essere tenute sotto controllo. La gestione decentralizzata e "municipalista" di mari, fiumi, e parchi persegue questo scopo di semplificazione del contesto operativo.
Gli effetti nocivi di eventuali errori sono così strettamente delimitati, e quindi facilmente rimediabili. Possono così instaurarsi meccanismi di trial and error e di imitazione delle strategie ambientali di maggior successo. 

Le virtù civiche possono limitare gli effetti delle "tragedie dei beni collettivi".

Gli ecologisti libertari, nei loro ragionamenti economici, non fanno molto affidamento sull'educazione civica degli individui, considerata un fattore secondario. Infatti, se i vantaggi individuali di un'azione antiecologica sorpassano di gran lunga i costi personali, o se i costi individuali di un'azione ecologicamente corretta sono eccessivi rispetto ai suoi vantaggi, è alquanto difficile che si possano instaurare e consolidare pratiche sociali rispettose dell'ambiente. Nel loro realismo, queste conclusioni sono in genere corrette, ma occorre aggiungere qualche altra considerazione. 
Le virtù civiche, l'attaccamento alla propria comunità d'appartenenza, la devozione all'interesse pubblico, lo spirito di servizio e la partecipazione alla vita comunitaria, possono prosperare solo entro uno spazio territoriale delimitato (nelle piccole repubbliche, nei comuni, nei quartieri cittadini). Solo a questo livello i cittadini provano un rispetto verso il verde, le strade, i fiumi, spontaneo e intenso quasi quanto quello verso i propri beni personali. Questa attenzione si attenua proporzionalmente per quei beni pubblici, condivisi da estranei, estesi oltre limiti spaziali "particolaristici".
È inerente alla natura umana preoccuparsi prima di tutto del proprio interesse personale e di quello della propria famiglia, in seconda battuta di quello del proprio circondario, e poi, sempre meno intensamente, del bene della propria città, della propria regione, della propria nazione, e così via.
Da questo punto di vista, il federalismo ambientale rappresenta uno strumento indispensabile per ridurre agli effetti negativi derivanti dalle "tragedie dei beni collettivi".
Quando un bene è in comproprietà di più persone sorgono forti incentivi a sovraconsumarlo ben oltre quanto avverrebbe se il bene fosse in proprietà individuale. Ad esempio, nei condominii in cui l'impianto di riscaldamento è centralizzato le singole famiglie non hanno molti incentivi a risparmiare (potendo questi sacrifici essere inficiati da un utilizzo in eccesso di un'altra famiglia dello stabile), e il risultato complessivo è un consumo molto superiore a quello dei condominii in cui ogni famiglia ha il proprio contatore. È questa una delle ragioni per cui il diritto civile cerca di favorirne la divisione dei beni in comunione.
Mentre il proprietario privato fa propri tutti i frutti dell'attività personale di cura del bene, ogni utilizzatore di un bene collettivo, pur sopportando per intero il costo del proprio comportamento virtuoso, è costretto a dividerne i vantaggi con l'intero gruppo dei fruitori.
Per questa ragione i gruppi di grandi dimensioni, almeno se sono composti da individui razionali, raramente agiscono nel loro interesse collettivo. Nei gruppi di piccole dimensioni i vantaggi del proprio comportamento "altruista" vengono divisi tra un minor numero di partecipanti, e quindi l'incentivo ad agire in questo senso, per ogni singolo partecipante, è maggiore. I piccoli gruppi hanno perciò molte più probabilità di organizzare e realizzare con successo la propria azione collettiva. 
Se applichiamo questi principi alla gestione ambientale, ne risulta che le "tragedie dei beni collettivi" sono tanto più dannose e irrimediabili quanto più vasto è il "common", e tanto meglio affrontabili quanto minore è il numero di abitanti che condivide la proprietà del bene. È questo il vantaggio fondamentale del federalismo ecologico. 
Inoltre, nelle piccole comunità territoriali, l'obbedienza al governo, alle leggi e alle regole di civile convivenza è spesso un fatto quasi volontario. Non potendovi essere lo stesso grado di fiducia verso un governo lontano, questo sarà costretto a compensare lo scarso rispetto verso le proprie disposizioni in materia di protezione ambientale facendo uso della forza, cioè intensificando i controlli polizieschi, inasprendo le sanzioni, allargando le burocrazie.
Queste "burocrazie del bello", professionali e permanenti, acquisiscono col tempo interessi e comportamenti "di casta" del tutto estranei a quelli delle popolazioni locali, e finiscono con il produrre solamente corruzione, oneri fiscali per il loro mantenimento, normative farraginose e vessatorie, costi aggiuntivi per le imprese produttive, e degrado ambientale.
Non è un caso che il senso civico sia più presente e il rispetto dell'ambiente più praticato in quelle regioni del nord Italia in cui vi è stata una lunga tradizione di autogoverno, dove gli abitanti dei comuni o dei borghi hanno per secoli amministrato in proprio gli spazi collettivi. Di contro, nelle regioni meridionali che invece del fenomeno comunale hanno conosciuto la centralizzazione burocratica di Federico II, l'inerzia delle popolazioni di fronte al degrado delle città e del territorio si spiega con l'assuefazione a modelli di comportamento etero-diretti, in cui, in luogo dell'attività individuale o associata a favore della comunità, si pretende e si aspetta l'intervento dell'autorità lontana.
L'ambientalismo delle autonomie, abituando i cittadini al volontariato e alla paretecipazione comunitaria, rappresenta in definitiva una "scuola" di valori civici. 

Il federalismo ambientale assicura una maggiore responsabilizzazione degli amministratori pubblici.

Una delle cause principali degli scarsi risultati realizzati dallo Stato nella tutela ambientale deriva dal fatto che, come hanno dimostrato gli studiosi delle dinamiche decisionali pubbliche, all'interno dei corpi politici e burocratici vigono le stesse motivazioni egoistiche presenti nel mercato. È irrealistico pensare che i governanti, i dipendenti pubblici e gli elettori non perseguano il proprio interesse personale allo stesso modo degli imprenditori e dei consumatori privati.
Gli apparati politici sono estremamente sensibili alle pressioni delle lobbies e dei gruppi organizzati. Una decisione ambientale presa all'interno del settore pubblico non è quasi mai quella che persegue l'interesse generale, ma è quella che realizza il massimo risultato positivo nel calcolo algebrico tra consenso guadagnato e consenso perduto.
Il problema fondamentale è l'esistenza di una asimmentria tra l'inetresse pubblico, che è disperso tra milioni di individui e quindi meno visibile e percepibile, e l'interesse dei gruppi organizzati, che è concentrato. La decisione politica di favorire l'interesse ecologico generale avvantaggia milioni di individui disorganizzati ciascuno solo in piccola misura, e non è detto che ciò sia sufficiente per garantire la loro gratitudine al momento delle elezioni. Favorendo gli interessi dei più motivati gruppi di pressione (economici, ambientalisti, particolaristici, corporativi), i politici possono invece assicurarsi solidi pacchetti di voti, perché il vantaggio individuale che ciascuno dei membri del gruppo particolare riceve è cospicuo.
Anche in questo caso, la gestione a livello decentrato del bene ambientale riduce l'asimmentria tra costi diffusi e vantaggi concentrati, rendendo così molto più probabile che la decisione politica sia conforme all'interesse generale. Ad esempio, è più facile che una gruppo ambientalista riesca nell'intento di far passare una regolamentazione che impone alti costi alle attività produttive, ai consumatori o ai contribuenti, quando questi costi sono divisi tra l'intera collettività nazionale piuttosto che tra gli abitanti di una città (oppure, viceversa, che una lobby industriale ottenga l'approvazione di una legge eccessivamennte permissiva verso le emissioni provocate dalle proprie attività).
La gestione municipale dell'ambiente, introducendo meccanismi concorrenziali sconosciuti a qualsiasi organizzazione centralizzata, contribuisce ulteriormente a responsabilizzare gli amministratori pubblici, perché i cittadini potrebbero "votare con i piedi", allontanandosi da quelle zone in cui il rapporto costi/benefici ambientali non soddisfa le proprie esigenze. Questa possibilità oggi manca, perchè ciò che il contribuente paga per l'ambiente non corrisponde a ciò che riceve in cambio.

Il federalismo ambientale permette gli opportuni adattamenti tra realtà locali che possono avere preferenze ecologiche diverse.

Uno dei principali difetti delle attuali politiche ambientaliste svolte a livello nazionale è che inevitabilmente impongono standard uniforni, decisi dal Ministero, a situazioni che invece richiederebbbero interventi differenziati.
Le preferenze ecologiche non sono infatti le stesse tra tutte le popolazioni della penisola. In alcune località gli abitanti danno maggiore importanza ai valori ecologici, mentre in altre si preferisce sacrificare in maggior misura questi ultimi per favorire lo sviluppo economico. 
Le moderne preoccupazioni per la qualità dell'ambiente sono state rese possibili proprio dalla tremenda crescita economica generata dal capitalismo. Man mano che i beni materiali diventavano più abbondanti, diminuiva il loro valore marginale, come secondo la nota legge economica; nello stesso tempo, cresceva il valore della "qualità della vita", ponendo scelte allocative un tempo sconosciute.
Il problema è quello di stabilire quale combinazione di beni materiali e "qualità della vita" le diverse popolazioni desiderano consumare. È probabile che nelle zone più arretrate economicamente si dia più importanza ai primi, mentre nelle zone ad alto reddito cifre più alte saranno destinate volontariamente al miglioramento dell'ambiente circostante e ad altre amenità.
Il rispetto delle diverse preferenze ecologiche richiede un'attuazione non centralizzata, ma federalista delle politiche ecologiche. Nessuna autorità centrale ha il diritto di imporre agli abitanti di una certa zona un consumo di beni ecologici superiore a quello che sarebbero disposti a pagare spontaneamente. Il discorso vale anche a livello internazionale: imporre ai paesi del terzo mondo politiche ecologiche basate su standard occidentali, e quindi superiori alle loro possibilità, rappresenta una vera e propria forma di "imperialismo ecologico" ( l'Occidente ha diritto solo di impedire che i guasti ecologici prodotti dalle politiche di sviluppo in questi paesi non danneggino l'Occidente stesso o l'intero pianeta). 
Questo approccio municipalista ai problemi ecologici è stato sperimentato con successo negli Stati Uniti (nello Stato del Wisconsin e nella città di New York) e nel Giappone con riguardo all'inquinamento aereo. Alcuni municipi cittadini hanno infatti deciso di creare dei diritti d'inquinamento nello spazio aereo sovrastante le città. Entro questa "bolla d'aria" l'amministrazione cittadina fissa il liimite massimo di emissioni nell'atmosfera, verosimilmente corrispondente alle esigenze ecologiche dei propri abitanti, e permette che questi permessi siano liberamente comprati e venduti. È possibile immaginare un'intera nazione in cui ogni città abbia la propria "bolla d'aria" diversa dalle altre, con addirittura scambi di diritti ad inquinare tra le diverse città.
Con questo sistema, che crea un incentivo monetario a favore delle imprese che sviluppano metodi meno inquinanti, la città di Portland, Oregon, ha visto nascere un fiorente mercato dei diritti ad inquinare, con tanto di broker e mediatori, migliorando al contempo la salubrità dell'aria e facendo risparmiare notevoli risorse alle casse comunali. Tutti ci hanno guadagnato da questo esperimento, salvo forse  i burocrati addetti alla protezione ambientale.
Quando le comunità locali sono lasciate libere da interferenze del governo centrale riescono a escogitare nuovi metodi per correggere i propri guasti ambientali. Spesso l'introduzione di nuove tecnologie e di nuove istituzioni (come diritti di proprietà) richiede notevoli risorse, e i costi di transazione possono essere eccessivi; quando però il bene ambientale acquista un notevole valore, gli adattamenti di mercato più opportuni vengono spontaneamente adottati perché convenienti.
A Los Angeles, per esempio, l'aria pulita è scarsa, mentre nell'Idaho è abbondante. In assenza di intromissioni governative, diventerebbe vantaggioso per gli abitanti di Los Angeles sviluppare delle istituzioni che permettano forme di transazione nel mercato dell'aria. Gli abitanti dell'Idaho, al contrario, non sono in grado di apprezzare granchè quantità addizionali di aria pulita, e difficilmente sprecheranno risorse in questo mercato. Sotto il controllo centralizzato, gli abitanti dell'Idaho pagano invece come gli abitanti di Los Angeles per un bene che essi valutano di meno.
Questo sviluppo spontaneo ad opera di "imprenditori istituzionali" si è verificato durante il secolo scorso nella fontiera del West americano, dove all'inizio era del tutto assurdo applicare le leggi dell'Est riguardanti l'occupazione e la delimitazione dei diritti di proprietà sulla terra, perché questa era estremamente abbondante nelle praterie dell'Ovest, dove al contrario scarseggiava il legno e le distanze da recintare erano enormi.
Col passare del tempo però, il regime di proprietà comune tra tutti gli allevatori portò ad una classica "Tragedy of the Common", perché l'erba divenne sempre più scarseggiante. Solo a questo punto divenne conveniente definire e far rispettare i diritti di proprietà, anche se i costi per le recinzioni rimanevano inaffrontabili. In un primo periodo i cow-boys iniziarono a stabilire i propri bivacchi lungo le linee di cofine, fungendo così da vere e proprie "recinzioni umane". Alla fine una innovazione tecnologica, il filo spinato, permise di ridurre drasticamente i costi di definizione dei diritti di proprietà, risolvendo definitivamente il problema ecologico della scomparsa dell'erba destinata al pascolo. Tutti questi adattamenti evolutivi non vi sarebbero stati se un governo centrale avesse imposto leggi uniformi per tutto il paese o altre inefficaci regolamentazioni. 
Un altro caso in cui le comunità locali si sono dimostrate molto più abili del governo centrale a proteggere l'ambiente è quello degli elefanti africani. La politica federalista dello Zimbabwe, che ha affidato ai villaggi locali la cura degli elefanti, ha surclassato sotto tutti i punti di vista quella fortemente centralizzata del Kenya, dove tutti gli elefanti sono di proprietà del governo. Nel primo dei due paesi il numero di questi animali è cresciuto ad un tasso medio del 5% annuo, mentre nel secondo la situazione è così drammatica che, continuando a questi ritmi, in meno di dieci anni, gli elefanti saranno completamente estinti. 

Dalle vicinie a Privatopia: esempi antichi e moderni di gestione comunitaria di beni collettivi ambientali.

Diversi sono gli esempi, passati e attuali, di gestione comunitaria di beni pubblici. Lo stesso Comune italiano deve il proprio nome proprio al fatto che, storicamente, è sorto per la gestione dei beni "comuni" ad una certa collettività territoriale. Il periodo medioevale ha conosciuto una ricca fioritura di istituti giuridici eminentemente privatistici finalizzati a disciplinare i beni collettivi.
Molto diffusi in a quel tempo erano gli usi civici, cioè diritti di godimento su certi fondi a favore della generalità della popolazione di un Comune o di una frazione o di singoli componeneti della popolazione. Essi comprendevano di solito il diritto di raccogliere legna per uso domestico, di seminare e di spigolare, di far pascolare il proprio bestiame, di "vagantiva", cioè di vagare su terreni paludosi per cacciare o pescare. Questi usi erano detti essenziali, mentre gli usi civici esercitati per uno scopo economico di lucro erano chiamati utili. Il diritto di uso civico spettava non al Comune in quanto istituzione, ma alla collettività degli abitanti del Comune, che lo esercitavano solo in quanto appartenenti alla collettività e finchè facevano parte di questa, in base ad autoregolamentazioni comunitarie e consuetudini. Il processo di centralizzazione statalista compiutosi nel nostro secolo ha ovviamente decretato la condanna a morte di questi antichi istituti: la legge 16 giugno 1927 n. 1677 e altre leggi minori successive hanno previsto la liquidazione degli usi civici mediante l'attribuzione in piena proprietà al Comune di una parte dei terreni gravati dal diritto di uso. 
Altri importanti istituti medioevali di questo tipo erano le vicinie, dove determinati beni pubblici venivano gestiti non da tutta la collettività o da un ente pubblico rappresentativo di essa, ma solo dall'assemblea dei proprietari discendenti dalle famiglie prime occupanti delle terre della zona, secondo le prescrizioni di uno statuto contenente perlopiù antiche norme consuetudinarie.
Il moderno fenomeno delle "comunità condominiali" americane è molto vicino quello delle antiche vicinie. Per l'ammissione entro una di queste comunità volontarie è richiesto l'acquisto di un fascio di diritti pubblici e privati. Chi decide di entrare in questi condominii allargati si impegna per contratto a contribuire alla fornitura di certi beni pubblici quali la gestione e la cura delle strade o dei parchi, i servizi di protezione affidati a polizie private, le prestazioni arbitrali per risolvere eventuali dispute fra condomini, ecc.
Queste comunità (le più note delle quali sono quelle di Walt Disney ad Orlando, Florida; di Arden, nel Delaware; le comunità contrattuali di Reston nella Virginia; la Ft. Ellsworth Condominium Association di Alexandria, Va.) non possono in alcun modo essere assimilate a "governi", perché il rapporto che le lega ai condomini è integralmente privatistico, ed è quello disciplinato dal contratto condominiale secondo la common law; nessun potere di tassazione che non sia oggetto di volontaria accettazione è previsto, e le decisioni sulle questioni comuni vengono prese solo dai proprietari.
Alcuni autori hanno ravvisato in queste esperienze di decentramento dei veri e propri fenomeni di secessione, condotti da strati benestanti della poplazione americana, la quale tende sempre di più ad organizzare la propria vita , non solo privata ma anche collettiva, in modo del tutto indipendente: riunendosi in club esclusivi, gestendo scuole inaccessibili agli estranei (ormai in tutti i centri abitati di medie dimensioni esistono due distinti sistemi scolastici) e perfino creando città assolutamente chiuse ad ogni forma di penetrazione. A New York esiste un distretto, collocato tra la 38a e 48a strada, e tra la 2a e 3a Avenue, in cui la collettività degli abitanti ha raccolto, nel 1989, una somma di 4 milioni e 700 mila dollari, sia per provvedere autonomamente alla pulizia delle strade e alla raccolta della spazzatura sia per organizzare un corpo di polizia privato, affidato ad agenti sia in divisa che in borghese.
Una manifestazione ancora più accentuaata della stessa tendenza è rappresentata dai Cid, i Common Interest Developments, una serie di nuovi quartieri residenziali che stanno nascendo ai confini delle grandi città (uno studioso, Evan Mac Kenzie, sostiene che queste "Privatopie" ospiteranno nel 2000 il 30 % della polazione americana) in cui si può entarre unicamente grazie ad una parola d'ordine, e che da soli fissano liberamente tutte le regole di convivenza e provvedono a tutte le necessità della loro ssussistenza, compreso il rifornimento idrico e la sicurezza. E che quindi , in alcuni casi, arrivano a spingere le loro richieste di autonomia fino a pretendere di non pagare più le tasse comunali per questi servizi, o addirittura a impedire alla polizia l'accesso al loro interno.
Questi esempi di produzione a livello radicalmente decentrato di servizi collettivi ambientali per mezzo di soli arrangiamenti contrattuali di mercato confutano tutte le teorie economiche ortodosse sui beni pubblici.
Gli eccellenti risultati di questi primi esperimenti di rottura con le politiche stataliste e accentratrici fanno ben sperare in un futuro all'insegna di un ecologismo federalista e municipale. 

 

Privatizziamo le balene!
Una proposta ultra-liberista

     Le balene sono in via di estizione, questo lo sanno tutti. E tutti, allo stesso modo, sono pronti a scommetere che la colpa sia della cupidigia degli uomini. Della "logica del profitto".
     Nell'immaginario collettivo, a timonare le baleniere che si avventano sui branchi di capodogli sono capitalisti spietati ed assetati di sangue e denaro, con l'arpione in mano e senza scrupolo alcuno.
     Questa è la "vulgata" ambientalista, che i bambini imparano sin dalla più tenera età. I cacciatori sono cattivi, anzi cattivissimi, le balene buone ma indifese, tocca a noi difenderle. E via, zaino in spalla, a organizzare battute di whale-watching, sulle navi di Greenpeace e protetti dalle bandiere del WWF. Risultati? Meno che zero. In compenso, tantissimi i soldi spesi. Preferibilmente quelli degli altri.
     In fondo all'aula, però, due allievi monelli alzano la manina, e cominciano a fare al professore "verde" qualche domanda imbarazzante. Si tratta di Carlo Lottieri e Guglielmo Piombini, di cui la Leonardo Facco Editore di Treviglio (Bergamo) ha dato alle stampe un illuminante pamphlet. "Privatizziamo il chiaro di luna", recita il titolo.  La
"moderazione", insomma, non è il loro forte. La lucidità, però, sì.
     Lottieri e Piombini sono due giovani studiosi libertari italiani.
     Libertari in un senso un po' diverso a quello comunemente inteso: si tratta, in poche parole, di estremisti liberisti. Che non esiterebbero un secondo a privatizzare l'imprivatizzabile. Incluso il chiaro di luna.
     Secondo i due (che si rifanno a una corrente di pensiero non da poco del mondo anglosassone), la teoria "verde" della cupidigia capitalistica non spiega un bel niente.
Qualche dubbio, a ben pensarci, avrebbe dovuto già venirci prima. Se, infatti, le baleniere sono mosse dalla cupidigia  degli imprenditori, come mai le piu agguerrite erano ai tempi quelle dell'Unione Sovietica, dove di imprenditori non ce ne erano?
Non c'è troppo capitalismo sugli oceani, regno delle balene, insomma, ma ce n'è troppo poco: poco capitalismo, cioè poco proprietà privata. Ecco il problema. Se le balene si estinguono, insomma, il problema è che si tratta di proprietà collettiva, pubblica. Roba di tutti. E roba di nessuno. Il primo che arriva sul branco, così, se lo prende e lo stermina.
     Già, perché lo stermina? Semplice, perche sa che, se non lo facesse lui, sarebbe un altro a farlo. Per lui, la balena vale più morta che viva: se la uccide, qualcosa gli frutterà. Se la lascia in vita, frutterà lo stesso a qualcun altro, e lui rimarrà con un pugno di mosche.
     Il discorso sarebbe diverso, spiegano Piombini e Lottieri, se la balena fosse di qualcuno. Se avesse un padrone che la tiene al guinzaglio e, con l'appoggio della legge, rivendicasse la sua proprietà dell'animale. Accadrebbe quello che è gia avvenuto in tempi più remoti; da cacciatore, l'uomo diverrebbe allevatore. Allevatore che, in quanto tale, perderebbe ogni interesse ad estinguere la specie; sarebbe anzi proprio la sua cupidigia, e la tanto vituperata "logica del profitto", a spingerlo ad accrescere quanto più può le dimensioni del branco. Più balene si allevano, più soldi si fanno.
     Bella scoperta, si potrebbe replicare, ma come si fa a mettere un guinzaglio a una balena? Non c'è bisogno di rinchiuderle in un acquario. Basterebbe agganciarle un piccolo trasmettitore, che ne segnali la posizione e il proprietario. Dopo di che toccherebbe ad appositi sorveglianti tenere a bada i branchi. E alla fantasia degli imprenditori trovare le più diverse occasioni di guadagno: non solo lacche e cosmetici, ma anche esibizioni nelle baie, ad esempio. I cetacei sono animali intelligenti. Sta ai capitalisti dimostrare altrettanto. Bella teoria, si direbbe, ma non potrebbe mai funzionare.
     I "libertari" dell'I.T.E.M. (istituto per la transizione a un'economia di mercato, già il nome è un programma) che hanno promosso la pubblicazione di "Privatizziamo il chiaro di luna", hanno però una diversa opinione. E citano, nel saggio di Piombini, un esempio a loro sostegno. Tratto direttamente dal mondo reale.
     Protagonisti sono, manco a farlo apposta, altri animali quasi mastodontici. Gli elefanti. Elefanti che vivono in una strana situazione: in Kenya, sono prossimi all'estinzione. In tutta una serie di altri stati africani (l'elenco comprende Zimbabwe, Botswana, Zambia,  Malawi, Namibia e Sudafrica) invece godono di ottima salute, e il loro numero è aumentato del 40 % negli ultimi dieci anni. Perche? Semplicemente, In Kenya il governo continua a considerarli "cosa pubblica", attenendosi alle disposizioni internazionali del 1989 che bandiscono il commercio dell'avorio. I bracconieri continuano a corrompere pubblici funzionari e l'avorio del Kenya, sul mercato, ci arriva comunque.
Nelle altre realtà africane, invece, si è ritenuto che affidando gli elefanti ai villaggi e alle tribù la loro salvezza sarebbe stata più probabile. Così e stato. Le tribù, che pure commerciano in avorio, hanno creato un sistema tra virgolette "più umano" per questi bestioni. Ad essere abbattuti, sono i capi in sovrannumero. Sovrannumero che,
finalmente, esiste: lo Zimbabwe, oggi, non considera più gli elefanti specie protetta. Il Kenya, ovviamente, non è della stessa opinione.
     Se ha funzionato in Africa, sostengono gli ultra-liberisti libertari, perché non potrebbe accadere lo stesso sugli oceani? Perché, in buona sostanza, non potrebbe accadere lo stesso ovunque? Non resta che provare.

Alberto Mingardi
"Il Borghese" 13/10/99  

GLI ECOLOGISTI, LA DOTTRINA DEL RISCHIO ZERO E CAPPUCCETTO ROSSO. QUANTO COSTA CREDERE ALLE FAVOLE ?

di Michele Ferrarini


Ogni giorno capita di sentire previsioni apocalittiche sul futuro della Terra.
Le cassandre ecologiste dipingono ogni giorno uno scenario devastante: il disboscamento avanza, la temperatura atmosferica sta salendo, lentamente ed inesorabilmente a causa dell’effetto serra, le morti per tumore nei paesi industrializzati aumentano a vista d’occhio a causa dell’inquinamento atmosferico.
Come se non bastasse ci si ostina ad usare fonti energetiche suicide come il nucleare, e a produrre cibi geneticamente modificati che, spesso, vengono pure donati ai bambini del terzo mondo con conseguenze non immediate ma sicuramente incalcolabili sul lungo periodo.
Inutile dire che, ricordando che, come diceva Feuerbach “noi siamo quello che mangiamo” e considerando che quello che mangiamo viene ormai da produzioni industriali di affidabilità quantomeno discutibile, sul nostro futuro si stanno addensando nubi foriere di enormi sventure.

Chiunque abbia adesso 25-30 anni è cresciuto con questo incubo: ha iniziato a mangiare omogeneizzati, ha respirato tonnellate di piombo, di benzene, e di altre cose non meglio identificabili, ma comunque sicuramente pericolosissime, ha giocato a pallone sotto la nube radioattiva di Chernobyl.
Ma pur sentendosi destinata a morte certa e orribile, o a sviluppare deformazioni degne forse di un circo ambulante, questa generazione non è poi cresciuta più deforme, malata e sottosviluppata delle altre.
Anzi, avendo avuto probabilmente cure migliori e un’alimentazione più abbondante delle generazioni precedenti, si ostina a godere ancora di una salute invidiabile.

Mosso da questi dubbi, mi è capitato di cercare di cogliere la stringente logica con cui vengono confezionate certe previsioni o motivate certe prese di posizione, visto che presso l’opinione pubblica sembrano godere di un’inossidabile popolarità.
In effetti è un dato di fatto che un atteggiamento catastrofista su problemi ecologici sia fortemente radicato tra i non addetti ai lavori.
Chiunque proponesse (per esempio) a una casalinga di Voghera un lauto compenso per accettare una centrale nucleare nel proprio comune si sentirebbe rispondere, nel caso più fortunato, a insulti.
Chiunque comunicasse ai propri commensali, nel bel mezzo di una cena, che l’aragosta che è stata cucinata è geneticamente modificata, si vedrebbe probabilmente recapitare una denuncia per tentata strage.
Inutile dire che qualsiasi politico italiano ha il terrore di pronunciare parole come transgenico o nucleare, per il terrore dell’inevitabile scomunica laica che si vedrebbe piovere addosso.

Il motivo di tanto religioso odio nei confronti di tecnologie che hanno dato spesso ottimi risultati e che hanno contribuito al benessere della nostra società sta nella convinzione che il nucleare e  il transgenico portino con sé, inevitabilmente, una catena di morti o di disastri ecologici difficilmente prevedibili.
Molto del problema è dato da un fatto. Il pericolo delle radiazioni nucleari, come quello dato dalle modificazioni genetiche fatte sui cibi, non è immediato, né riconoscibile ai non addetti ai lavori.
Oltretutto l’insorgenza di un eventuale tumore dovuto, per esempio, all’esposizione eccessiva alle radiazioni, è un fatto statistico, e quindi la valutazione del rischio effettivo deve essere fatta da esperti, utilizzando metodi e criteri che sfuggono alla comprensione dell’uomo della strada.    
Il risultato è che il cittadino, che pure influenza (giustamente) con il suo giudizio le decisioni politiche, si trova a dover affidare la sua sicurezza a tecnici, e oltretutto a non poter verificare immediatamente gli effetti delle decisioni prese, visto che eventuali mancanze di sicurezza si vedrebbero sempre a lungo termine.
Ovviamente esistono canali di comunicazione che permettono ai tecnici di rendere pubblici i risultati delle valutazioni fatte sulla sicurezza, ma, proprio per la natura statistica e, comunque, complessa di queste valutazioni, niente più dei risultati può essere diffuso risultando comprensibile alle masse.
A questo punto hanno gioco facile gli ecologisti, intendendo per ecologisti non gli studiosi di ecologia, quelli che fanno studi seri sul comportamento degli ecosistemi e sui danni che a volte vengono realmente fatti all’ambiente dalle attività umane, ma quei comunicatori o movimentisti che portano avanti battaglie di piazza e di cultura contro una lunga serie di innovazioni tecnologiche e industriali, sbandierando la loro presunta pericolosità.

Il ragionamento di fondo è molto semplice: riassunto in due righe è :” Le industrie pagano i tecnici per diffondere perizie che garantiscono costi minori per la sicurezza, lucrando così sulla pelle dei cittadini. Le stesse industrie pagano i politici per accettare questa situazione, ma noi vi salveremo, perché noi vi diciamo la verità, non come i tecnici che sono di parte e corrotti”.
E volano valutazioni catastrofiche e terroristiche che vengono puntualmente smentite dalle organizzazioni nazionali e internazionali preposte, ma che vengono immediatamente recepite dall’opinione pubblica, sottoposta un vero bombardamento di luoghi comuni ecologisti.
Nel caso in cui qualche adepto della fede ecologista si sentisse offeso da questa brutale approssimazione e da questa accusa di cattiva fede, non posso che giustificarmi confutando alcuni metodi di valutazione diffusissimi ma, nel migliore dei casi, frutto non di cattiva fede ma di totale ignoranza delle più elementari conoscenze di statistica.

Visto che non è stato possibile provare per i cibi transgenici la loro pericolosità, ma nemmeno la loro totale innocuità, si è inventata la dottrina del “rischio zero”.
Secondo questo punto di vista, non si dovrebbe autorizzare nessuna attività industriale e agricola a cui sia associato un qualsiasi rischio, per quanto piccolo esso sia, e per quanto ingenti potrebbero essere i vantaggi che se ne potrebbero ricavare.

Il fatto (che sfugge ai fautori di questa “teoria”) è che, per quanto impegno ci si possa mettere, nessun attività presenta un rischio nullo, nemmeno le più semplici e ovvie pratiche quotidiane.
Per esempio, ognuno di noi ha una probabilità su un milione di morire colpiti da un fulmine.
Allo stesso modo la probabilità che, nell’arco della vita di un uomo medio, cada sulla  terra un meteorite che ponga fine alla vita di tutti i mammiferi superiori (noi compresi) è di circa uno su un milione: lo stesso la probabilità di morire in un incidente stradale facendo 25 Km.
Quest’ultima probabilità, prendendo tutti i chilometri che un uomo fa nell’arco della sua vita, è per un italiano l’1,3%.
E se, spaventati da questi dati, decidete di non uscire più di casa, ricordatevi che il rischio di morire per un incidente domestico è ancora superiore, e che è pericoloso anche stare seduti davanti alla televisione, considerando che, se avete più di 50 anni, ogni mezz’ora avete una probabilità su un milione di morire per cause naturali come infarti e ictus.
Per quanto riguarda le attività lavorative, un camionista e un tassista hanno una probabilità molto più alta di morire per incidente stradale, esattamente come un muratore rischia ogni giorno con una certa probabilità (purtroppo non bassissima) di morire cadendo da un’impalcatura.
Per non parlare di poliziotti, soldati, o vigili del fuoco.
Il concetto di rischio nullo ha quindi, una credibilità confrontabile a quella di Cappuccetto Rosso, non fosse che viene spacciata come una verità rivelata.
Per quanto riguarda le attività lavorative, per aggirare il problema si fa un ragionamento del tipo: “E’ uno sporco lavoro, ma qualcuno lo deve pur fare”.
Non è pensabile un mondo senza poliziotti, senza vigili del fuoco, o  senza case perché fare la professione del  muratore non è a rischio nullo.
Ma nella rozzezza di quella frase di saggezza popolare brilla un concetto di notevole valore, che al giorno d’oggi viene definito più finemente come analisi rischio-beneficio. 
A fronte di una qualsiasi attività che comporti rischi professionali e un impatto ambientale, e quindi potenziali rischi per la vita e la salute delle persone, ci sono dei benefici, che sono in prima analisi economici.
I rischi vanno minimizzati il più possibile, e nessuno come i tecnici del ramo, (qualsiasi esso sia)  sa come limitarli, ma un minimo di rischio c’è sempre.
A fronte di questo rischio ci sono dei benefici economici.

Per comprendere appieno questo concetto bisogna porsi una domanda, spesso aborrita, sfuggita, ma terribilmente reale.
Quanto costa una vita umana?
(Può sembrare orribile, ma è la domanda su cui si basano le assicurazioni.)
Un sano istinto di realismo mi porta a dire che, purtroppo, costa molto poco, e in modo variabile con la persona.
Un grasso cittadino occidentale può costare qualche miliardo, un bambino nigeriano qualche milione, forse meno.
Milioni di persone potrebbero vivere in condizioni migliori se avessero di che nutrirsi o se disponessero dell’assistenza sanitaria più elementare.
Si potrebbe dire che, con poche migliaia di lire di antibiotici o di cibo si potrebbero salvare delle vite, o, nei paesi occidentali, si potrebbero migliorare le condizioni di vita di molte persone.
 

In definitiva, l’analisi delle scelte tra rischi e benefici, in tutti i casi di cui parlano gli ecologisti, andrebbe fatta seriamente, considerando che, fatti salvi dei criteri di sicurezza sul lavoro e di impatto ambientale, la mancata realizzazione di attività economiche per una ricerca isterica di una sicurezza ambientale oltre ogni ragionevolezza porta a danni economici non necessari, o a mancati guadagni, e questi, alla fine, si traducono in minori risorse.
Il problema è che in realtà, da qualsiasi parte si guardi il problema, i soldi, le risorse economiche, sono quelle che ci mantengono in vita.

Purtroppo capita spesso che decisioni politiche in campo ambientale vengano prese anche sotto la pressione di considerazioni non tecniche, ma ecologiste e demagogiche, senza avere una chiara percezione né delle dimensioni reali dei benefici derivanti da certe decisioni, né dei costi che esse prevedono.
Due esempi. Il protocollo di Kyoto e il blocco del nucleare in Italia.
Il primo, che decide una riduzione di qualche punto percentuale delle emissioni di anidride carbonica di molti paesi industrializzati, per far fronte all’effetto serra.
Il problema è che l’anidride carbonica prodotta dall’uomo è meno del 3% di quella in circolo naturalmente (emessa dagli oceani ecc..) e di questa meno di un quinto è prodotto dagli stati che hanno aderito al protocollo di Kyoto.
L’effetto sul bilancio di anidride carbonica è ridicolo, e applicarlo costerà parecchie decine di migliaia di miliardi.
Più o meno la stessa cifra che è costata all’Italia  l’uscita dal nucleare dopo il 1987.
Sui motivi reali di questa scelta si potrebbero scrivere parecchi libri,  ma penso che basti ricordare che tutti i paesi europei hanno una certa percentuale di energia elettrica nucleare e la loro popolazione non sembra soffrine particolarmente.
Si parla di decine di migliaia di miliardi; questo è quanto ci è costato uscire dal nucleare e questo è quanto costerà applicare il protocollo di Kyoto.
Con una cifra simile si è calcolato che si potrebbero risolvere gran parte dei problemi di approvvigionamento idrico di molte popolazioni, e (scusate il populismo dell’argomento) si sarebbero probabilmente potuti mantenere tutti i bambini dei Ruanda fino alla maggiore età.
Con questo non voglio mettere alla berlina le cassandre ecologiste di cui sopra, né tantomeno accusare le associazioni ambientaliste di tentato genocidio, ma almeno vorrei porre una domanda: siamo sicuri che ne valga la pena?
 
Michele Ferrarini  

tratto da Libertates

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