Ecologia di mercato
Il libro di Lomborg
Cassandre ecologiste in fuga, di Nicola Iannello
Tutta la verità, nient'altro che la verità, di Andrea Mancia
Il vero ambientalismo è la crescita economica, di Stefano Da Empoli
“Non è colpa dei ricercatori, ma di chi divulga la Litania", intervista a Bjørn Lomborg di Carlo Stagnaro
Per un ecologismo federalista, di Guglielmo Piombini
Privatizziamo le balene, di Alberto Mingardi
Gli
ecologisti, la dottrina del rischio zero e Cappuccetto Rosso. Quanto costa
credere alle favole?, di Michele Ferrarini
Cassandre
ecologiste in fuga
di Nicola Iannello
Nel 1980 due studiosi che si confrontavano in un dibattito sulle pagine della
“Social Science Quarterly” fecero una scommessa sui prezzi di cinque
metalli: da lì a dieci anni sarebbero aumentati o diminuiti? Non si trattava di
una sfida economica ma ecologica; infatti il prezzo è il principale indicatore
della scarsità o abbondanza di una risorsa. Per Julian Simon tutti i metalli
del paniere (cromo, rame, nichel, stagno e tungsteno) sarebbero diventati meno
cari, ovvero più abbondanti; per Paul Ehrlich sarebbe accaduto il contrario.
Nel 1990 il primo vinse la scommessa. Il nome di Simon – professore di
economia all’Università del Maryland, morto nel 1998 – ha rappresentato per
lungo tempo lo spauracchio del catastrofismo ecologista, dell’ambientalismo
anti-capitalista e statalista. Proprio per questo, un professore universitario
di statistica, danese, militante di Greenpeace, tempo fa si prese la briga di
studiare le opere di Simon con lo scopo di confutarle. Ma come ben sa la Chiesa,
è pericoloso leggere testi eretici. Infatti Bjørn Lomborg è diventato un
eretico, e da quando il suo “The Skeptical Environmentalist” è uscito
l’anno scorso, la “chiesa” ecologista grida “al rogo” (basti vedere il
comico avviso ai giornalisti diffuso su internet da WWF e World Resources
Institute, in cui si avvertono i recensori della pericolosità del libro).
Basandosi sulle stesse fonti statistiche cui attingono gli ambientalisti di
maniera, il professore danese ribalta i luoghi comuni più diffusi: la
disponibilità di risorse non diminuisce ma aumenta, gli effetti negativi del
“riscaldamento globale” sono ben lungi dall’esser dimostrati, la qualità
dell’aria migliora invece di peggiorare, ecc...
Un libro pieno di numeri questo “ecologista scettico” che adotta il punto di
vista più proficuo per gli economisti avveduti, quel lungo periodo così
disprezzato da Keynes. Da questo angolo di osservazione – che non si lascia
confondere da temporanee crisi di panico – si può constatare come l’umanità
non se la passi poi così male; i problemi certo non mancano – nessun
osservatore serio nega l’inquinamento nei paesi industrializzati, le carestie
in quelli poveri, la desertificazione di vaste aree del pianeta – ma vanno
compresi con categorie concettuali scientifiche. L’economia ci insegna a non
restare alla superficie delle cose; le risorse naturali significano qualcosa
solo perché c’è l’uomo a dar loro valore (il petrolio prima della scoperta
del suo uso per produrre energia, per le popolazioni arabe era un inquinante dei
pozzi d’acqua). Non a caso l’opera più famosa di Julian Simon si intitola
“The Ultimate Resource”, che potremmo tradurre con la “risorsa
fondamentale”, dove questa risorsa è appunto l’uomo.
Il libro di Lomborg si inserisce nella tradizione economica liberale che ha
contribuito a spazzar via le cassandre ecologiste. Ricordiamo che quest’anno
ricorre il trentennale della pubblicazione dello sciagurato “The Limits to
Growth”, il rapporto per il Club di Roma di Donella e Dennis Meadows, Jorgen
Randers e William W. Behrens (“I limiti dello sviluppo”, Mondadori, 1972).
L’opera conteneva la quintessenza del catastrofismo anti-capitalista:
“Nell’ipotesi che l’attuale linea di sviluppo continui inalterata nei
cinque settori fondamentali (popolazione, industrializzazione, inquinamento,
produzione di alimenti, consumo delle risorse naturali) l’umanità è
destinata a raggiungere i limiti naturali dello sviluppo entro i prossimi cento
anni. Il risultato più probabile sarà un improvviso, incontrollabile declino
del livello di popolazione e del sistema industriale”.
La scienza economica ci fornisce un altro esempio di teoria applicata a un caso
storico. Il premio Nobel Friederich von Hayek racconta di come nell’immediato
dopo guerra si voleva far fronte a una forte scarsità di rame sul mercato
mondiale, dove il prezzo schizzò alle stelle; alle Nazioni Unite si pensò di
razionarlo, ma per fortuna la misura non venne adottata e il mercato – ovvero
le persone che fanno scelte – trovò la soluzione. L’alto prezzo del metallo
non solo incoraggiò un uso più parsimonioso e il riciclo, non solo rese
convenienti investimenti per la ricerca di nuovi filoni e miniere, ma incentivò
a trovare sostituti. Il risultato fu una maggior disponibilità di rame (il cui
prezzo infatti nel lungo periodo è calato) e l’invenzione delle fibre
ottiche. Lo stesso si potrebbe dire del petrolio, spesso portato a esempio dai
catastrofisti che dimenticano come il prezzo al consumo sia artificiosamente
tenuto alto da un cartello di stati. Questo l’economia e il libro di Lomborg
ci insegnano. L’ambiente – per parafrasare Clémenceau – è una cosa
troppo seria per lasciarlo nelle mani degli ambientalisti. Chi ha a cuore il
futuro del pianeta deve contribuire a spezzare il monopolio degli ecologisti
nella cultura e nella politica ambientale.
Tutta
la verità, nient'altro che la verità
di Andrea Mancia
"The Skekptical Environmentalist", scritto dal danese Bjørn Lomborg
per la Cambridge University Press (e di prossima pubblicazione in Italia), non
sembra - a prima vista - un libro capace di accendere le passioni e spaccare in
due la comunità scientifica. Questo libro di quasi 500 pagine pieno di numeri,
grafici (162) e note bibliografiche accuratissime (2900) è invece riuscito dove
pamphlet propagandistici costruiti con ben altre pretese avevano miseramente
fallito. E ha finalmente gettato un po' di luce su quella "grande
truffa" della litania ambientalista che inquina, ormai da decenni, il
nostro pianeta.
Lomborg - professore associato di statistica, ecologista, ex attivista di Greenpeace, vegetariano e vicino (per sua stessa ammissione) alle idee della sinistra scandinava - è diventato un "ambientalista scettico" quasi per caso, soggiogato dalla forza dei fatti e dal potere persuasivo dei numeri. Era partito per dimostrare che la Terra era moribonda, insomma, e si è ritrovato a raccontare una storia del tutto diversa, fatta di una malattia in avanzato stadio di guarigione e di una pletora di medici pronti a giurare il falso pur di ottenere qualche finanziamento in più. Una storia triste, senza dubbio, ma molto meno tragica di quanto la lobby internazionale degli scienziati-verdi abbia voluto farci credere negli ultimi anni, anche grazie alla criminale complicità di un poderoso network massmediatico.
"The Skekptical Environmentalist" parte dalle stesse fonti utilizzate dalle Cassandre egologiste per gridare al disastro imminente, ma le analizza con rigore scientifico-matematico da una prospettiva di lungo periodo. E bastano poche pagine per accorgersi della differenza: sulla deforestazione, la fame nel mondo, l'inquinamento dell'aria, le specie animali in via d'estinzione... Perfino il Sacro Testo del Protocollo di Kyoto finisce per essere ridimensionato dalla fredda analisi di Lomborg che, in punta di penna e senza alzare la voce, si sbarazza di una serie infinita di petulanti luoghi comuni travestiti da para-scienza.
Naturale, dunque, che il Gotha ecologista si sia sentito toccato, nel profondo, dal lavoro del ricercatore danese. Ma la reazione scomposta degli ambientalisti è andata oltre, dimostrando una violenza ed un'arroganza dimenticate dai tempi della Terza Internazionale. "Scientific American", che ormai da tempo è diventata una Bibbia dei pasdaran verdi, ha dedicato un numero speciale alla distruzione sistematica del libro di Lomborg, non andando oltre - per la verità - ad una meschina raccolta di insulti gratuiti. Anche Greenpace, WWF e Worldwatch Institute si sono lanciati in una serie impressionante di attacchi che molto spesso sono scivolati nel campo delle offese personali. Quasi nessuno, invece, ha avuto il coraggio di affrontare Lomborg sul suo campo, quello dell'analisi statistica dei dati. E questo è un vero peccato, perché la scienza avrebbe bisogno di discussione e confronto tra idee per progredire. Al contrario, l'isteria e la demonizzazione dell'avversario o di chi, semplicemente, la pensa in maniera diversa, servono soltanto a chi - in perfetta malafede - ha bisogno di continuare a coltivare il proprio orticello moribondo (o presunto tale). Ma tutto questo con la scienza e la ricerca della "verità" non ha nulla a che fare.
Il
vero ambientalismo è la crescita economica
di Stefano Da Empoli
Finalmente anche i pro-global hanno trovato la loro Naomi Klein. Bjørn Lomborg
è giovane e di bell’aspetto, è disinvolto con la lingua inglese ma, Dio sia
lodato, non proviene dal paese più odiato del mondo (gli USA, naturalmente)
bensì dalla discreta Danimarca, la nazione che ha il primato di aiuti al Terzo
Mondo (rispetto al prodotto interno lordo). Insomma, una bella svolta per uno
schieramento percepito fino all’altro ieri come polveroso e retrò. Soltanto
che Bjørn Lomborg avrebbe il diritto di querelarci qualora lanciassimo un
simile paragone. Mentre Naomi Klein scorrazzava piacevolmente per il mondo,
Lomborg lavorava sodo in biblioteca. Risultato: il suo bestseller internazionale
“The Skeptical Environmentalist” contiene quasi tremila note e settanta
pagine di bibliografia. Dati che la dicono lunga sulla serietà di Lomborg,
statistico di professione dell’Università di Aarhus.
Al di là di qualsiasi giudizio sui contenuti, il libro merita alcune
osservazioni metodologiche. Le sue tesi anti-conformiste (in sintesi, la terra
non sta male come si dice) non sono una novità assoluta. Molti economisti si
erano cimentati sugli stessi argomenti, arrivando a conclusioni simili. Quel che
impressiona è la ricchezza di dati e l’agilità con la quale Lomborg li
domina. Il check-up della salute del pianeta è completo: si passa dalla
prosperità al cibo, dai pesticidi alla spazzatura, dall’energia al
surriscaldamento terrestre. Il bilancio è sostanzialmente positivo:
contrariamente a quanto sostiene l’affollato club dei catastrofisti la terra
non è mai stata bene come oggi. Questo non vuol dire, sostiene Lomborg, che ci
si debba sedere sui risultati acquisiti. Ricordandosi, però, che l’ottimo è
nemico del bene. Qualsiasi misura pro-ambiente deve passare attraverso una seria
analisi costi-benefici. Analisi che boccia inesorabilmente il Protocollo di
Kyoto, che, a fronte di una diminuzione poco più che infinitesimale della
temperatura del globo, metterebbe a rischio il nostro benessere economico. Del
quale forse noi occidentali ci possiamo tutto sommato disinteressare. Non così
il Terzo Mondo, per il quale un punto di crescita in più degli scambi mondiali
significano milioni di poveri in meno (nonché di vite salvate).
Il nemico principale del libro di Lomborg, attivista pentito di Greenpeace,
sembra essere proprio l’elitarismo di sinistra che, sotto le simpatiche vesti
del movimento ambientalista e no-global, se ne infischia delle sorti dei più
poveri del pianeta. Invocando, in assenza di prove scientifiche a sostegno delle
tesi ambientaliste, il principio di precauzione, secondo il quale dovremmo
adottare tutte le cosiddette misure “ecocompatibili” per semplice cautela.
Il problema è che la cautela costa. Peraltro in modo selettivo. Chi sta avanti
può permetterselo, chi sta indietro no. La migliore precauzione, conclude
Lomborg, è la crescita economica, il più possibile libera da lacci e lacciuoli
ambientalisti e no-global.
“Non
è colpa dei ricercatori, ma di chi divulga la Litania"
intervista a Bjørn Lomborg di Carlo Stagnaro
Ha appena 36 anni, Bjørn Lomborg, ma già è una delle persone più discusse
sulla faccia della terra. Docente di statistica presso l’Università di Aarhus
(Danimarca), egli è l’autore del libro che ha fatto rodere il fegato a tutti
gli ambientalisti del mondo: “The Skeptical Environmentalist”, edito
nell’estate del 2001 da Cambridge University Press e giunto già alla sesta
ristampa – e di prossimo arrivo in Italia per Mondadori. Tale volume è una
raccolta di dati, crudi numeri e studi effettuati dai più accreditati enti di
ricerca (dall’Organizzazione mondiale della sanità alle varie branche
dell’ONU, fino alle più prestigiose università). Gli stessi dati di cui
dispongono gli ambientalisti, dunque. Lomborg, però, mostra come le cose stiano
assai meglio di quanto ci venga abitualmente detto. La maggior parte delle
politiche ambientali, inoltre, rappresentano – secondo l’autore –
altrettante ingiustificate e inefficaci occasioni di sperpero del denaro
pubblico. Se si focalizza l’attenzione sull’ambiente, infatti, la si
distoglie dall’uomo; si perdono di vista i grandi problemi che, in ultima
analisi, possono essere riassunti in una sola parola: povertà. La vera via da
percorrere, allora, è quella dello sviluppo e della sperimentazione, non quella
della paura e dell’ostilità verso la scienza. Se lo dice Lomborg,
ambientalista sì (ha alle spalle anche una militanza in Greenpeace), però
scettico, bisogna crederlo.
Professor Lomborg, cosa significa essere un “ambientalista scettico”?
Significa che io sono un ambientalista, perché – come la maggior parte della
gente – mi preoccupo per la nostra Terra e per la salute e il benessere delle
generazioni a venire. Ma sono anche scettico, poiché me ne preoccupo abbastanza
da non voler agire sulla base di semplici miti, ottimisti o pessimisti che
siano. Al contrario, gli uomini dovrebbero utilizzare le informazioni più
accurate di cui dispongono per perseguire, tutti insieme, l’obiettivo comune
di rendere migliore il domani.
Lei ha definito le tendenze pessimistiche come “la Litania”. Ha qualcosa da
aggiungere?
La Litania ha pervaso il dibattito così profondamente e così a lungo, che
affermazioni chiaramente false possono essere dette e ripetute, senza alcun
riferimento preciso, e ciò nonostante essere prese per buone. Questa non è la
conseguenza del fallimento della ricerca accademica sui problemi ambientali, che
anzi è bilanciata e competente. Piuttosto, ci troviamo di fronte alla disfatta
della divulgazione delle conoscenze ambientali, che tocca insistentemente la
corda delle nostre credenze fatalistiche.
In effetti, quello ambientalista viene presentato abitualmente come un punto di
vista oggettivo. Lei non la pensa così?
Diciamo le cose come stanno. Quanto peggio viene ritratto lo stato di salute
dell’ambiente, tanto più facile è per gli ambientalisti convincerci a
spendere denaro su di esso anziché in ospedali, asili, eccetera. E, per favore,
tenga presente che io ero fino a poco tempo fa il tipico uomo di sinistra,
tranquillo e impegnato. Se me lo avesse chiesto nel 1980, non avrei mai potuto
immaginare che, ai giorni nostri, non vi sarebbe stato alcun pericolo di
esaurimento delle risorse. Allora partecipavo a manifestazioni e cortei, ma solo
a quelli: non facevo nulla di illegale, insomma. Sono troppo provinciale e
accademico per questo genere di cose.
Mi scusi, professore, davvero lei pensa che non stiamo esaurendo le nostre
risorse?
Certamente. I dati mostrano che il cibo probabilmente continuerà a diventare più
economico e meno scarso e che saremo in grado di nutrire un numero sempre
maggiore di persone. Le foreste non sono scomparse, anzi. L’acqua è una
risorsa abbondante e rinnovabile, sebbene possa essere localmente scarsa (in
parte poiché non è stata considerata prima una risorsa limitata e di valore).
Non sembra esservi alcun serio problema per quanto riguarda le risorse non
rinnovabili, come l’energia e le materie prime. In particolare, il nostro
consumo di energia non ha un limite superiore, né nel breve né nel lungo
termine.
In ogni caso, vi è chi dice che dovremmo comunque riciclare le materie: in caso
contrario, arriverà un giorno in cui non sapremo più dove mettere i rifiuti.
Pensa che dobbiamo pagare questo prezzo?
La credenza sottesa a gran parte delle argomentazioni a favore del riciclaggio
è che stiamo esaurendo le risorse. Si tratta, questo, di un esempio
spettacolare in cui i vecchi ambientalisti, molto semplicemente, avevano
sbagliato. Ma molte persone ancora ne sono convinte. Il riciclaggio talvolta ha
senso, ma non dovremmo prenderlo per un dogma di fede. Non stiamo esaurendo le
risorse e non stiamo esaurendo lo spazio per stoccare i rifiuti. Anche se gli
Stati Uniti aumentassero la loro produzione di spazzatura pro capite del 15 per
cento all’anno e raddoppiassero la loro popolazione, l’intera produzione di
rifiuti del ventunesimo secolo potrebbe essere sistemata in un cumulo alto una
trentina di metri su una superficie a base quadrata di 28 Km di lato. Rispetto
all’intero Nord America, si tratta di un’estensione irrisoria: un puntino
sulla carta geografica degli USA. Trovare un sito per stoccare i rifiuti è una
questione politica – nessuno li vuole nel proprio cortile. Ma non è un
problema di spazio.
Se le cose stanno come dice lei, dovremmo sentirci davvero bene…
Sarebbe irrealistico dire che tutto stia migliorando. Ma dobbiamo sviluppare la
capacità di costruire una scala di priorità. Per esempio, il livello di
inquinanti sta diminuendo rapidamente nei paesi industrializzati. L’aria di
Londra è oggi più pulita di quanto lo sia mai stata fin dal 1585. Il londinese
medio stava nel passato molto peggio di oggi.
Quindi, lei non pensa che noi dovremmo investire in politiche che, si suppone,
possano aiutare il Terzo Mondo. Cosa pensa, per esempio, del protocollo di Kyoto?
Penso che potremmo aiutare il Terzo Mondo assai di più facendo altre cose, per
esempio fornendo loro acqua potabile e servizi sanitari. Con la spesa di 200
miliardi – che è il costo di Kyoto per un solo anno – potremmo garantire
acqua potabile a chiunque e per sempre. Questo salverebbe ogni anno due milioni
di persone dalla morte e mezzo miliardo di persone da una grave malattia. In
ogni caso, il fatto è che, per quel che riguarda tutti i nostri problemi
principali, gli uomini, in media, sono più ricchi, godono di una migliore
salute, hanno una più lunga aspettativa di vita e si nutrono meglio che in
qualunque altro momento nella storia dell’umanità. Tra vent’anni, ci
volteremo indietro e ci meraviglieremo di esserci preoccupati così tanto. L’ambientalismo
non sarà più una forma di religione, ma semplice buonsenso.
Lei è giovane quanto famoso – alcuni si sono innamorati del suo lavoro, altri
la vedono come l’Anticristo. Come ci si sente in queste condizioni?
Essere famosi non è bello, ma è bello essere nel giusto.
Tutti gli articoli fin qui elencati sono stati pubblicati sul n. 60 di Ideazione.com,
1 Marzo 2002
Per un ecologismo federalista. di Guglielmo Piombini L'ecologismo federalista garante delle libertà locali. Le soluzioni proposte dall'ecologismo
liberista trovano la loro ottimale realizzazione pratica ad un livello
politico quanto più decentrato possibile. La forma di stato federale o
confederale, nella quale le autonomie locali detengono effettivi
strumenti di autogoverno, rappresenta la cornice istituzionale che
meglio si combina con gli obiettivi dell'ambientalismo di mercato, che
sono quelli di trasporre fedelmente i principi liberali che regolano la
convivenza umana ad un campo, come l'ecologia, al quale sono per lungo
tempo rimasti estranei. Il problema del calcolo economico e della dispersione della conoscenza. Uno degli aspetti più sorprendenti del
dibattito ecologico contemporaneo è costituito dal ritorno della
tematica del calcolo economico sotto il socialismo, iniziato da Ludwig
von Mises negli anni '20 e '30 e proseguito poi da altri esponenti della
scuola austriaca d'economia come Friedrich von Hayek e Israel Kirzner. Le virtù civiche possono limitare gli effetti delle "tragedie dei beni collettivi". Gli ecologisti libertari, nei loro
ragionamenti economici, non fanno molto affidamento sull'educazione
civica degli individui, considerata un fattore secondario. Infatti, se i
vantaggi individuali di un'azione antiecologica sorpassano di gran lunga
i costi personali, o se i costi individuali di un'azione ecologicamente
corretta sono eccessivi rispetto ai suoi vantaggi, è alquanto difficile
che si possano instaurare e consolidare pratiche sociali rispettose
dell'ambiente. Nel loro realismo, queste conclusioni sono in genere
corrette, ma occorre aggiungere qualche altra considerazione. Il federalismo ambientale assicura una maggiore responsabilizzazione degli amministratori pubblici. Una delle cause principali degli scarsi
risultati realizzati dallo Stato nella tutela ambientale deriva dal
fatto che, come hanno dimostrato gli studiosi delle dinamiche
decisionali pubbliche, all'interno dei corpi politici e burocratici
vigono le stesse motivazioni egoistiche presenti nel mercato. È
irrealistico pensare che i governanti, i dipendenti pubblici e gli
elettori non perseguano il proprio interesse personale allo stesso modo
degli imprenditori e dei consumatori privati. Il federalismo ambientale permette gli opportuni adattamenti tra realtà locali che possono avere preferenze ecologiche diverse. Uno dei principali difetti delle attuali
politiche ambientaliste svolte a livello nazionale è che
inevitabilmente impongono standard uniforni, decisi dal Ministero, a
situazioni che invece richiederebbbero interventi differenziati. Dalle vicinie a Privatopia: esempi antichi e moderni di gestione comunitaria di beni collettivi ambientali. Diversi sono gli esempi, passati e
attuali, di gestione comunitaria di beni pubblici. Lo stesso Comune
italiano deve il proprio nome proprio al fatto che, storicamente, è
sorto per la gestione dei beni "comuni" ad una certa
collettività territoriale. Il periodo medioevale ha conosciuto una
ricca fioritura di istituti giuridici eminentemente privatistici
finalizzati a disciplinare i beni collettivi. |
Privatizziamo
le balene!
Una proposta ultra-liberista
Le balene sono in via
di estizione, questo lo sanno tutti. E tutti, allo stesso modo, sono pronti a
scommetere che la colpa sia della cupidigia degli uomini. Della "logica del
profitto".
Nell'immaginario
collettivo, a timonare le baleniere che si avventano sui branchi di capodogli
sono capitalisti spietati ed assetati di sangue e denaro, con l'arpione in mano
e senza scrupolo alcuno.
Questa è la
"vulgata" ambientalista, che i bambini imparano sin dalla più tenera
età. I cacciatori sono cattivi, anzi cattivissimi, le balene buone ma indifese,
tocca a noi difenderle. E via, zaino in spalla, a organizzare battute di
whale-watching, sulle navi di Greenpeace e protetti dalle bandiere del WWF.
Risultati? Meno che zero. In compenso, tantissimi i soldi spesi. Preferibilmente
quelli degli altri.
In fondo all'aula, però,
due allievi monelli alzano la manina, e cominciano a fare al professore
"verde" qualche domanda imbarazzante. Si tratta di Carlo Lottieri e
Guglielmo Piombini, di cui la Leonardo Facco Editore di Treviglio (Bergamo) ha
dato alle stampe un illuminante pamphlet. "Privatizziamo il chiaro di
luna", recita il titolo. La
"moderazione", insomma, non è il loro
forte. La lucidità, però, sì.
Lottieri e Piombini sono
due giovani studiosi libertari italiani.
Libertari in un senso un
po' diverso a quello comunemente inteso: si tratta, in poche parole, di
estremisti liberisti. Che non esiterebbero un secondo a privatizzare l'imprivatizzabile.
Incluso il chiaro di luna.
Secondo i due (che si
rifanno a una corrente di pensiero non da poco del mondo anglosassone), la
teoria "verde" della cupidigia capitalistica non spiega un bel niente.
Qualche dubbio, a ben pensarci, avrebbe dovuto già
venirci prima. Se, infatti, le baleniere sono mosse dalla cupidigia degli
imprenditori, come mai le piu agguerrite erano ai tempi quelle dell'Unione
Sovietica, dove di imprenditori non ce ne erano?
Non c'è troppo capitalismo sugli oceani, regno
delle balene, insomma, ma ce n'è troppo poco: poco capitalismo, cioè poco
proprietà privata. Ecco il problema. Se le balene si estinguono, insomma, il
problema è che si tratta di proprietà collettiva, pubblica. Roba di tutti. E
roba di nessuno. Il primo che arriva sul branco, così, se lo prende e lo
stermina.
Già, perché lo stermina?
Semplice, perche sa che, se non lo facesse lui, sarebbe un altro a farlo. Per
lui, la balena vale più morta che viva: se la uccide, qualcosa gli frutterà.
Se la lascia in vita, frutterà lo stesso a qualcun altro, e lui rimarrà con un
pugno di mosche.
Il discorso sarebbe
diverso, spiegano Piombini e Lottieri, se la balena fosse di qualcuno. Se avesse
un padrone che la tiene al guinzaglio e, con l'appoggio della legge,
rivendicasse la sua proprietà dell'animale. Accadrebbe quello che è gia
avvenuto in tempi più remoti; da cacciatore, l'uomo diverrebbe allevatore.
Allevatore che, in quanto tale, perderebbe ogni interesse ad estinguere la
specie; sarebbe anzi proprio la sua cupidigia, e la tanto vituperata
"logica del profitto", a spingerlo ad accrescere quanto più può le
dimensioni del branco. Più balene si allevano, più soldi si fanno.
Bella scoperta, si
potrebbe replicare, ma come si fa a mettere un guinzaglio a una balena? Non c'è
bisogno di rinchiuderle in un acquario. Basterebbe agganciarle un piccolo
trasmettitore, che ne segnali la posizione e il proprietario. Dopo di che
toccherebbe ad appositi sorveglianti tenere a bada i branchi. E alla fantasia
degli imprenditori trovare le più diverse occasioni di guadagno: non solo
lacche e cosmetici, ma anche esibizioni nelle baie, ad esempio. I cetacei sono
animali intelligenti. Sta ai capitalisti dimostrare altrettanto. Bella teoria,
si direbbe, ma non potrebbe mai funzionare.
I "libertari"
dell'I.T.E.M. (istituto per la transizione a un'economia di mercato, già il
nome è un programma) che hanno promosso la pubblicazione di "Privatizziamo
il chiaro di luna", hanno però una diversa opinione. E citano, nel saggio
di Piombini, un esempio a loro sostegno. Tratto direttamente dal mondo reale.
Protagonisti sono, manco a
farlo apposta, altri animali quasi mastodontici. Gli elefanti. Elefanti che
vivono in una strana situazione: in Kenya, sono prossimi all'estinzione. In
tutta una serie di altri stati africani (l'elenco comprende Zimbabwe, Botswana,
Zambia, Malawi, Namibia e Sudafrica) invece godono di ottima salute, e il
loro numero è aumentato del 40 % negli ultimi dieci anni. Perche?
Semplicemente, In Kenya il governo continua a considerarli "cosa
pubblica", attenendosi alle disposizioni internazionali del 1989 che
bandiscono il commercio dell'avorio. I bracconieri continuano a corrompere
pubblici funzionari e l'avorio del Kenya, sul mercato, ci arriva comunque.
Nelle altre realtà africane, invece, si è
ritenuto che affidando gli elefanti ai villaggi e alle tribù la loro salvezza
sarebbe stata più probabile. Così e stato. Le tribù, che pure commerciano in
avorio, hanno creato un sistema tra virgolette "più umano" per questi
bestioni. Ad essere abbattuti, sono i capi in sovrannumero. Sovrannumero che,
finalmente, esiste: lo Zimbabwe, oggi, non
considera più gli elefanti specie protetta. Il Kenya, ovviamente, non è della
stessa opinione.
Se ha funzionato in
Africa, sostengono gli ultra-liberisti libertari, perché non potrebbe accadere
lo stesso sugli oceani? Perché, in buona sostanza, non potrebbe accadere lo
stesso ovunque? Non resta che provare.
Alberto Mingardi
"Il Borghese" 13/10/99
GLI ECOLOGISTI, LA DOTTRINA DEL RISCHIO ZERO E CAPPUCCETTO ROSSO. QUANTO COSTA CREDERE ALLE FAVOLE ?
di Michele Ferrarini
Ogni giorno capita di sentire previsioni apocalittiche sul futuro della Terra.
Le cassandre ecologiste dipingono ogni giorno uno scenario devastante: il
disboscamento avanza, la temperatura atmosferica sta salendo, lentamente ed
inesorabilmente a causa dell’effetto serra, le morti per tumore nei paesi
industrializzati aumentano a vista d’occhio a causa dell’inquinamento
atmosferico.
Come se non bastasse ci si ostina ad usare fonti energetiche suicide come il
nucleare, e a produrre cibi geneticamente modificati che, spesso, vengono pure
donati ai bambini del terzo mondo con conseguenze non immediate ma sicuramente
incalcolabili sul lungo periodo.
Inutile dire che, ricordando che, come diceva Feuerbach “noi siamo quello che
mangiamo” e considerando che quello che mangiamo viene ormai da produzioni
industriali di affidabilità quantomeno discutibile, sul nostro futuro si stanno
addensando nubi foriere di enormi sventure.
Chiunque abbia adesso 25-30 anni è cresciuto con questo incubo: ha iniziato a
mangiare omogeneizzati, ha respirato tonnellate di piombo, di benzene, e di
altre cose non meglio identificabili, ma comunque sicuramente pericolosissime,
ha giocato a pallone sotto la nube radioattiva di Chernobyl.
Ma pur sentendosi destinata a morte certa e orribile, o a sviluppare
deformazioni degne forse di un circo ambulante, questa generazione non è poi
cresciuta più deforme, malata e sottosviluppata delle altre.
Anzi, avendo avuto probabilmente cure migliori e un’alimentazione più
abbondante delle generazioni precedenti, si ostina a godere ancora di una salute
invidiabile.
Mosso da questi dubbi, mi è capitato di cercare di cogliere la stringente
logica con cui vengono confezionate certe previsioni o motivate certe prese di
posizione, visto che presso l’opinione pubblica sembrano godere di
un’inossidabile popolarità.
In effetti è un dato di fatto che un atteggiamento catastrofista su problemi
ecologici sia fortemente radicato tra i non addetti ai lavori.
Chiunque proponesse (per esempio) a una casalinga di Voghera un lauto compenso
per accettare una centrale nucleare nel proprio comune si sentirebbe rispondere,
nel caso più fortunato, a insulti.
Chiunque comunicasse ai propri commensali, nel bel mezzo di una cena, che
l’aragosta che è stata cucinata è geneticamente modificata, si vedrebbe
probabilmente recapitare una denuncia per tentata strage.
Inutile dire che qualsiasi politico italiano ha il terrore di pronunciare parole
come transgenico o nucleare, per il terrore dell’inevitabile scomunica laica
che si vedrebbe piovere addosso.
Il motivo di tanto religioso odio nei confronti di tecnologie che hanno dato
spesso ottimi risultati e che hanno contribuito al benessere della nostra società
sta nella convinzione che il nucleare e
il transgenico portino con sé, inevitabilmente, una catena di morti o di
disastri ecologici difficilmente prevedibili.
Molto del problema è dato da un fatto. Il pericolo delle radiazioni nucleari,
come quello dato dalle modificazioni genetiche fatte sui cibi, non è immediato,
né riconoscibile ai non addetti ai lavori.
Oltretutto l’insorgenza di un eventuale tumore dovuto, per esempio,
all’esposizione eccessiva alle radiazioni, è un fatto statistico, e quindi la
valutazione del rischio effettivo deve essere fatta da esperti, utilizzando
metodi e criteri che sfuggono alla comprensione dell’uomo della strada.
Il risultato è che il cittadino, che pure influenza (giustamente) con il suo
giudizio le decisioni politiche, si trova a dover affidare la sua sicurezza a
tecnici, e oltretutto a non poter verificare immediatamente gli effetti delle
decisioni prese, visto che eventuali mancanze di sicurezza si vedrebbero sempre
a lungo termine.
Ovviamente esistono canali di comunicazione che permettono ai tecnici di rendere
pubblici i risultati delle valutazioni fatte sulla sicurezza, ma, proprio per la
natura statistica e, comunque, complessa di queste valutazioni, niente più dei
risultati può essere diffuso risultando comprensibile alle masse.
A questo punto hanno gioco facile gli ecologisti, intendendo per ecologisti non
gli studiosi di ecologia, quelli che fanno studi seri sul comportamento degli
ecosistemi e sui danni che a volte vengono realmente fatti all’ambiente dalle
attività umane, ma quei comunicatori o movimentisti che portano avanti
battaglie di piazza e di cultura contro una lunga serie di innovazioni
tecnologiche e industriali, sbandierando la loro presunta pericolosità.
Il ragionamento di fondo è molto semplice: riassunto in due righe è :” Le
industrie pagano i tecnici per diffondere perizie che garantiscono costi minori
per la sicurezza, lucrando così sulla pelle dei cittadini. Le stesse industrie
pagano i politici per accettare questa situazione, ma noi vi salveremo, perché
noi vi diciamo la verità, non come i tecnici che sono di parte e corrotti”.
E volano valutazioni catastrofiche e terroristiche che vengono puntualmente
smentite dalle organizzazioni nazionali e internazionali preposte, ma che
vengono immediatamente recepite dall’opinione pubblica, sottoposta un vero
bombardamento di luoghi comuni ecologisti.
Nel caso in cui qualche adepto della fede ecologista si sentisse offeso da
questa brutale approssimazione e da questa accusa di cattiva fede, non posso che
giustificarmi confutando alcuni metodi di valutazione diffusissimi ma, nel
migliore dei casi, frutto non di cattiva fede ma di totale ignoranza delle più
elementari conoscenze di statistica.
Visto che non è stato possibile provare per i cibi transgenici la loro
pericolosità, ma nemmeno la loro totale innocuità, si è inventata la dottrina
del “rischio zero”.
Secondo questo punto di vista, non si dovrebbe autorizzare nessuna attività
industriale e agricola a cui sia associato un qualsiasi rischio, per quanto
piccolo esso sia, e per quanto ingenti potrebbero essere i vantaggi che se ne
potrebbero ricavare.
Il fatto (che sfugge ai fautori di questa “teoria”) è che, per quanto
impegno ci si possa mettere, nessun attività presenta un rischio nullo, nemmeno
le più semplici e ovvie pratiche quotidiane.
Per esempio, ognuno di noi ha una probabilità su un milione di morire colpiti
da un fulmine.
Allo stesso modo la probabilità che, nell’arco della vita di un uomo medio,
cada sulla
terra un meteorite che ponga fine alla vita di tutti i mammiferi
superiori (noi compresi) è di circa uno su un milione: lo stesso la probabilità
di morire in un incidente stradale facendo 25 Km.
Quest’ultima probabilità, prendendo tutti i chilometri che un uomo fa
nell’arco della sua vita, è per un italiano l’1,3%.
E se, spaventati da questi dati, decidete di non uscire più di casa,
ricordatevi che il rischio di morire per un incidente domestico è ancora
superiore, e che è pericoloso anche stare seduti davanti alla televisione,
considerando che, se avete più di 50 anni, ogni mezz’ora avete una probabilità
su un milione di morire per cause naturali come infarti e ictus.
Per quanto riguarda le attività lavorative, un camionista e un tassista hanno
una probabilità molto più alta di morire per incidente stradale, esattamente
come un muratore rischia ogni giorno con una certa probabilità (purtroppo non
bassissima) di morire cadendo da un’impalcatura.
Per non parlare di poliziotti, soldati, o vigili del fuoco.
Il concetto di rischio nullo ha quindi, una credibilità confrontabile a quella
di Cappuccetto Rosso, non fosse che viene spacciata come una verità rivelata.
Per quanto riguarda le attività lavorative, per aggirare il problema si fa un
ragionamento del tipo: “E’ uno sporco lavoro, ma qualcuno lo deve pur
fare”.
Non è pensabile un mondo senza poliziotti, senza vigili del fuoco, o
senza case perché fare la professione del
muratore non è a rischio nullo.
Ma nella rozzezza di quella frase di saggezza popolare brilla un concetto di
notevole valore, che al giorno d’oggi viene definito più finemente come
analisi rischio-beneficio.
A fronte di una qualsiasi attività che comporti rischi professionali e un
impatto ambientale, e quindi potenziali rischi per la vita e la salute delle
persone, ci sono dei benefici, che sono in prima analisi economici.
I rischi vanno minimizzati il più possibile, e nessuno come i tecnici del ramo,
(qualsiasi esso sia)
sa come limitarli, ma un minimo di rischio c’è sempre.
A fronte di questo rischio ci sono dei benefici economici.
Per comprendere appieno questo concetto bisogna porsi una domanda, spesso
aborrita, sfuggita, ma terribilmente reale.
Quanto costa una vita umana?
(Può sembrare orribile, ma è la domanda su cui si basano le assicurazioni.)
Un sano istinto di realismo mi porta a dire che, purtroppo, costa molto poco, e
in modo variabile con la persona.
Un grasso cittadino occidentale può costare qualche miliardo, un bambino
nigeriano qualche milione, forse meno.
Milioni di persone potrebbero vivere in condizioni migliori se avessero di che
nutrirsi o se disponessero dell’assistenza sanitaria più elementare.
Si potrebbe dire che, con poche migliaia di lire di antibiotici o di cibo si
potrebbero salvare delle vite, o, nei paesi occidentali, si potrebbero
migliorare le condizioni di vita di molte persone.
In definitiva, l’analisi delle scelte tra rischi e benefici, in tutti i casi
di cui parlano gli ecologisti, andrebbe fatta seriamente, considerando che,
fatti salvi dei criteri di sicurezza sul lavoro e di impatto ambientale, la
mancata realizzazione di attività economiche per una ricerca isterica di una
sicurezza ambientale oltre ogni ragionevolezza porta a danni economici non
necessari, o a mancati guadagni, e questi, alla fine, si traducono in minori
risorse.
Il problema è che in realtà, da qualsiasi parte si guardi il problema, i
soldi, le risorse economiche, sono quelle che ci mantengono in vita.
Purtroppo capita spesso che decisioni politiche in campo ambientale vengano
prese anche sotto la pressione di considerazioni non tecniche, ma ecologiste e
demagogiche, senza avere una chiara percezione né delle dimensioni reali dei
benefici derivanti da certe decisioni, né dei costi che esse prevedono.
Due esempi. Il protocollo di Kyoto e il blocco del nucleare in Italia.
Il primo, che decide una riduzione di qualche punto percentuale delle emissioni
di anidride carbonica di molti paesi industrializzati, per far fronte
all’effetto serra.
Il problema è che l’anidride carbonica prodotta dall’uomo è meno del 3% di
quella in circolo naturalmente (emessa dagli oceani ecc..) e di questa meno di
un quinto è prodotto dagli stati che hanno aderito al protocollo di Kyoto.
L’effetto sul bilancio di anidride carbonica è ridicolo, e applicarlo costerà
parecchie decine di migliaia di miliardi.
Più o meno la stessa cifra che è costata all’Italia
l’uscita dal nucleare dopo il 1987.
Sui motivi reali di questa scelta si potrebbero scrivere parecchi libri,
ma penso che basti ricordare che tutti i paesi europei hanno una certa
percentuale di energia elettrica nucleare e la loro popolazione non sembra
soffrine particolarmente.
Si parla di decine di migliaia di miliardi; questo è quanto ci è costato
uscire dal nucleare e questo è quanto costerà applicare il protocollo di Kyoto.
Con una cifra simile si è calcolato che si potrebbero risolvere gran parte dei
problemi di approvvigionamento idrico di molte popolazioni, e (scusate il
populismo dell’argomento) si sarebbero probabilmente potuti mantenere tutti i
bambini dei Ruanda fino alla maggiore età.
Con questo non voglio mettere alla berlina le cassandre ecologiste di cui sopra,
né tantomeno accusare le associazioni ambientaliste di tentato genocidio, ma
almeno vorrei porre una domanda: siamo sicuri che ne valga la pena?
Michele Ferrarini
tratto da Libertates