La libertà, l'esercito e la legge
Carlo Stagnaro
Non di rado, paesi come la Svizzera e gli Stati Uniti vengono eletti dagli illuminati intellettuali progressisti a simbolo di inciviltà e barbarie. Il motivo? Non certo l’arretratezza economica o culturale, né la mancanza di senso civico. In entrambe le nazioni si guadagna (in media) di più e si vive meglio che altrove. La disoccupazione è relativamente bassa e gli abitanti sono cordiali e ben educati. Dov’è, allora, la “pecca” capace di oscurare tutto ciò?
La risposta è facile facile, pronta su un piatto d’argento e ancora fumante. Il problema è che nei cantoni elvetici, come negli stati americani, i cittadini possono senza troppa difficoltà entrare in possesso di un’arma da fuoco. Gli individui, secondo i pensatori con la “r” moscia, sono irresponsabili: non ci si può dunque fidare di loro. E’ evidente che, sotto tali premesse, l’ultima cosa da fare è lasciare che essi accedano liberamente a quelli che, in fin dei conti, sono potenziali strumenti di morte.
Queste sono gocce di verità, distillate alle chiare fresche e dolci fonti dell’ideologia. Non sono sottoposte a discussione o critica. Se l’evidenza le mette in crisi, fa nulla: significa che il mondo gira per il verso sbagliato.
Mentre i difensori del diritto a detenere e portare armi si fanno scudo di valide considerazioni morali e di eloquenti numeri e statistiche, i loro avversari percorrono ben altra strada. La loro via è quella della facile retorica (“le armi uccidono”) oppure dell’aggressione politica. Si colloca in quest’ottica la conferenza programmata dall’ONU per il prossimo luglio in quel di New York. All’ordine del giorno, la messa al bando delle armi leggere e l’introduzione di gravi restrizioni al loro commercio.
Ciò nonostante, i criminali imperversano sempre più, anche e soprattutto dove di armi ce ne sono francamente pochine. La risposta che giunge dalle candide voci dei progressisti “peace & love” è semplice: più forze dell’ordine, più leggi, più severità. Questo, peraltro, concede pure lo spazio per una strizzatina d’occhio alla destra “law & order”, che non esita a rispondere, per lo meno laddove, come in Italia, è assente una solida tradizione di conservatorismo.
Anche negli Stati Uniti, tuttavia, le cose non vanno meglio: in questo senso, la parentesi democratica di Bill Clinton è stata un momento cruciale nell’attribuzione di una serie di competenze al governo federale. L’ex presidente americano ha anche spianato la strada a un vizio che si sta rapidamente e progressivamente diffondendo in tutto il mondo. Un vizio gravido di rischi e di conseguenze: la militarizzazione dell’ordine pubblico, ovvero la deliberata confusione tra i cittadini di un paese (a cui è garantita la presunzione di innocenza) e i nemici stranieri. Di più: la sovrapposizione tra la lotta al crimine e la guerra vera e propria.
Il campo di sperimentazione nell’escogitare nuove tecniche di distruzione (letterale) della criminalità è la guerra alla droga. Molte persone potrebbero desiderare, in astratto, una lotta al traffico di stupefacenti: ma non certo una guerra senza quartiere né regole ai pusher.
Intendiamoci: la sconfitta del crimine è cosa buona a giusta, a patto però che essa non implichi la morte delle libertà civili. In tal caso, la lotta ai comuni malfattori va sostituita dallo scontro, ben più importante, contro quanti si sentono autorizzati a privare gli individui dei loro diritti fondamentali allo scopo di proteggerli da minacce sostanzialmente minori. In pratica, quello che accade è che le forze di polizia – dietro ordine ed esortazione dei politici – pur di impedire, poniamo, un furto, si sentono autorizzate a bombardarne l’autore… colpendo e devastando l’intero quartiere.
Negli Stati Uniti vige fin dal lontano 1878 una legge, nota come Posse Comitatus Act. Essa afferma che “chiunque, tranne nei casi e sotto le circostanze espressamente autorizzate dalla Costituzione o da una legge del Congresso, utilizzi deliberatamente una parte dell’Esercito o dell’Aeronautica o un posse comitatus [un gruppo di uomini armati che aiuta lo sceriffo] o simili per far eseguire le leggi sarà multato secondo quanto disposto o imprigionato per non oltre due anni, o entrambi”. Tale norma costituisce, insomma, un potente freno al desiderio dei politici e dei funzionari di polizia più spregiudicati di instaurare una sorta di “regime marziale” mascherato.
Essa, infatti, nega la possibilità di porre in atto strategie o tattiche militari, o di impiegare mezzi o tecniche tipiche dei conflitti bellici, per ragioni di ordine pubblico. Il senso della disposizione è chiaro, e, pur risalendo a oltre un secolo fa, è quanto mai attuale. Giustamente scrive Paul Chevigny, professore di legge alla New York University: “gli eserciti sono organizzati e addestrati ad uccidere un nemico, generalmente abbastanza ben definito, e non a far rispettare la legge a una popolazione a cui essi stessi appartengono, in situazioni in cui devono fare accurate considerazioni legali e sociali su quale sia il comportamento richiesto… [i] risultati [della retorica della “guerra al crimine”] distorcono e viziano le relazioni della polizia coi cittadini. La polizia percepisce se stessa come un esercito di occupazione, e il pubblico giunge a pensare lo stesso. La polizia ha perso il legame col pubblico che è il più importante vantaggio dell’essere una polizia locale, e il suo lavoro diventa progressivamente più difficile, mentre essa diventano più impopolari”. Quello bellico e quello civile, insomma, sono due mondi diversi, che non si intersecano in nessun punto. In altre parole, ciò che i saggi legislatori americani del 1878 avevano ben compreso è che l’ordine pubblico e la difesa militare sono ambiti distinti e non intercambiabili.
Non per niente, nella sentenza sul caso Bissonette v. Haig la corte ha affermato che “il primato civile è alla base del nostro sistema di governo. L’uso delle forze armate per colpire i civili può esporre alla minaccia di un dominio militare e alla sospensione delle libertà costituzionali. Su una scala minore, la garanzia della legge attraverso metodi militari mette la tutela dei vitali diritti garantiti dal Quarto e Quinto Emendamento nelle mani di persone che non sono state addestrate a rispettare quegli stessi diritti. Questo può anche danneggiare l’esercizio di diritti fondamentali, come i diritti alla libertà di parola e al voto, e creare quell’atmosfera di paura e ostilità tipica dei territori occupati da forze nemiche”.
In realtà, le forze di polizia hanno un modo per “aggirare” la legge: affittando l’equipaggiamento o le maestranze dall’esercito. Questo, però, ha un costo tutt’altro che basso, il quale funge da potente disincentivo. Una più grande e grave scappatoia è costituita invece dalla guerra alla droga: quando l’indagine in corso ha a che fare con gli stupefacenti, i militari sono tenuti a fornire gratuitamente la propria assistenza ai tutori dell’ordine. E’ del tutto evidente che tale cavillo spingerà i commissari di polizia un po’ megalomani a “inventarsi” accuse di droga per ottenere sostegno dall’esercito. (Questo è esattamente ciò che è accaduto nel 1993 a Waco, coi tragici risultati che sono stati poi riportati dalle cronache dell’epoca).
La militarizzazione dell’ordine pubblico costituisce una grave minaccia alla libertà, perché sovrappone deliberatamente due ambiti che, come si è detto, sono e vanno mantenuti separati. In caso contrario, si crea nei cittadini la sensazione – non del tutto errata – di essere dei sudditi. Non solo: la capacità del governo di esercitare violenze ingiustificate sul popolo crescono esponenzialmente, essendo venuta a cadere la barriera legislativa che tratteneva le mani dello Stato dal premere il grilletto della tirannide.
La dichiarazione di una vera e propria “guerra” al crimine (che può anche, in prospettiva, essere crimine politico o ideologico…), in realtà, è la risposta socialista al disagio dei cittadini. Essi vengono privati, con le armi, della possibilità di difendersi, e la loro tranquillità viene affidata a un malevolo e violento patrigno. Il popolo è come un bambino il cui padre si dia da fare come un matto per impedire che i “cattivi” lo privino della pagnotta. Ma a quale prezzo? Quel padre picchia il proprio figlio e non di rado abusa di lui, essendo così un rimedio di gran lunga peggiore del male.
La militarizzazione dell’ordine pubblico, dunque, è un’offesa all’esistenza stessa di una carta costituzionale e alla dignità degli individui. Essa non può portare a nulla di buono. E’ allora indispensabile che tutti i paesi (o almeno quelli civili) approvino ferree limitazione all’impiego dell’esercito nella lotta alla criminalità. D’altra parte, i cittadini devono veder riconosciuto il proprio ruolo di primi e supremi garanti dei loro stessi diritti: anche attraverso la libertà di armarsi. Difficilmente, però, norme di questo genere verranno istituite: le puttane della politica non si mettono volentieri la cintura di castità.
(Tratto da Gazzetta Ticinese Illustrata del 4 maggio 2001)