Liberi
di contrattare
di
Carlo Lottieri
Uno
dei tratti essenziali dello statalismo pervasivo contemporaneo è da riconoscere
nella fitta regolamentazione con cui i poteri pubblici si sostituiscono agli
individui in tante scelte della loro vita. Le discussioni in merito al
proibizionismo in materia di droga o sulla libertà di istruzione (sul diritto
di scegliere un’istruzione privata, rifiutando quella statale) sono solo
alcuni esempi di un più generale contrasto che oppone i difensori del diritto
dei singoli a decidere liberamente in questione essenziali e coloro che, in
ragione di una radicata attitudine autoritaria, intendono invece mantenere la
società civile sotto il controllo di rigidi apparati e ristretti gruppi di
potere.
Ma
se il vero contrasto è quello che contrappone i difensori dello status quo e
coloro che auspicano il riconoscimento della libertà di mercato e per questo
motivo avversano la regolamentazione dei rapporti di lavoro (per legge o
contratto nazionale), il teatrino dei mass-media ci trasmette ogni giorno
un’altra rappresentazione.
Nel
dibattito europeo su tali temi, infatti, nel corso di questi anni è stato
costantemente enfatizzato il falso contrasto tra una posizione apertamente statalista, quella di chi difende l’introduzione di un tetto di 35
a settimana, ed una che si autodefinisce liberale
solo perché propone che ogni decisione venga affidata alla contrattazione tra
le parti sociali. Il guaio è che – in molti casi - con l’espressione «parti
sociali» non si intende indicare i singoli imprenditori e lavoratori, ma
piuttosto ci si riferisce alle loro organizzazioni di categoria.
Molti
di coloro che si battono contro una limitazione per legge della settimana
lavorativa, allora, sono quindi schierati a difesa della collettivizzazione
forzata dei diritti degli imprenditori (espropriati dalla federazioni padronali)
e dei diritti dei lavoratori (espropriati dai sindacati dei dipendenti). Il
risultato di tale pasticcio è che quello che viene chiamato “contratto di
lavoro” assomiglia maggiormente all’araba
fenice del contrattualismo di Rousseau o Rawls che non agli effettivi
contratti privati che gli uomini
liberi stipulano tra loro quando comprano automobili, costituiscono società ed
associazioni, affittano case, versano denaro in banca o sottoscrivono mutui per
l’acquisto dell’abitazione.
Il
dibattito politico e giornalistico di questi tempi oppone allora due statalismi:
quello partitocratico-parlamentare di
chi ritiene che i diritti contrattuali dei singoli possano essere espropriati
dai politici e quello corporativo di
chi invece afferma che i sindacati abbiano il diritto di sostituirsi agli
individui nella definizione e nella stipula degli accordi in materia di lavoro.
Dietro alle diverse tesi in tema di flessibilità, quindi, c’è soprattutto il
contrasto tra una società di mercato basata sull’inviolabilità dei diritti
individuali e tra vari sistemi illiberali (solo apparentemente diversi), del
tutto estranei alla civiltà di mercato e a quelle logiche competitive e
concorrenziali che ne rappresentano un tratto fondamentale.
Non
c’è alcun bisogno di essere marxisti, d’altra parte, per condividere
l’opinione di Marx ed Engels sul fatto che la nascita del capitalismo implica
la vittoria del sistema di produzione elaborato dagli uomini liberi
su quello che invece si basa sui rapporti che i marxisti chiamano feudali,
in cui il lavoratore non controlla la propria forza lavoro e non è quindi
libero di venderla ad altri. Se nella teoria marxista «tutta la storia è una
storia di lotte fra le classi, fra le classi sfruttate e sfruttatrici, dominate
e dominatrici» (Manifesto del partito
comunista), questo significa che perfino i marxisti coerenti e consapevoli
dovrebbero battersi per la fine dell’attuale regime – che loro definirebbero
neo-feudale – e per la liberazione di chi oggi è vittima della nuova
classe parassitaria descritta da Milovan Gilas.
Se
in Europa vi fossero ancora marxisti degni di questo nome essi dovrebbero
riconoscere l’esistenza di un conflitto di natura pre-capitalistica tra la
classe dei regolamentatori e quella dei regolamentati,
dei dominatori e dei dominati.
In
realtà, nell’epoca contemporanea esiste un ampio consenso in merito alla
teoria hobbesiana secondo cui l’ordine può derivare solo dall’autorità; ed
è da qui che proviene un’accesa avversione ad ogni ipotesi di flessibilità e
soprattutto all’idea stessa della libertà contrattuale. A giudizio di tanti,
per di più, non è possibile che coloro
che hanno molto e coloro che hanno
poco (o addirittura quasi nulla) siano lasciati liberi di stipulare accordi.
La tesi che vorrebbe impossibile e illegittimo ogni patto tra individui di
differente condizione è basata su argomenti fragilissimi che pure, però,
continuano a dominare il dibattito.
Già
alcuni decenni fa il grande giurista libertario Bruno Leoni, docente
all’università di Pavia, aveva messo l’accento sul fatto che in un
eventuale braccio di ferro contrattuale che vedesse confrontarsi – entro un vero
mercato – l’opposta minaccia di uno sciopero
da parte del lavoratore e quello di una serrata
da parte dell’imprenditore, nulla dovrebbe indurci a pensare che «il datore
di lavoro si trovi sempre in condizioni di vantaggio nei confronti del
lavoratore». Mostrando come sia ragionevole ritenere che un imprenditore valuti
l’utilità delle alternative non già sulla base della differenza tra la sua
condizione e quella dei propri lavoratori, ma tra quella in cui egli si trova ora
e quella in cui potrebbe trovarsi dopo,
Leoni rileva che non è sufficiente «per indurre l’imprenditore ad effettuare
la serrata della sua azienda la considerazione che egli potrà sopravvivere più
a lungo dei suoi dipendenti: l’imprenditore sa che se la sospensione si
prolunga non solo egli incorrerà come suol dirsi in lucri cessanti, ma subirà
danni emergenti».
Leoni
evidenzia un elemento essenziale di questa relazione tra il lavoratore e il
datore di lavoro, e cioè la soggettività
dei punti di vista e - più in generale - il fatto che se può essere quanto
mai preoccupante per un operaio non guadagnare una sola lira per un tutto mese,
nulla obbliga a credere che la prospettiva di fermare la produzione non sia
analogamente o perfino più drammatica agli occhi dell’imprenditore. Il quale,
con molta probabilità, non dovrà ridurre la propria alimentazione personale o
quella della famiglia, ma sarà quasi sicuramente costretto a rinunciare a
taluni progetti, a ridimensionare certe strategie, a perdere una parte della
competitività.
Se
in molti dibattiti sulla flessibilità
e sul mercato del lavoro
la questione decisiva è da rinvenire nel riconoscimento dei diritti individuali
e dell’inviolabilità della libertà contrattuale dei singoli, è ugualmente
vero che il liberalismo contemporaneo ha mostrato che anche in un’analisi
fattuale sugli effetti della regolamentazione nessuno degli argomenti statalisti
regge ad una riflessione serena.
È
sotto gli occhi di tutti, in effetti, che è nei sistemi più rispettosi
dell’individuo e della proprietà privata che i posti di lavoro si
moltiplicano e le opportunità individuali migliorano. È pur vero che numerosi
sindacalisti vorrebbero farci credere che la progressiva riduzione degli orari
lavorativi a cui abbiamo assistito nel corso degli ultimi due secoli, ad
esempio, sarebbe il risultato dell’azione delle corporazioni, ma è molto
facile obiettare come tutto ciò sia soprattutto da attribuire alla generale
crescita economica e alla posizione contrattuale più forte in cui si trovano
ora i lavoratori.
Il
mondo produttivo, per fortuna, sta cambiando: grazie alla globalizzazione dei
mercati e alla telematica sta mutando anche il contesto generale in cui le
imprese si collocano. In un mercato internazionale che permette ad ognuno di noi
di acquistare beni e servizi provenienti dai paesi più lontani, proposte come
quella del tetto delle 35 ore hanno tutti i tratti di un residuato d’altri
tempi. Anche in tale ambito, come in tanti altri, saranno quindi la concorrenza
internazionale e il dinamismo dei paesi più aperti al mercato a favorire il
declino di tali politiche paternalistiche, irresponsabili ed illiberali.