Invasione extraeuropea: quale futuro per il vecchio continente?

di  Davide Gianetti

Recentemente il Presidente dell’Unione Europea, Romano Prodi, ha proposto che la politica in materia di flussi migratori sia decisa dalla Commissione Europea la quale dovrebbe successivamente emanare una direttiva - ovviamente vincolante per i Quindici - volta all’applicazione di norme e regole decise e stabilite, allo stato attuale, dai singoli parlamenti nazionali.

L’obiettivo è quello di accentrare a Bruxelles le diverse legislazioni vigenti uniformandole e fondendole in un unico corpus giuridico che sancisca le stesse disposizioni, dalla Finlandia alla Grecia, dalla Svezia alla Spagna, dall’Irlanda all’Italia.

Sono altresì evidenti le conseguenze derivanti dalla realizzazione di un simile progetto:i parlamenti nazionali dei singoli Stati - rappresentanti della volontà generale - verrebbero esautorati in una delle materie, quella sull’immigrazione, più importanti e delicate per una nazione, dovendo contemporaneamente assoggettarsi a disposizioni inevitabilmente contraddittorie.

Paesi come l’Italia e la Spagna, infatti, sono sottoposti ad una continua pressione migratoria - anche in virtù della loro posizione geografica e in presenza, specie per l’Italia, di una legislazione che favorisce il fenomeno - che necessita di risposte e norme nettamente differenti da quelle adottate in Finlandia o in Svezia dove la presenza extraeuropea è meno invasiva e incontrollata.

D’altra parte occorre interrogarsi, al di là delle diatribe politiche contingenti, sul futuro che attende l’Europa in relazione ai profondi mutamenti cui essa è oggetto laddove l’identità occidentale è sul punto di soccombere e di implodere, vittima dei propri rimorsi e dei propri sensi di colpa - peraltro indotti - più che di una oggettiva invasione allogena.

E’ quindi indispensabile analizzare il nuovo modello socio-culturale e ideologico che va sotto il nome di società multirazziale.

La società multirazziale si fonda su di un assunto di base secondo cui l’integrazione e la fusione etno - culturale di interi popoli produrrebbe e coinciderebbe con una società migliore, più giusta, più solidale e pacifica perché appunto globale. I fenomeni migratori, allora, rappresenterebbero il mezzo più efficace e veloce per edificare questo nuovo assetto socio-culturale attraverso il meticciato generalizzato e sistematico da un lato e la soppressione delle identità e delle differenze etniche dei popoli che concorrono a questa mescolanza dall’altro.

La Storia, tuttavia, ha già ampiamente dimostrato come, in duemila e più anni di vicende umane, non sia mai esistita una società multirazziale sorta pacificamente o spontaneamente.

Viceversa, la società multirazziale si è sempre imposta con la forza e la violenza (Yugoslavia ed ex Unione Sovietica docent) seguendo un percorso statuale di tipo repressivo, autoritario, dittatoriale e in alcuni casi totalitario.

Gli effetti prodotti dall’ideologia multirazziale, inoltre, sono esattamente opposti a quelli teorizzati dagli ingegneri sociali deputati all’esperimento in questione.

In luogo della mescolanza e dell’integrazione, infatti, la società multirazziale spinge i vari popoli a rafforzare il proprio naturale ed inestirpabile sentimento di identità-percepito come minacciato-attraverso la suddivisione del territorio in aree etnicamente omogenee.

L’esempio delle città americane è emblematico in questo senso.Si viene a creare così una sorta di regime di apartheid o di segregazione - del tutto spontaneo e volontario - che esaspera le conflittualità intrinseche e latenti determinando uno stato di tensione interetnica permanente e destabilizzante.

La società multirazziale è quindi una società multirazzista, avendo come unico effetto quello di creare una fitta rete di ghetti etnicamente omogenei e impermeabili l’uno all’altro.

Su questo punto Andrè Bèjin osserva “che la trasformazione dei Paesi a demografia declinante e frontiere porose si accompagna, quasi ineluttabilmente, a quello che chiamerei uno spostamento delle frontiere verso l’interno.Diventate eccessivamente permeabili a popolazioni alquanto lontane per razza, cultura o interessi geostrategici, le frontiere si ricreano all’interno del territorio d’immigrazione.Queste nuove frontiere sono abitudinarie ma poco permeabili e isolano delle enclaves diventate quasi extraterritoriali”.

Scienziati ed antropologi, dal canto loro, hanno da tempo spiegato come la società multirazziale costituisca più un’utopia ingenua quanto pericolosa che non un approdo ineluttabile degli avvenimenti storici.

Come ha efficacemente analizzato l’antropologa Ida Magli, “le culture diverse non si integrano: tra loro si verificano più o meno lunghi periodi di scontri dopo i quali la situazione si assesta. Chi è più forte domina, chi è più debole si sottomette. Questo è ciò che avviene nella realtà”.

Tesi, questa, confermata anche dall’etologo Irenaus Eibl-Eibesfeldt, la massima autorità nel campo dopo la scomparsa di Konrad Lorenz. Afferma Eibesfeldt: “Che cosa rappresenta l’immigrazione per le popolazioni residenti e per gli immigrati stessi? Se gli immigrati desiderano integrarsi in una cultura affine la conflittualità potenziale è minima.Se però alla diversità culturale e religiosa sommiamo quella dei caratteri fisico-antropologici, l’integrazione può diventare difficile.Queste comunità finiscono allora per autoemarginarsi dalla popolazione che le ospita la quale, a sua volta, le emargina. L’immigrazione, in casi del genere, potrà essere causa di tensioni e conflitti, poiché sarà vista come una vera e propria invasione. Un’etnia che conceda l’immigrazione a un’altra non disponibile ad integrarsi e presente con un gran numero di individui, cede la propria terra e in più limita le proprie possibilità di successo riproduttivo, perché il carico umano che un territorio può sostenere non è illimitato. L’Europa è in sostanza già sovrappopolata e il problema è perciò particolarmente grave”.

Ogni civiltà, d’altro canto, al fine di perpetuarsi e di darsi un senso all’interno dell’ordine delle cose si è sempre definita attorno ad una concezione identitaria che possiamo definire come etnocentrismo.

Lungi dall’essere una malattia infantile delle giovani e aggressive popolazioni dell’Africa o dell’Asia, l’etnocentrismo costituisce il fondamento imprescindibile di ogni popolo, anche il più evoluto e progredito.

Quella ebraico, con la sua raffinatissima e millenaria cultura, è un evidente esempio di popolazione fortemente etnocentrica. Lo stesso dicasi per quello armena, per gli antichi Greci e via di seguito.

La visione etnocentrica della propria comunità non deve essere confusa per una manifestazione di razzismo(che è cosa diversa, sia sotto l’aspetto della teoria sia sotto quello della prassi).

“In effetti-chiarisce Bèjin - in quasi tutti i casi coloro che vengono infamati con l’epiteto di razzisti sono persone che non considerano un sacro dovere disprezzare i propri antenati, la propria lingua e la propria cultura. Queste persone sono fiere della superiorità della propria comunità etnica senza per questo giudicarla superiore alle altre da ogni punto di vista, accettano le differenze, preferiscono a priori il loro prossimo ai membri di altri gruppi etnici (e trovano normale che costoro agiscano allo stesso modo) senza per questo mettere al bando l’intesa e la cooperazione con questi ultimi.Questi pretesi razzisti non sono altro che etnocentristi e condividono questa caratteristica con la maggior parte delle comunità umane che non si sono suicidate”.

Se la società multirazziale è un artificio politico-ideologico che i popoli e le culture rifiutano, perché essa appare come un approdo sociale ineluttabile e come il sistema più probabile per il ventunesimo secolo?

E’ indispensabile sottolineare, al riguardo, come un tale modello sia innervato ideologicamente dal cosiddetto “panmarxismo utopico”.

“Esso-afferma ancora Bèjin - consiste nell’affermare che l’umanità è inesorabilmente votata al meticciato generalizzato e alla mescolanza delle culture, che questo ampio rimescolamento genetico-culturale condurrà non soltanto alla pace universale ma anche alla moltiplicazione delle differenze (le microdistinzioni dei narcisisti meticciati dell’Eden multirazziale - le differenze buone - si sostituiscono, a loro avviso, ai particolarismi comunitari delle nazioni, delle etnie o delle razze - le differenze cattive)”.

Fondatori e propugnatori di questo “panmarxismo utopico” risultano essere i post-marxisti(che vedono nel Terzo Mondo il nuovo Prometeo capace di emancipare l’umanità dalle catene dei bisogni e della diseguaglianza attraverso l’annientamento di un Occidente razzista, opulento, imperialista, colpevole di aver combattuto e rigettato l’opzione comunista), una parte delle gerarchie ecclesiastiche, settori imprenditoriali e industriali e - più in generale - tutta quell’area, indistinta e nebulosa, affetta da terzomondismo parossistico ed animata da odio etnocida nei confronti dell’ “uomo bianco” quale ricettacolo di tutti i mali- passati, presenti e futuri.

Quali sono gli strumenti operativi per ottenere la società multirazziale?

“Reclamare-secondo Pierre Andrè Taguieff - la mescolanza, erigere il meticciato a metodo di salvezza in quanto ibridazione delle popolazioni etnicamente diverse e nel contempo scambio interculturale destinato a sfociare in una nuova cultura.Numerose enunciazioni illustrano tale elogio del meticciato, presentato come la nuova via regale dell’ideale di assimilazione attraverso la radicale abolizione dei tratti che distinguono i gruppi etno-culturali, dal momento che queste caratteristiche differenziali vengono implicitamente considerate come altrettante stigmate destinate ad essere cancellate”.

La soppressione delle differenze etniche rappresenta il passo successivo verso il trionfo dell’ideologia multirazziale.

Per far questo “è necessario - osserva Taguieff- de-differenziare quella parte di umanità che presenta differenze irriducibili al criterio di complementarietà non polemica.Il pacifismo antirazzista disvela in tal modo il suo sogno normativo di un universo umano unificato, omogeneizzato, o di un’umanità assolutamente riconciliata con sé stessa.Ma occorre un’operazione chirurgica preventiva:amputare il corpo dell’Umanità delle membra sospette di provocare e alimentare il conflitto. Mondare, ripulire, risanare attraverso la distruzione dei germi di contrapposizione:l’ideale pacifista rivela il suo motore tanatologico nascosto, la sua fondamentale diffidenza nei confronti del mondo della vita, popolato di impure contraddizioni, costituito da inquietanti contrapposizioni”.

“L’universalismo panmarxista - aggiunge Bèjin - non elude forse il bisogno, inscritto nella nostra natura da una lunga evoluzione, di sostenere il proprio senso di identità fondandolo sulle rassomiglianze con altri uomini della stessa razza e della stessa cultura e mantendendolo tramite l’opposizione ad altri gruppi? ”.

L’induzione del senso di colpa-in ossequio al delirio antirazzista - è parimenti determinante per elidere definitivamente qualsiasi retaggio etnocentrico dall’animo dell’uomo bianco europeo.

A proposito dell’infamia che graverebbe sulla civiltà europea Pascal Bruckner osserva: “Noi europei siamo stati allevati nell’odio di noi stessi, nella certezza che vi fosse, in seno al nostro mondo, un male congenito che reclamava vendetta senza speranza di remissione. Questo male può riassumersi in due parole:il colonialismo e l’imperialismo. Schiacciati sotto il peso di questi ricordi infamanti, siamo stati indotti a considerare la nostra civiltà come la peggiore, mentre i nostri padri si sono creduti i migliori.Nascere dopo la seconda guerra mondiale significava acquisire la certezza di appartenere alla feccia dell’umanità, a un ambiente esecrabile che, da secoli, in nome di una pretesa spirituale, opprime la quasi totalità del globo”.

Se Guillaume Faye, da parte sua, parla di un “lavoro di espiazione” in merito alla deriva terzomondista, Bèjin mette in rilievo la discriminazione che avvantaggia i non europei portando l’opnione pubblica a ritenere che “gli immigrati abbiano il diritto di impiantarsi nei Paesi di accoglienza(pur conservando, se possibile, le radici originarie), mentre i popoli autoctoni normalmente radicati vengono invitati a dimenticare la loro storia e la loro cultura, a spogliarsi della loro identità.Questo principio, sradicati perché io possa radicarmi, porta a fare dei luoghi di origine degli spazi neutralizzati nei quali si possa solo circolare, senza impiantarvisi”.

Quale futuro attende l’Europa?Per rispondere ad un quesito così impegnativo e angosciante occorre partire dalla consapevolezza che le differenze (etniche, religiose, culturali, linguistiche…)rappresentano una ricchezza da salvaguardare e mantenere laddove la natura umana non è emendabile da una buona e sana dose di conflittualità.

Eibl-Eibesfeldt: “Spesso viene avanzato l’argomento in base al quale solo una civiltà mondiale unitaria, con la totale mescolanza di tutte le razze, potrebbe risolvere le tensioni e i conflitti tra i gruppi.Questo non mi pare né necessario né auspicabile.La pacificazione dell’umanità non dovrebbe passare sui cadaveri delle civiltà e delle razze”.

“Se auspichiamo-chiosa Bèjin - che i nostri discendenti non debbano disprezzarci per la nostra cecità o viltà dobbiamo arricchirci delle nostre differenze, ma fra europei.Perché l’Europa sarà in grado di arricchire dei propri tratti distintivi gli altri continenti e di stabilire con essi relazioni franche-fondate sul rispetto delle rispettive peculiarità-solo rimanendo etnicamente e geopoliticamente europea.La costruzione dell’Europa dei popoli è un compito esaltante ma arduo. L’ossessione antirazzista non può che complicarlo inutilmente e pericolosamente”.

DAVIDE GIANETTI

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