Christoph Blocher
L'Europa, la Svizzera, Hayek e Mises

DI ALBERTO MINGARDI

HERRLIBERG (ZH) - Se ne è accorto anche il Wall Street Journal: la Svizzera “può essere un modello per tutta l’Europa”, scrive Keith Marsden commentando la valanga di “no” (76,8 % per cento, e scusate se è poco) che ha frantumato la possibilità di un immediato ingresso nell’Ue. Per Christoph Blocher è un bel momento: nonostante il WSJ si guardi bene dal menzionarlo, è lui il vincitore morale del referendum di domenica scorsa.
Il leader dell’Unione democratica di centro sorride, si sbraccia, sprizza felicità da tutti i pori. Di mestiere non ha mai fatto il politico, né si considera tale:  viene da una famiglia numerosa, modesta, di un calvinismo adamantino. Da giovane pensa di fare l’agricoltore, ma una spiccata vivacità intellettuale lo porta a scegliere la facoltà di legge. A Blocher studiare piace, ma per mantenersi agli studi deve arrotondare con qualche lavoretto: così, quasi per gioco, comincia a dare lezioni ai figli del boss della “EMS”, un’importante industria chimica zurighese. Mr. Oswald, il padre, a poco a poco lo nota e comincia ad apprezzarne l’intelligenza: basta con le ripetizioni, ti andrebbe di lavorare con me? Lui all’ inizio nicchia, ma poi si lascia prendere; e, di lì a pochi anni, grazie all’aiuto di alcuni amici imprenditori, rileva la traballante “EMS” per farne una delle più floride imprese della Confederazione.
Sessant’anni ben portati, un carisma travolgente, sposato con un’insegnante di matematica, quattro figli, la sua è una famiglia normale, e all’immagine di uomo perfettamente normale Blocher ci tiene parecchio. Lo snobismo non gli si addice: sembra fatto apposta per smentire tutti i cliché sui “nuovi ricchi” e sui “politici di destra” in un colpo solo. Per quest’intervista, ci ha dato appuntamento negli uffici della “EMS”, venti minuti in macchina da Zurigo, a un tiro di schioppo da casa sua. 
Ci presenta un suo compagno di studi, e mio amico, Robert Nef - intellettuale di spicco del liberalismo elvetico. Prendiamo posto in una sala imponente ma sobria: la vista sul lago di Zurigo è spettacolare, e altrettanto lo sono i quadri alla pareti. Blocher ha una spiccata predilezione per l’Ottocento svizzero in generale, e una certa simpatia per l’impressionismo in particolare. Gli piacciono soggetti di vita quotidiana, il lavoro nei campi, tinte pastello, rappresentazioni che diano una sensazione di calore, che ti mettano a tuo agio. Un po’ come fa lui.

Nell’immaginario collettivo, i disamorati della Comunità Europea, i cosiddetti euroscettici, vengono visti come compagni di strada dei nemici giurati della globalizzazione. Popolo di Seattle e parenti stretti, per intenderci. Lei viene dal mondo del lavoro, è un imprenditore di successo, comprende i meccanismi del mercato. Come mai, allora, vuole tenere la Confederazione fuori dall’Ue?
“Per prima cosa, ci tengo a precisare che la Svizzera è un paese molto aperto, con un ruolo importante nell’economia globalizzata. Importante da tutti i punti di vista: culturale, politico, finanziario. Ma allo stesso tempo, ci teniamo a poter decidere, da soli, delle nostre sorti. Se entrassimo nell’Unione Europea, perderemmo la nostra specificità, la nostra identità, la possibilità di scegliere autonomamente ciò che è meglio per noi.
Non ci si può dimenticare che oggi la Svizzera è un’eccezione rispetto al resto del continente: siamo l’unico Paese a democrazia diretta, qui il popolo può dire la sua senza bisogno di intermediari.
Se tutte le decisioni spettassero a governo e parlamento, la Confederazione sarebbe confluita nell’Ue già da parecchi anni. Allo stesso modo, avremmo tasse molto più alte, se l’aumento del carico fiscale non fosse stato prontamente frenato con i referendum”.

Tocqueville parlava di un “eccezionalismo” americano, esiste anche un “eccezionalismo” svizzero”?
“Certo: la nostra storia, la nostra Costituzione, la nostra tradizione è diversa da quella del resto d’Europa. E non mi pare abbia prodotto cattivi risultati - non siamo certo poveri, e siamo più liberi che altrove. E’ questa la cosa più importante: che i cittadini abbiano a disposizione la più ampia libertà possibile e istituzioni che consentano loro di raggiungere la prosperità economica”.

Da buon patriota, lei non nasconde l’orgoglio per il proprio Paese. Però non s’arrabbi se le danno dell’isolazionista...
“Le parlerò da imprenditore. Le mie imprese non fanno affari solo in Svizzera: esportiamo circa il 90% di quanto produciamo (il 45% nei paesi della Ue) - vede, io non sono un isolazionista, né potrei esserlo. Credo che, restando indipendente, la Confederazione possa diventare un modello di sviluppo per il resto del pianeta”.

L’Udc combatte praticamente da sola questa battaglia, mentre il resto della classe politica sembra premere affinché il Paese si incammini sempre più sulla strada dell’eurostatalismo. Si potrebbe dire - ed è un complimento - che siete indietro di cinquant’anni rispetto al percorso preso dagli altri Paesi europei...
“Abbiamo un segreto: il sistema di governo, che fa capo al direttorio. Tutti i partiti sono assieme governo e opposizione; si delineano di volta in volta maggioranze e minoranze, e questo da la possibilità di fare scelte più basate sui principi di quanto accade altrove. Avere tante, diverse forze politiche è importante - in un contesto che tuteli il pluralismo, che è il sale della vita, e dia la possibilità al popolo di scegliere di volta in volta chi ha ragione e chi ha torto.
Molti giornalisti svizzeri la pensano diversamente, scrivono che per il governo diventa spesso difficile “fare qualcosa”. Da parte mia credo sia giusto così: si deve fare in modo che lo Stato possa ampliare la propria sfera di influenza se e solo se c’è un’ampio accordo fra la gente e i suoi rappresentanti”.

Da parte dell’Unione Europea, non c’è stata qualche pressione, qualche giochetto di potere, per convincervi a farne parte?
“Per il momento, no. La Svizzera è un buon mercato per l’Europa, siamo un ottimo “compratore” di prodotti - il secondo dopo gli Stati Uniti. E saremo un eccellente “cliente” per le imprese europee finché saremo in grado di pagare bene, dunque hanno tutto l’interesse a tenerci fuori dall’Ue”, Blocher sorride. “L’unico settore in cui qualche ricatto, indubbiamente, c’è stato è quello bancario. Ma credo che, su tutte le questioni inerenti il segreto bancario, si troverà presto un accordo”.

L’anno prossimo sarà la volta di un altro referendum: in ballo c’è la partecipazione della Svizzera alle missioni di peace-keeping ed, eventualmente, addirittura il suo ingresso nella Nato. Qual è la sua posizione ?
“Voteremo per il no: la nostra è una tradizione di neutralità, noi siamo un piccolo Paese neu-tra-le”, Blocher lo scandisce forte e chiaro, s’infervora, ai modi distaccati dell’uomo di mondo subentra la passione totale dell’idealista puro. Gore Vidal una volta scrisse che nessuna guerra straniera vale la vita di un americano. Mutatis mutandis, il leader dell’Udc la pensa alla stessa maniera. “Ma questo non vuol dire che non ci sia, da parte nostra, il desiderio di dare una mano ai Paesi in difficoltà. Anzi” precisa “la soluzione migliore mi sembra quella di spedire la Croce Rossa ad aiutare entrambe le parti in conflitto. La Svizzera non ha quei grossi interessi che determinano le decisioni di politica estera degli Stati più grandi e credo che se c’è un ruolo per noi sulla scacchiera della politica internazionale, dev’essere di aiutare le popolazioni colpite dalla guerra, senza essere complici dei guerrafondai di questo o quello Stato. Come abbiamo fatto in Kossovo: sono questi gli unici veri interventi “umanitari”. Non c’è niente di umanitario nello spedire soldati ad ammazzare altre persone”.

Un no assoluto, quindi, alle sirene della Nato...
“E’ una posizione condivisa dalla quasi totalità degli svizzeri. Per una motivazione molto sottile: una volta entrati nella Nato, o nell’Ue, è difficilissimo uscirne. Non è un contratto da cui si può recedere nel caso non ci si trovi più a proprio agio. Il nuovo referendum sarà una battaglia importante per l’Udc, sono sicuro che la vinceremo”.

Lei si definisce un “liberalconservatore”. Cosa vuol dire, esattamente, con quest’etichetta?
“Mi considero un liberale-conservatore, ma con l’accento su quel “liberale”. Le mie opinioni politiche sono quelle di un liberale: la cosa più importante, dal mio punto di vista, è tenere lo Stato al suo posto. Gli individui debbono essere responsabili per se stessi, è necessario che il governo li metta in condizione di vivere la propria libertà, non di dipendere da esso per il loro benessere. E’ importantissimo mantenere a livelli minimi la pressione fiscale, in modo che lo Stato abbia giusto le risorse economiche per fare lo stretto necessario ma non di più.
Per “conservatore” intendo invece il contrario di progressista: i socialisti sostengono che sia, sempre e comunque, necessario cambiare. Io credo che il fatto che le nostre istituzioni abbiano settecento anni non sia un difetto, ma un segnale del loro valore. In tedesco noi distinguiamo  fra i conservatori “dei valori” e quelli “strutturali”: l’Udc è conservatrice da un punto di vista culturale, ma non facciamo della tradizione un feticcio”.

Chiedo a Blocher come ha maturato le sue convinzioni, e Nef s’inserisce prontamente nella conversazione. L’uno e l’altro ricordano gli anni dell’università, quando stavano “dall’altra parte della barricata rispetto ai precursori del Sessantotto”: in quel periodo, il leader dell’Udc entra in contatto per la prima volta con le idee socialiste, e ne rimane disgustato. Tutta la sua vita è stata poi un prendere corpo di quell’istintiva antipatia, una continua conferma delle sue tesi liberiste ad ogni nuovo successo imprenditoriale. S’è fatto da solo, e ne va fiero. Faccio l’intellettuale e gli domando se c’è un libro cui è particolarmente affezionato.

“Da ragazzi leggevamo Ludwig von Mises, Wilhelm Roepke, Friedrich von Hayek: all’università, abbiamo fatto conoscenza con i grandi liberali, scoprendoli per reazione alle ideologie dominanti. Un libro solo? Probabilmente “La via della schiavitù”, di von Hayek. Per me è stata una lettura corroborante: insegna che fascismo e comunismo sono due facce della stessa medaglia, Hayek lo dedica ai “socialisti di tutti i partiti”. Ed è contro i socialisti di tutti i partiti che dobbiamo lottare”.

Già. Proprio costoro, un paio di anni fa, hanno approvato in Svizzera una legge “contro il razzismo”. Che proibisce, ad esempio, ogni forma di revisionismo storico riguardo la Shoa. Il provvedimento fu benedetto anche dal “Neue Zürcher Zeitung”, quotidiano liberale per antonomasia. Ma come può un liberale abbozzare davanti a una simile limitazione della libertà d’espressione?
“Quella legge è stata un errore: posto che il “revisionismo” sull’Olocausto è guazzabuglio di colossali stupidaggini, la Svizzera ha finito per mettere il bavaglio ad alcuni storici, cosa che non si doveva fare. Il razzismo non lo si elimina per decreto: e, di fatto, avremmo semmai tutto l’interesse che si manifestasse pubblicamente. In modo da sapere che c’è, e pensare a come combatterlo. Ridurlo in clandestinità non risolve il problema”.

E’ uno dei comandamenti del “politicamente corretto”...
“Credo che debba esistere una forma di correttezza politica, ma più correttezza che politica: deve esserci fair play in tutte le discussioni fra partiti ed esponenti parlamentari, rispetto gli uni per gli altri. Ma questo non legittima una nuova forma di censura”.

Parliamo d’immigrazione: la accusano di xenofobia, di voler chiudere la Svizzera su se stessa...
Non faccio in tempo a finire la frase che Blocher scoppia a ridere. Poi, attacca: “Guardi, per quel che mi riguarda io li farei entrare tutti. Da liberale, ritengo che la libertà di movimento sia una straordinaria conquista della globalizzazione. Tuttavia, c’è immigrazione ed immigrazione: la legge svizzera è di per sé molto severa, fissa dei tetti ben precisi. Credo che per il momento sia giusto così: non possiamo permetterci che l’immigrazione diventi un costo sociale per i cittadini. Gli immigrati devono essere in grado di badare a se stessi, non gravare sulla società: altrimenti sì che la situazione potrebbe diventare altamente instabile, e anche da noi si riaffaccerebbe il fantasma del razzismo”.
 

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