Vietato fumare

L'isterismo statal-salutista ha individuato un nuovo nemico: il fumatore. Naturalmente per il nostro bene!

 

Le nuove crociate del ministro Girolamo Sirchia, di Alberto Mingardi e Roberta Tatafiore

Nazismo e salutismo, di Alberto Mingardi

Nazismo, padre del politically correct, di Francesco Esposito

Considerazioni sull'antifumo, di Vittorio Messori

I fumatori non sono malati, di Carlo Stagnaro

In galera...per fumo, di Carlo Stagnaro

 

LE NUOVE CROCIATE DEL MINISTRO GEROLAMO SIRCHIA
Pubblicato da "Libero" il 19 Febbraio 2002


Il ministro Sirchia, presunto garante del drastico snellimento del servizio sanitario nazionale, fresco di nomina aveva tranquilizzato gli italiani: "Non finiremo vittime dell’isterismo politically correct". Eppure oggi dal suo dicastero arrivano segnali precisi di manipolazione del senso delle cose attraverso il linguaggio. La crociata antitabacco sta riuscendo tanto bene da aver già cambiato il modo di definire il fumatore: da uno che ha il "vizio" del fumo, espressione che per lo meno evoca un pizzico di libero arbitrio, a uno che è malato di "morbo del tabacco", espressione che lascia presagire la cura coatta. Un decreto già annunciato parla dell’intenzione di curare il morbo della droga, per prima cosa, poi il morbo della grassezza o della magrezza, dell’alcol e del gioco d’azzardo. E’ sempre Sirchia (mica un Agnoletto qualsiasi) ad averci spiegato che i giovani fumatori "sono vittime delle multinazionali della nicotina".

In attesa della chiusura dei McDonald (anche loro fanno capo a una multinazionale) in omaggio a una qualche crociata per il "fegato sano", per intanto sono stati anticipati gli orari di chiusura delle discoteche. "Alle tre di notte verranno chiuse, in tutta Italia", ha avvertito compiaciuto il ministro per i rapporti con il parlamento, Giovanardi, scambiando forse i salottini di Montecitorio con quelli del Gilda. Come se bastasse una legge per abolire la febbre del sabato sera – e come se l’ovvio effetto di un provvedimento simile non fosse di spingere quei ragazzi e ragazze che hanno bisogno di sballo, a correre sul filo, ad infilarsi nel tunnel della clandestinità.

Dal fumo di sigarette alle discoteche, alla droga. La svolta sulla politica della droga voluta dal vicepresidente del consiglio Fini si impernia sulla lotta ai Sert, i presidi pubblici per i tossicodipendenti. Sarà loro vietato di prescrivere metadone, e saranno obbligati a veicolare i pazienti nelle Comunità di recupero. Così la scelta della riabilitazione, che dovrebbe essere un atto volontario e puro, il primo passo verso una redenzione difficile, diventerà una non-scelta, un’imposizione.

E pensare che a fine Settecento, perfino l’idea che lo Stato dovesse mettere a disposizione dei medici il proprio potere, con lo scopo di privare le persone della libertà di assumere determinate sostanze, sarebbe parsa assurda. "Se fosse lo Stato a dovere prescriverci le medicine e la dieta", scrive Thomas Jefferson in una pagina profetica, "il nostro corpo si troverebbe in uno stato non diverso da quello in cui si trova oggi la nostra anima (il riferimento, polemico, è alla liaison dangereuse fra Stato e Chiesa, ndr). Accadeva così, in Francia, quando l’emetico era proibito come farmaco e la patata come prodotto commestibile".

La storia ha preso una piega diversa, e così allo Stato s’è affiancata un’autentica farmacocrazia, che decide cos’è buono e cosa no, cos’è lecito e cosa no. Pharmakos, nell’antica Grecia, era colui che veniva sacrificato come capro espiatorio. Attorno al VI secolo avanti Cristo, la parola cominciò a significare "medicina", "droga", "veleno". Non è una semplice curiosità etimologica - semmai prova come la fame di capri espiatori non si sia certo spenta nel mondo moderno. Solo che anziché sacrificare individui, persone fisiche, si prendono di mira particolari sostanze, e chi ne fa uso.

Dov’è la "scientificità" dello Stato terapeutico quando equipara la marijuana all’eroina, dice si o no al metadone, e invece vende tabacco e alcool a ogni angolo della strada? Dov’è la "scientificità" dello Stato quando chiama malattia l’uso volontario di eroina e decide questo o quel metodo esclusivo di cura?

Semplicemente, la farmacocrazia dominante ha deciso - in modo del tutto arbitrario - che cos’è accettabile e cosa no. Questo processo presuppone un sistema fortemente centralizzato, gerarchizzato, autocratico quasi - che è quello che, speravamo, il nostro governo volesse combattere. "Libertà di cura" significa anche libertà di scegliere quali sostanze ingerire. Certo che alcune sono più pericolose di altre: è più facile suicidarsi con la cocaina che con l’aspirina. Ma è ancora più facile farlo buttandosi sotto un treno – è una ragione sufficiente, questa, per mettere fuorilegge il trasporto su rotaia?

Proibire o legalizzare le droghe non è un problema "medico". E’ una questione etica, è rispondere a una domanda importante: il nostro corpo, la nostra vita, ci appartengono o sono di proprietà dello Stato? Uno non può cavarsela liquidando i drogati come "malati" da sottoporre a un trattamento coatto.

Una postilla. Grazie anche a "Libero", il ministro Sirchia è in prima fila nella lotta alle atrocità commesse contro gli animali. Bene, bravo, bis. C’è, però, un precedente storico inquietante: appena Hitler divenne Fuhrer, fu Hermann Goring ad annunciare la fine delle "insopportabili torture sugli animali da laboratorio" in tutto il territorio del Reich. Negli anni successivi, il nazismo riuscì addirittura ad abolire la vivisezione. Proprio mentre un eterogeneo esercito di "devianti" e "malati" (dai tubercolotici agli omosessuali, dagli handicappati all’ebrei) veniva abbattutto per preservare la salute preziosa della razza, della nazione, della comunità. Non vogliamo tracciare paragoni improponibili, però questo moltiplicarsi di crociate virtuose (contro la droga, il fumo, l’obesità, l’anoressia, le discoteche...) ci ricorda che una volta tanto aveva ragione il vecchio Marx: la storia si ripete in farsa.

Alberto Mingardi e Roberta Tatafiore

NAZISMO E SALUTISMO
Pubblicato da "Libero" il 27 Gennaio 2002 con il titolo: "Il fumo minaccia la salute, la lotta ai fumatori minaccia le nostre libertà", pag. 9


Mica tutti lo sanno, ma la prima grande, maestosa campagna antifumo della storia porta la firma di Adolf Hitler. Lo spiega Robert Proctor in un bel libro tradotto per i tipi di Cortina, in cui avanza una lettura del nazismo come "grande esperimento igienista disegnato allo scopo di realizzare una selettiva utopia sanitaria".Per anni s’è intravisto nell’ideologia la medicina infallibile per curare tutti i mali dell’uomo, e si sono confuse le carte, e quanto ci è costato imparare a non scambiare malattia e dottore. Nel 1934, arringando il Reichstag, Hitler era stato chiaro: "Ho dato l’ordine di bruciare fino alla carne viva le ulcere del nostro avvelenamento interno". Werner Best, il luogotenente di Reinhaurd Heydrich, rincarò la dose spiegando che il compito della polizia era quello di "sradicare tutti i sintomi di malattia e i germi di distruzione che minacciano la salute politica della nazione".Non solo metafore. Le parole del reichgesundheistführer Leonardo Conti lasciano poco spazio all’interpretazione: "nessuno ha il diritto di considerare la salute una materia personale e privata, che può essere accantonata a seconda delle preferenze individuali. La terapia deve essere amministrata negli interessi della razza e della società piuttosto che in quelli dell'individuo malato".

Ora, non ci azzarderemmo nemmeno a tracciare un paragone improbabile, a immaginare Girolamo Sirchia coi baffetti e il braccio teso. Epperò ci resta l’amaro in bocca, la sensazione spiacevole d’esser stati presi in giro. Appena nominato da Berlusconi, Sirchia si affrettò a buttar giù un manifesto della "sua" sanità, e lo declinò orgoglioso in un paio d’interviste. Pugno di ferro con la droga, e guanto di velluto con la nicotina: suonava come un’inversione di tendenza rispetto al suo predecessore Veronesi. Ma gli ultimi exploit del ministro ci hanno ricordato che invertendo l’ordine dei fattori il risultato non cambia.

Mi spiego. Sirchia ha rilanciato, e con imperturbabile violenza, la crociata antifumo lasciata a metà dal governo Amato. E’ una svolta che si è consumata in quel silenzio ovattato con cui si annuncia un golpe bianco. Il provvedimento è entrato in vigore all’albeggiare dell’anno nuovo, in tandem con l’euro, e adesso il ministro propone di estenderlo ai locali privati aperti al pubblico, e all’improvviso i fumatori s’accorgono, mentre soppesano le nuove monetine, di essere diventati dei lebbrosi ipotetici. Paria sospesi fra un presente d’inferno e la tenebrosa attesa della "soluzione finale".

"Braccati dai Nas", ha scritto Gianni Mura su "Repubblica", e un po’ da una cattiva coscienza sapientemente seminata, dalla consapevolezza greve di aver torto, da un mea culpa obbligatorio e definitivo.

Sarà anche vero che ogni sigaretta che ti accendi è un piccolo patto col diavolo, è mendicare un altro mutuo alla banca della vita. Sarà anche vero che fa male, che è un anticipo di agonia, che ogni boccata è truccare le carte al destino.
Ma al diavolo: cosa non lo è? Cosa c’è che non sia uno stare sospesi, barcollando leggeri, uno scivolare lento verso l’oblio? Si chiama vivere, ed è tutto un rischio.

Si dice che ci siano dei rischi diversi da altri. Che alcuni presentano misteriosi "costi sociali", il conto girato alla comunità per le pirlate di un individuo. Ed è quando uno si incaglia su questi argomenti che s’intuisce che il Novecento non è finito, che siamo rimasti gli stessi, che stiamo solo ricamando vestiti nuovi addosso ai nostri maledetti istinti. Dire che i fumatori (pardon, i "malati di nicotina", come li chiama Sirchia in un crescendo politicamente corretto) rappresentano, potenzialmente, un costo sociale, perché alla fine vanno a marcire negli stessi ospedali di chi è vergine alla sigaretta, è un aver già deciso. Un essere sicuri a priori, in partenza, che il mondo si divide in due, e che basta avere i polmoni un po’ più scuri per non varcare le porte dell’Olimpo. I fumatori non sono un "costo" sociale, come non lo sono gli obesi (prossime vittime del ministro), come non lo sono i malati di aids, come non lo sono gli spericolati che si fracassano il cranio, come non lo sono gli omosessuali, e i lussuriosi, e gli automobilisti, e gli psicanalisti junghiani, e i lettori di Topolino. Pagano tutti le tasse, vengono rapinati tutti allo stesso modo. I fumatori, semmai, di più: ci sono fior di imposte indirette appiccicate a un pacchetto di Malboro. Un conto approssimativo lascia intendere che, dal 1 gennaio 2000, i fumatori hanno contribuito per circa 33400 miliardi di lire (traducete voi in euro) al bilancio dello Stato. Il loro letto in corsia se lo sono pagato.
Ma per questo Stato, contrabbandiere e poliziotto, spacciatore e proibizionista assieme, questo Stato che guai agli spot alla nicotina e poi tappezza di pubblicità "Ms" l’aprilia di Macio Melandri, forse non basta. Forse c’è ancora la tentazione di non limitarsi a pigliare gli uomini come sono, questi insopportabili zozzoni, questi egoisti impenitenti. C’è ancora il desiderio nascosto, e nemmeno tanto nascosto, di "bruciare le ulcere della società", di spalancarci un domani virtuoso.
E chissenefrega se basterebbe un briciolo di buon senso, una goccia di libertà, per avere locali per fumatori e locali per "non", e lasciare alla gente il verdetto.

C’è chi sussurra che ormai la legge è fatta, e ci tocca obbedire. No. Le leggi ingiuste non si obbediscono: si combattono. E anche se scavare la trincea costa, se immaginare un gesto di solidarietà paradossale come una spipazzata, un tiro di sigaretta, è forse troppo per uomini senza fantasia, la mia impressione è che "ci tocca". Persino ai non-fumatori professionisti, o fumatori timidi, come chi scrive. Meglio sacrificare i nostri polmoni che la nostra libertà. Ai fumatori incalliti si richiede lo sforzo contrario: coltivare il rispetto, inventarsi un galateo anarchico per sopravvivere a qualsiasi legge.

Alberto Mingardi

 

NAZISMO, PADRE DEL POLITICALLY CORRECT

 

I nazi-corretti. Così tolleranti

Pari opportunità, antiglobalismo, lotta alla discriminazione. Le politiche cosiddette liberal, esaltate dalla nuova ortodossia del politically correct, possono produrre effetti tutt'altro che liberali. Joseph Goebbels (e la Germania "socialmente corretta" di Hitler) docet.

Forse non tutti sanno che il luogo dove il pensiero politically correct ha trovato la sua realizzazione più compiuta è stata la Germania nazista. Qui Adolf Hitler imponeva personalmente quelle leggi da lui stesso definite "socialmente corrette". Come la regolamentazione per la cottura delle aragoste, il suo primo atto dittatoriale dopo la nomina a cancelliere (1933). Sembra che il führer fosse assai turbato dallo stridere delle povere bestiole durante la cottura in acqua bollente. Tanto da far precedere l'imposizione di questa norma di civiltà all'abolizione dei sindacati. Allo stesso modo sappiamo che Heinrich Himmler, responsabile della morte di milioni di persone, considerava la caccia agli uccelli come "puro omicidio". Ed elogiava il medioevo tedesco, quando s'istruivano "processi" ai topi per le loro razzie, dando così ai roditori una possibilità per scamparla. Mentre è nota la politica nazista contro il fumo, proibito in tutti gli uffici del Partito e, nel 1944, durante la fase critica del conflitto, su tutti i mezzi pubblici.

In propaganda, far sapere è spesso più importante che far ignorare. Il vero regista dei piani culturali del Reich è stato Joseph Goebbels, Reich Minister für Volksaufklärung und Propaganda - ministro della propaganda e responsabile delle pubbliche relazioni di Hitler. Goebbels era un ammiratore di Edward L. Bernays, viennese nipote di Sigmund Freud che aveva aperto un ufficio a New York nel 1919. Reputato un pioniere nell'uso della psicologia e delle altre scienze sociali nel marketing e nell'arte delle comunicazioni istituzionali, durante la I Guerra mondiale aveva fatto parte dell'U.S. Committee on Public Information (CPI), l'apparato propagandistico americano creato nel 1917 per pubblicizzare la guerra come atto che avrebbe "salvato il mondo e la democrazia". Nel suo "Propaganda" (Boni & Liveright, New York 1928) e in "Crystallizing public opinion" (Boni & Liveright, New York 1923) scrisse: "Se comprendiamo il meccanismo mentale e le motivazioni dei gruppi è possibile controllare e irregimentare le masse secondo la nostra volontà e senza che queste se ne accorgano". Bernays chiamò questo scientifico controllo delle opinioni "ingegneria del consenso". I suoi due volumi si trovavano sul comodino di Goebbels che li riteneva "i migliori che io abbia mai visto" e furono le principali auctoritas della campagna d'odio contro gli ebrei, come egli stesso rivelò a Karl von Weigand, corrispondente estero dei giornali del gruppo Hearst, nel 1933.

L'ingegneria del consenso

Goebbels era specializzato nel controllo del linguaggio. Effettivamente il nazismo si è diffuso tra la popolazione innanzitutto attraverso le singole parole, le locuzioni, lo stile delle frasi imposte alla masse. Le forme idiomatiche coniate dai nazisti e diffuse da tutti i giornali del regime servivano come strumenti di propaganda politica e di camouflage.

Controllando come una certa realtà veniva detta, i nazisti in qualche modo potevano cambiare, se non proprio l'evento di cui si parlava, senz'altro il modo di pensare e valutare quell'evento (Cfr. Vicyor Klemperer, LTI. La lingua del Terzo Reich. Taccuino di un filologo). Ad esempio: il termine "fanatico" sempre accostato al termine "eroico", tanto da indurre a credere che la condizione per essere eroi fosse il fanatismo. O l'uso dell'aggettivo "ebraico" e "giudaico" abbinato a termini che identificavano il nemico o il male: "l'ideologia ebraico-marxista"; "la barbarie giudaico-bolscevica"; "il sistema giudaico-capitalista"; "il nemico giudaico-americano". O ancora gli esseri umani sui quali si svolgevano sperimentazioni scientifiche, chiamati, come scrisse Goebbels in una circolare, "individualità prive di vigore vitale". Mentre i critici del "nuovo ordine mondiale" proclamato da Goebbels erano "le forze oscure dell'anarchia e dell'odio".

Le radici filosofiche del "multiculturalismo"

Il termine "politicamente corretto" è stato utilizzato la prima volta nei circoli intellettuali del Partito Comunista durante gli anni '30 e '40. Ma filosoficamente le sue premesse affondano nelle tesi di Nietzsche. Nel 1936 Joseph Goebbels istituì un comitato di accademici per mettere a punto l'edizione integrale delle opere del filosofo tedesco. Ne faceva parte Martin Heidegger che individuò nell'impegno per distruggere le ultime tracce dell'"umanesimo metafisico" della cultura occidentale il trait d'union tra Nietzsche e gli orientamenti del Reich. Con la conseguenza immediata che ogni idea di Dio, di moralità, di bene e di male, diventava falsa e priva di senso. Occorreva quella umwertung aller Werte (transvalutazione di tutti i valori) per cui ogni uomo si costruisce i propri valori, il suo personale concetto di bene e male. Più tardi la Scuola di Francoforte, di fede marxista, si spingerà ancora oltre. Fondata per volontà del facoltoso Felix Weil, col contributo di pensatori come György Lukacs - già commissario della cultura durante la breve occupazione bolscevica del potere in Ungheria, nel 1919, poi ufficiale del Comintern a Mosca - voleva eliminare la tradizione giudaico-cristiana dalla cultura occidentale a favore di una nuova "cultura del pessimismo", che vedeva l'uomo contemporaneo alienato dal progresso capitalista e allontanato dal suo passato originario, quando si poteva confrontare con gli oggetti della realtà fisica e assegnare ad essi nomi corrispondenti alla loro essenza (da cui l'importanza di ri-nominare le cose). Il risultato è che oggi non esiste verità, non esiste diritto naturale, la morale del bene e del male è falsa e borghese, la famiglia un'istituzione "autoritaria" che merita di essere attaccata (curiosamente, anche Goebbels aveva riconosciuto alle donne non sposate contributi statali per avere figli fuori dal legame matrimoniale).

Difendere la famiglia? Un crimine di pensiero

Da queste premesse si è imposto quell'atteggiamento relativista che sostiene l'impossibilità di assegnare giudizi di valore (sarebbero discriminatori) agli altrui comportamenti. Mentre non esistono risposte "giuste", solo risposte differenti, e tutte le diversità vanno tollerate. Almeno a parole. Perché, con malcelata disonestà intellettuale, si dice che non esistono verità definitive, ma insieme si afferma un codice di domande e risposte "politically correct" che considera chiunque conserva una certa considerazione per la famiglia o la ragione "indottrinato da una cultura oppressiva". Infine, chi davvero ha un'idea diversa, non può esprimerla. Una graziosa e molto progressivamente aggiornata forma di censura e di controllo del pensiero.

di Francesco Esposito

Pubblicato da "Tempi", Numero 28 - 12 Luglio 2001

 

CONSIDERAZIONI SULL'ANTIFUMO

' Ieri , a Milano, ho visto qualcosa che supera i limiti del grottesco: il solito, fiammante cartello NO SMOKING esposto con soddisfazione manifesta (i farisei sono sempre soddisfatti di sè... ) esposto, dunque, in una tabaccheria! L'ossessione per l'untore, il delirio moralistico, la paranoia salutistica , la credula acquiescenza alla propaganda dei padroni del momento che si spingono sino al masochismo del piccolo tabaccaio di periferia. Tabaccaio che, per definizione, campa vendendo tabacco ma che annuncia pubblicamente che nel suo negozietto non si fuma, perchè lui è moderno, lui è politicamente corretto e guarda la tv, dove si parla così male dei fumatori... lui è andato con un charter, in comitiva, negli States ed è contento di fare come gli americani...

Sono sempre più convinto che questa crociata antitabagista sia il nodo di vipere dove si raggrumano tutte le contraddizioni, le ipocrisie, le ferocie "etiche" del nostro tempo. Occorre che qualcuno continui ad accendere sigarette ad oltranza; e che le accenda con la consapevolezza che è un atto di doverosa resistenza, che in questo gesto c'è un impegno di libertà e di verità per tutti, anche per gli sventurati , gli sprovveduti che credono di "pensare con la loro testa" e sono invece poveri allievi dei santoni alla Veronesi e alla Sirchia. E che, da provinciali alla periferia dell'Impero , scimiottano servili le mode dei Padroni.

La lotta all'incubo dello Stato Etico, di nera e di rossa memoria, l'opposizione ( così evangelica, tra l'altro ) all'ipocrisia dei benpensanti, delle "persone per bene", passa oggi anche dal consumo di quell'erba sacra che fu il tabacco. Sacra, oggi, alla difesa delle libertà di vivere e di morire come ci pare o come ci indica la nostra coscienza e non il politico "zelante e buono", il burocrate " che pensa a noi" o il medico che del camice bianco ha fatto una nuova, oppressiva, dogmatica stola sacerdotale.

E che Dio benedica - per il suo realismo cristiano che, purtroppo, sembra oggi avere abbandonato troppi clericali - il beato Escrivà de Balaguer che, avendo scoperto che dei tre primi sacerdoti dell'Opus Dei nessuno fumava, ordinò che almeno uno cominciasse a comprarsi , e a consumare, le sigarette. Perchè, osservò il futuro beato , su tre persone "normali" almeno una fuma. Chi obbedì fu colui che diverrà il suo primo successore, Alvaro del Portillo: aveva cominciato per obbedienza ma proseguì con gusto e convinzione ad armeggiare con accendini e posacenere sin quasi alla morte: naturalmente, in età tarda, malgrado il pacchetto giornaliero. O, forse, proprio grazie a questo ...'

Vittorio Missori - 21 Febbraio  

I fumatori non sono malati

A volte mi capita, quando sono stanco e voglio rilassarmi, di recarmi insieme agli amici in un locale del paese in cui vivo. Sento i tavoli di quel bar come se fossero miei. Conosco le loro crepe, mi piace appoggiarmi alle sedie, adoro le pareti e l'arredamento. Si tratta, in verità, di un piccolo bar che, probabilmente, in ossequio alle norme sull'igiene dovrebbe essere chiuso seduta stante. Il bagno è minuscolo e - perdìo! - non c'è l'antibagno. Dubito che in cucina vengano rispettate tutte le manfrine che la legge impone (eppure le bruschette sono le migliori del circondario). Infine, tutti i clienti abituali fumano. Anzi, il fumo fa parte dell'ambiente, lo riscalda, lo colora, gli dà un tono. Perfino il proprietario vive con una sigaretta sparata, con grande maestria, nell'angolo più
remoto della bocca, laddove le labbra si stringono e si fondono con il resto della faccia. Non provate a entrare e chiedere di spegnere le sigarette o a obiettare che il fumo vi dà fastidio. Apprendereste che, se i vostri polmoni sono davvero così delicati, quella-è-la-porta e non ve l'ha detto certo il medico di venire qui. Anzi, andate nel locale di fianco e non rompete più le scatole. (In realtà, l'invito sarebbe assai più colorito e magari condito da
qualche immancabile parola in lingua genovese).
Ho appreso qualche giorno fa, dal telegiornale, che i medici "tendono" a non considerare più il fumo come un vizio (urka!) né come una droga (ohibò!). I tempi cambiano, e ora le bionde sono una malattia. Sinceramente la cosa mi ha turbato. Ho pensato al "mio" bar e ho cercato di immaginarlo senza neppure un fumatore, senza posaceneri sui tavoli, senza l'attuale padrone. Non ci riesco, se non vedendo un ambiente triste, desolato, vuoto. Oppure, immagino i clienti abituali me compreso in abito da carcerati, a strisce bianche e nere, con la palla al piede. Certi malati, si sa, guariscono in un solo modo. E la tattica è sempre quella del colpirne uno per educarne
cento.Lo avevano compreso benissimo quei galantuomini che, nell'ex Unione Sovietica, tentarono di riprodurre il paradiso terrestre. Gli era sfuggito solo che, se il Signore ha donato all'uomo il libero arbitrio, non è certo perché desideri vederlo confiscato. Né San Pietro, immagino, attende alle porte del Paradiso (l'unico, che non è su questa terra) una fila di uomini perfettini e già in tutina regolamentare da angelo. Perché, in realtà, quella tutina è una camicia di forza, e il paradiso di Lenin (e Veronesi e Sirchia e vattelapesca) è un ospedale psichiatrico.
I medici, beninteso, svolgono benissimo il loro lavoro. Che è quello di curare gli infermi. Il problema è quando i medici, fattisi politici, perseguono la propria "lotta di classe", cioè difendono "i propri interessi". Il loro interesse è avere malati da curare e la nostra è l'epoca in cui le malattie possono essere debellate con una semplicità mai vista. Molti dei malori che un tempo affliggevano i poveri cristi oggi vengono sconfitti in modo semplicissimo, senza neppure la necessità dell'intervento di un dottore. Mandi la mamma o la sorella, la moglie o la figlia in farmacia a comprare l'aspirina e voilà!, il problema è scomparso. Kaputt. Il fatto però che le cose stiano così, non autorizza gli uomini in camice bianco a "inventare" nuove malattie, o a chiamare malattie quelli che fino
a ieri erano vizi e appena ieri l'altro semplici abitudini. Fumare non è né malattia né vizio, invero. Nessuno accende una sigaretta perché costretto e, se qualcuno vi dice che non riesce a smettere, non credetegli. Non
permettetegli di prendervi in giro. Chi non smette in realtà non vuole smettere, perché il sapore e l'odore del fumo gli garbano. Io vorrei che Sirchia, Veronesi e compagnia bella scendessero un giorno dalla loro maledetta torre d'avorio. Vorrei che capissero che Dio, se c'è, è uno solo: e non viene venerato nelle cattedrali della medicina, ma in quelle ben più solide edificate col sudore e con la fatica, spontanea e lieta, dei fedeli. Vorrei che si rendessero conto che il mondo non si riassume in una formula matematica o chimica, e che nessuno ha dato loro il permesso di risolvere l'equazione nel modo a loro più congeniale - alle spalle di tutti gli altri, cioè. Vorrei, infine, che mettessero piede, sconfiggendo la puzza che si trascinano sotto il naso (e che non è quella del fumo), nel bar del mio paese, che guardassero in faccia il proprietario e i clienti, uno a uno. Vorrei che leggessero le loro espressioni e vedessero che nessuno di loro vive da schiavo del tabacco. La realtà è una dura maestra, capace di sconfiggere ogni sogno riformatore, compresi quelli che sgorgano da studi e ricerche non si sa quanto accurati
(o tendenziosi). Chi abbandona la realtà per chiudersi nella torre e da lì pretende di dettare le regole dell'universo mondo è un pazzo che ha abbandonato la via della ragione.

Carlo Stagnaro

In galera...per fumo

4 Marzo 2002 - Omicidio colposo. E' questa la terribile sentenza emessa dal Gup Saresella contro due dirigenti della banca Paribas. Una dipendente di quella banca morì in una crisi respiratoria, attribuita dall'accusa al
fumo passivo. La madre, secondo cui la morte sarebbe invece sopravvenuta a causa dell'allergia verso qualcosa che la figlia aveva mangiato nella pausa pranzo, ha definito "vergognoso" l'atteggiamento del genero che, scrive Il Corriere della Sera, "malgrado fosse al corrente delle effettive ragioni del decesso della moglie, ha deciso di avviare la causa per chiedere un risarcimento". La donna non si è costituita parte civile. "Siamo davanti a una decisione incredibile in quanto non vi è alcun nesso causale tra il fumo e il decesso", ha sostenuto l'avvocato difensore. Soddisfatti, come è naturale, il pubblico ministero e il legale di parte civile.

E' la prima volta in Italia e, credo, nel mondo intero che il fumo passivo viene ritenuto in un'aula di tribunale la causa certa della morte di una persona. Si tratta di un precedente clamoroso e preoccupante. Può darsi, beninteso, che secondo le astruse leggi italiane il verdetto sia corretto. Resta il fatto che non lo è nel tribunale, assai più severo, del buonsenso e della scienza. Che insegnano che nessuno studio al mondo è mai riuscito a dimostrare un nesso di causalità tra il fumo passivo e qualunque genere di malattia (compresi asma e tumori). Ed è grave che i risultati scientifici vengano scritti nel chiasso di un'aula di tribunale anziché nel clima agrodolce di un istituto di ricerca.

Vi è, in verità, una ragione empirica molto semplice per cui nessuno scienziato ha mai potuto dimostrare quello che il Gup Saresella ha invece deciso. Quando si tenta un'indagine statistica sulle eventuali conseguenze del fumo passivo, ci si trova a operare con numeri talmente piccoli e margini di incertezza talmente ampi da impedire di giungere a qualunque conclusione affidabile. E il conto è presto fatto, prendendo per buoni i risultati spesso sbandierati dagli attivisti antifumo a sostegno delle proprie tesi.

 Nel suo articolo "Analyzing the daily risk of life" pubblicato nel 1979 su Technology Review, Richard Wilson stima che vivere per due mesi con un fumatore produca un incremento di rischio di morte (a causa di tumore al polmone, attacco cardiaco, ecc.) di uno su un milione. In altre parole, colui che viva (o lavori, come nel caso della donna in questione) per due mesi con un fumatore ha una probabilità su un milione in più di morire di tumore, attacco cardiaco o altro. Questo è il "costo" del fumo passivo. 

Non vi è ragione di ritenere che tale processo non sia lineare. Se, cioè, vivere due mesi con un fumatore provoca un aumento di rischio di uno su un milione, quattro mesi di vita comune produrranno un aumento di due su un milione e così via. Naturalmente, stiamo parlando di una variazione di rischio "piccola": anzi, così piccola da non poter essere praticamente misurata. Per arrivare a risultati apprezzabili, dovremmo raggiungere
cifre molto più alte. Diciamone una comunque bassa: cerchiamo di capire quanto tempo sia necessario vivere con un fumatore per osservare un aumento di rischio, nell'arco dell'intera vita, dell'uno percento.

 L'equazione è presto impostata: 0,01 : 0,000001 = x : 2[mesi]. Trovando l' incognita, si ottiene 20.000 mesi, cioè 1.666 anni e mezzo. Il caso è chiuso. Checché ne pensi il Gup Saresella, i numeri assolvono i dirigenti
di banca e tutti gli altri povericristi che sono costretti a fare la vita grama a causa di una psicosi degna del mago Otelma (che, almeno, ha la dignità di vestirsi da mago Otelma e di non indossare né la toga né il camice bianco).

Stando così le cose, è chiaro che il fumo passivo non è un problema scientifico, ma un problema politico. Non vi è alcuna ragione di pensare che esso "causi" la morte di qualcuno: nel senso che non è possibile dimostrare che il decesso di taluno sia stato determinato dall'esposizione a fumo passivo. Quindi, dietro la generosa battaglia "per il nostro bene" si cela una più prosaica guerra fra bande, che vede protagonisti coloro a cui, per qualche ragione, il fumo non piace. Un conto, infatti, è dire che il fumo va vietato poiché "uccide"; altra cosa è chiederne il bando in quanto puzza, non piace o urta le delicate nari dell'intellettuale "impegnato" di turno.

 Emblematica, in questo senso, è l'intervista concessa da Monica Guerritore al settimanale Panorama. Alla domanda se fosse favorevole a un divieto generalizzato di fumare, l'attrice (che è una fumatrice accanita) risponde in maniera affermativa. Essa sostiene di non riuscire a smettere, ma "Se c'è un divieto, io non oso romperlo: sul mio personale desiderio prevale il rispetto per gli altri". Parole straordinarie, che in quattro e quattr'otto distruggono l'intera tradizione politica occidentale e la teoria dei diritti naturali. Invero, il rispetto per gli altri non nasce né muore con i divieti. E chi auspichi il proibizionismo per riuscire a smettere grazie alla costrizione è come chi desideri il ritiro dal commercio della cioccolata per paura dei brufoli. Strana idea del rispetto quella di chi,
in nome di un obiettivo eminentemente personale e privato (appendere la sigaretta al chiodo), sarebbe disposto a negare a tutti gli altri un piacere di cui oggi possono godere. In verità, gli argomenti degli antifumo sono talmente deboli da dover essere affidati alle aule di tribunale e alle attrici che fanno capolino (in un provocante reggiseno nero) dalla copertina di una rivista. Più che alla guerra santa contro il tabacco, però, certe iniziative fanno onore alla saggezza popolare, secondo cui bellezza per intelligenza è uguale a costante.

Carlo Stagnaro

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