La maggioranza ulivista, dopo quattro anni di immobilismo, messa alle strette dal riformismo del “governatore” della Lombardia Formigoni, ha approvato una modifica della Costituzione italiana meglio nota come “legge sul federalismo”.
Di
federalista però ha solo il nome, e in questo rispecchia fedelmente la
tradizione culturale di chi l’ha votata: ex e post comunisti, democristiani di
scuola dossettiana, verdi cioè rossi, e i vari cespuglietti tipici del
sottobosco del belpaese sempre pronti ad ogni sorta di compromesso pur di
sopravvivere. Sono gli stessi che, qualche anno fa, cavalcavano l’asinello di
Prodi, ma oggi non è più di moda, oggi amano definirsi “liberal”,
all’americana, molto snob, molto Veltroni. L’operazione di marketing serve a
nascondere il loro passato, quando guardavano con ammirazione quei grandi paesi
federalisti tipo l’URSS e la Yugoslavia: oggi, infatti, idolatrano la nuova
URSS, l’Unione Europea, apparentemente buonista e politicamente corretta, ma
in realtà autoritaria con chi non ne applaude l’azione (vedi le sanzioni
all’Austria).
Questi
signori sono noti per prendere in giro la gente, tanto, sanno che il popolo dei
produttori, la vacca da mungere, è troppo impegnato a lavorare per star dietro
alle loro malefatte, mentre la classe parassitaria, il loro serbatoio di voti,
sarà sempre dalla loro parte.
L’ultimo
inganno in ordine di tempo è lessicale: hanno partorito un asino e lo
“vendono” come cavallo. Fateci caso: i politici ulivisti, quando parlano
della loro riforma, usano aggettivare la parola “federalismo” con i termini
“solidale”, “cooperativo”, “sociale”. E’ una fregatura. Il
federalismo non ha bisogno di specificazioni, è una forma di organizzazione
dell’ordinamento statuale con caratteristiche ben precise, senza le quali non
esiste, è altra cosa.
Basta
chiacchere, entriamo nel merito della “riforma”.
Il
nuovo art. 114 della Costituzione, oltre a Regioni, Province e Comuni, annovera
nuovi enti istituzionali quali le Città metropolitane. Per chi, come il
sottoscritto, si è più volte pronunciato per l’abolizione delle Province, si
tratta dell’ennesimo tentativo di creare nuovi “posti di lavoro” pubblici
moltiplicando il numero delle istituzioni. Traduzione: più burocrazia, più
lentezza, più guai per il cittadino, come se non fosse già sufficientemente
penalizzato dall’esistenza di una lunga trafila di organi autoritativi da
contattare per qualsiasi evenienza, tipo permessi, autorizzazioni, ecc. ecc.
Ma si sa, i grigi funzionari dell’Ulivo hanno fatto carriera in quelle
oasi dell’ozio che sono le pubbliche amministrazioni
Al
comma 3 il centralismo romano trionfa con la beatificazione della capitale: un
monito per i padani più oltranzisti.
Il
nucleo fondamentale della modifica costituzionale sta, però, nella riscrittura
dell’art. 117. Al secondo comma
si enunciano le materie di esclusiva competenza statale: passi la politica
estera, la moneta, la difesa, ma che cosa ci fanno competenze come immigrazione,
giurisdizione e ordine pubblico, istruzione, previdenza sociale e tutela
ambientale, tutte saldamente in mano allo stato centrale? Per non parlare poi
della infinita elencazione di attribuzioni concorrenti: lavoro, salute,
alimentazione, casse di risparmio ecc. ecc.
Per
chi non lo sapesse “competenza concorrente” significa dare la possibilità
di legiferare sulle stesse materie
sia allo stato che alle regioni, ma, di fatto, la libertà di queste ultime è
gravemente compromessa in quanto, quasi sempre, lo stato centrale, con la
promulgazione di dettagliate leggi-quadro, ne imbriglia l’azione.
Alla
fine, una battuta di spirito: “spetta alle Regioni la potestà legislativa in
riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello
Stato”. Riepiloghiamo: una
valanga di competenze a carico dello stato centrale, il resto, cioè niente,
alle regioni.
Troppo
arrogante come presa per i fondelli, e allora ecco che l’art. 116 riformulato,
dopo aver riconfermato il carattere puramente eccezionale delle regioni a
statuto speciale, al terzo comma prevede, per le regioni che ne facciano
richiesta, una volgare forma di devolution all’amatriciana
limitatamente alle materie di legislazione concorrente, e, per quanto riguarda
quelle di legislazione esclusiva, giudici di pace, istruzione e ambiente.
Sulle
questioni inerenti l’immigrazione, l’ordine pubblico e i beni culturali
l’art. 118 ci informa che il “sovrano” è disposto a scendere dal trono e
a concedere ai suoi sudditi l’audizione.
Non
pago, il governo, all’art. 120, si è arrogato il diritto di sostituirsi alle
regioni e agli altri organismi locali qualora questi si dimostrassero riottosi
nel conformarsi agli ordini della “corte” o a quelle del nuovo Leviatano
europeo (qui, Formigoni docet).
Non
è tutto. Sappiamo che i governi, non avendo risorse proprie, sono soliti
mettere le mani nelle tasche e nei portafogli dei cittadini, ma quella che
all’inizio veniva spacciata per giustizia sociale, ormai ha assunto forme
patologiche, è pura cleptomania istituzionalizzata.
All’art.
119, infatti, il legislatore ha dato la possibilità a Comuni, Province, Città
metropolitane e Regioni di istituire tributi propri, ma solo in aggiunta alla
tassazione a livello nazionale. Questo per loro è il “federalismo fiscale”,
ovvero “più tasse per tutti” parafrasando Berlusconi.
Insomma: i soldi rimangono ai banditi di Roma, e i “governatori” si
arrangino: hanno voluto la bicicletta e adesso…E’ una trovata punitiva nei
confronti di chi da anni reclama più autonomia, appositamente studiata per
mettere in cattiva luce gli enti locali. Hanno diminuito le loro
compartecipazioni al gettito dei tributi erariali in modo da lasciarli senza
fondi, poi hanno concesso loro il potere di imporre nuovi tributi per
finanziarsi, scaricando così sulle periferie l’inevitabile impopolarità
dovuta al nuovo salasso fiscale.
Dunque
il disegno politico è chiaro: disinnescare la bomba federalista che rischia di
erodere il potere arroccato nei ministeri romani. La sopravvivenza politica è
ormai l’unico imperativo “morale” di uomini corrotti, senza una attività
produttiva, abituati a vivere sulle spalle di altri.
Il
federalismo, quello vero, rappresenta, per loro, la fine degli sporchi giochetti
nei corridoi di palazzo; al contrario, per milioni di onesti cittadini,
rappresenta una occasione per riscattarsi da un fisco rapace e da leggi
soffocanti, aliene alla cultura del fare.
Il
federalismo senza aggettivi, sul modello svizzero, si basa sul principio di
concorrenza tra ordinamenti giuridici. Anche in Svizzera negli ultimi anni è
cresciuto il potere dello stato centrale, ma senza raggiungere livelli di vera e
propria oppressione, idem per la tassazione. Subito, all’art. 3 della
Costituzione svizzera (anche la collocazione è importante, non all’art. 117)
si sancisce la sovranità del Cantone, il quale esercita tutti i diritti che non
sono devoluti all’Autorità federale. E’ il Cantone a determinare le
aliquote fiscali (art. 42-quinquies), a organizzare la giustizia e a gestire la
sanità. Dove esiste una competenza concorrente, il centro è cauto nei suoi
interventi, preferendo l’azione della periferia.
In
pratica il politico è controllabile. Il suo raggio d’azione è limitato,
dispone direttamente delle entrate fiscali. La dispersione del potere in una
pluralità di entità statuali autonome crea una salutare competizione nella
fornitura dei servizi pubblici. Il cittadino può rendersi conto, spostandosi
nel cantone vicino, delle diverse modalità di impiego del denaro, delle
differenti soluzioni legislative, delle più favorevoli politiche per la
sicurezza. Questa situazione innesca un circolo virtuoso: nel momento in cui non
riesce ad imporre anche nel proprio cantone le migliori politiche del vicino, può
permettersi di andarsene: vota con i piedi! Immediatamente le istituzioni, per
evitare una fuga di capitali, si adegueranno alla soluzione scelta da chi ha
preferito traslocare.
In
Italia, invece, anche dopo la riforma appena varata non cambierà nulla: sarà
il governo nazionale a decidere per tutti gli Italiani, e alle Regioni
lasceranno le briciole: qualche timbro per il permesso di soggiorno agli
immigrati, la carriera del giudice di pace, ecc. Lo stato apparato, non avendo
politiche differenziate al proprio interno, rimarrà come sempre inefficiente,
e, agli Italiani che vivono del proprio lavoro, non resta che emigrare.
Insomma,
il federalismo della banda ulivista è roba “taroccata”: è una volgare e
rozza forma di regionalismo spacciata per federalismo.
Il
federalismo non si costruisce dall’alto, ma, per essere tale, deve essere il
frutto di relazioni paritarie tra differenti comunità che agiscono in base ad
una cooperazione contrattata e condizionata. Il concetto di federalismo cozza
con il principio di gerarchia su cui, invece, si fonda il regionalismo
centralista di Roma, dove il potere è octroyèe,
ovvero concesso dall’alto ad enti periferici in posizione subordinata.
Una
costituzione federale non poggia su un’autorità sovrana, ma sovrano è il
contratto. In quanto tale è soggetta a negoziazione continua, è flessibile,
emendabile su iniziativa popolare. Le relazioni interne tra stati federati
avvengono in linea orizzontale, non verticale.
Niente
a che vedere con l’Italia, né prima, né dopo la finta riforma.
Il
regionalismo autoritario del belpaese è solo lo squallido tentativo di una
classe politica alla fine del proprio mandato per aggirare il bisogno crescente
di pluralismo e libertà reclamato a gran voce dai cittadini.
(tratto da "La Gazzetta Ticinese") - Aprile 2001