L'EUROPA UNITA ULTIMA UTOPIA
di RALF DAHRENDORF
Giorni fa ho preso parte a un dibattito sull'Europa con Daniel
Cohn-Bendit, davanti a un pubblico internazionale di giovani professionisti, al
ministero degli Esteri di Berlino. Nel suo intervento iniziale, il mio
interlocutore ha dimostrato un crescente entusiasmo. "Pensate", ha
detto "che ogni bambino nato oggi in Europa comprerà il suo primo gelato
pagandolo in euro!". E ha proseguito: "Se nel 1945 qualcuno avesse
detto ai miei genitori (ebrei) che un loro figlio sarebbe stato un giorno ospite
d'onore al ministero degli Esteri tedesco, lo avrebbero preso per pazzo". E
ancora: "Nonostante tutte le loro pecche, Kohl e Mitterrand sono i maggiori
statisti del nostro tempo, poiché hanno saputo trasformare l'unificazione
tedesca in un trionfo per l'Europa".
Da qualche tempo ho l'impressione che l'Europa - anzi, esattamente l'EUropa -
sia diventata l'ultima utopia per gli esponenti della sinistra. Se qualcuno fa
loro presente (come ho fatto discutendo con Daniel Cohn-Bendit a Berlino) che
l'EUropa non è poi così importante e gloriosa come sembrano credere, si
affrettano a ribattere con qualche bella frase hegeliana del tipo: "D'
accordo, l'Europa di oggi ha i suoi punti deboli, ma sono aspetti temporanei, e
stiamo lavorando per superarli". Si sgombra il campo da ogni critica
assicurando che anche se tutto non è "ancora" perfetto, lo diventerà
col tempo.
Personalmente, non sono un euroscettico - e men che meno nel senso britannico
del termine. Ma la mia posizione sull'integrazione europea è di segno del tutto
diverso da quella di Daniel Cohn-Bendit (così come dalle tesi di Jrgen Habermas,
pubblicate da "Repubblica", in favore di una Costituzione europea come
espressione dell'identità dell'Europa).
Osservo che l'Unione europea gestisce poco più dell'1,1% del prodotto interno
lordo dei suoi stati membri, i quali dal canto loro ne amministrano una quota
pari o superiore al 40%. Rammento le strane politiche che assorbono gran parte
del bilancio, e in particolare la politica agricola comune. Ma insisto
soprattutto sulla democrazia.
Non dimentichiamolo: la stessa costruzione della Comunità economica europea non
è avvenuta per via democratica. Né il Consiglio dei ministri, né la
Commissione, e neppure l'Assemblea originaria meritano questo aggettivo. È vero
che oggi il Parlamento europeo è eletto democraticamente e ha un certo potere
di codecisione; ma neppure i suoi più accesi sostenitori si azzarderebbero ad
affermare che questo basti a creare una democrazia europea.
Di fatto, più si guarda all'Unione europea e più si rimane colpiti dalla
natura tecnica della sua costruzione, che per vari importanti aspetti assomiglia
più all'Unione postale internazionale che agli Stati Uniti d'America. È
l'amministrazione di un'unione doganale, con un'enorme sovrastruttura di
istituzioni – per non parlare del linguaggio visionario e magniloquente che
l'accompagna. Questo è forse l'aspetto peggiore dell'Europa: tante minuzie
tecniche ammantate da una specie di sceneggiata euronazionalista.
È chiaro che Daniel CohnBendit, Jürgen Habermas, Joschka Fischer e varie altre
personalità di orientamento analogo hanno a cuore la costruzione europea, tanto
da parlare dell'Europa un po' come i nazionalisti di vecchio stampo parlavano
della patria (con tutte le relative esclusioni: quando, a Berlino, ho menzionato
la Svizzera, Daniel CohnBendit ha esclamato: «Ma la Svizzera non è Europa!»).
Recentemente, la nozione di Europa ha acquisito una colorazione antiamericana e
anticapitalista. L'Europa per la quale Habermas reclama una Costituzione va
difesa contro l'egemonia del capitalismo Usa.
Per parte mia, non ho stretto legami affettivi con nessuna entità geografica o
politica. Ciò che mi sta a cuore è la libertà. E posso entusiasmarmi per
chiunque la difenda e la promuova, anche quando si tratta di un paese. In
quest'elenco gli Stati Uniti – malgrado tutte le loro escrescenze e
quant'altro – figurano in testa. Mentre l'Europa, o l'Unione europea, sembra
finora più incline alla burocrazia e al protezionismo che alla promozione di un
ordinamento liberale.
Con questo non cerco affatto di negare l'esigenza della cooperazione europea, né,
per alcuni settori, quella dell'integrazione. L'Unione doganale rappresenta una
misura razionale, e il mercato unico ideato da Jacques Delors è un progetto
brillante. Ma si può dubitare, al di là delle parole, delle reali prospettive
degli sforzi in atto per la definizione di una politica estera e di sicurezza
comune. In fatto di sicurezza, con la Nato siamo in buone mani; e anche in
futuro, ogni qualvolta un conflitto minaccerà di aggravarsi, l'Europa farà
appello al sostegno americano. D'altra parte, alla voce «giustizia e affari
interni» figurano varie questioni che si possono affrontare al meglio
nell'ambito di una cooperazione europea. Ma c'è da augurarsi che non se ne
abusi per imporre a tutti un minimo comune denominatore in fatto di libertà.
E l'euro? Si può certo vederlo come il risultato di una preoccupazione
condivisa da Kohl e Mitterrand: il timore di veder risorgere il nazionalismo
tedesco. Dubito però che, da solo, l'euro possa costituire una barriera
sufficiente contro questo rischio. Il rublo non è certo bastato a mantenere la
coesione dell'ex Unione Sovietica, così come la corona cecoslovacca non ha
evitato la disintegrazione della Cssr. L'euro è innanzitutto una misura
tecnica, di sostegno al mercato comune per un certo numero di stati membri. E c'è
da chiedersi se veramente coloro che da tempo criticano il «nazionalismo del
marco» se la prenderanno ora con un «nazionalismo dell'euro». Speriamo di no,
se non altro perché dopo l'allargamento dell'Ue, gli stati membri che faranno
parte anche di Eurolandia saranno meno della metà.
Ma nel dibattito con il deputato europeo CohnBendit sono stato colpito
soprattutto dalla diversità di livello tra il suo discorso e il mio: il suo
entusiasmo visionario, la sua emozione da un lato, e dall'altro il mio
pragmatismo scettico e razionale. Vale la pena di notare che nel dopoguerra,
all'inizio del processo di integrazione europea, gli entusiasti erano i
democristiani, mentre a sinistra c'era molta cautela e spesso una netta
opposizione. Ma qualunque sia la lettura da dare a questo mutamento, resta il
fatto che il divario più profondo si apre oggi tra chi aspira a un'Unione
sempre più stretta, e chi ha a cuore valori quali la democrazia e la libertà.
E nessun segnale lascia intravedere una soluzione di questo conflitto.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)
tratto da La Repubblica 05.09.2001