La diplomazia privata
di Stefano Magni
La politica estera è sempre stata rappresentata come il principale e irrinunciabile ruolo dello Stato moderno. Parlo di Stato “moderno” intendendo quel monopolio tendenziale della violenza organizzata che ha incominciato a svilupparsi con l’assolutismo nel XV e XVI secolo e che si è istituzionalizzato con il Trattato di Westphalia nel 1648, alla fine della Guerra dei 30 Anni. La diplomazia fu incaricata di regolare e risolvere in maniera pacifica le controversie internazionali e, in caso di conflitto, di contenere la violenza al minimo indispensabile. Tre erano i fondamentali principi regolativi:
1.
Si riconosce agli Stati sovrani il diritto incontestabile all’esistenza
2.
Le relazioni internazionali si limitano a contatti fra governi
3.
I rapporti fra ministeri degli esteri presuppongono un certo livello di
integrità e di buona volontà che comporta il rispetto degli accordi ufficiali.
Già
a partire dalla Rivoluzione Francese, tuttavia, tali princìpi sono stati messi
in discussione da guerre di popolo, molto più incontrollabili rispetto alle
convenzionali guerre europee fra sovrani. La guerra totale, sperimentata per la
prima volta nella Guerra Civile Americana del 1861-’65 e manifestatasi in
tutta la sua violenza nella I Guerra Mondiale e il successivo affermarsi di
regimi totalitari imperialisti in Russia e poi in Germania, hanno eroso la
capacità della diplomazia di risolvere pacificamente le questioni
internazionali. La difficoltà principale per la diplomazia del XX secolo è
data dal fatto che la popolazione viene sempre più direttamente coinvolta nelle
relazioni internazionali e anche nei conflitti, saltando i canali ufficiali
della politica estera. Lenin sviluppò un doppio Stato sovietico: il primo
seguiva le regole ufficiali della diplomazia, ma il secondo (organizzatosi prima
nel Comintern, poi nel Cominform, infine controllato direttamente dal KGB) agiva
a livello transnazionale direttamente sulle popolazioni straniere. La II Guerra
Mondiale già non poteva più essere considerata una guerra fra Stati, ma una
guerra fra ideologie internazionali di massa, combattuta sia da eserciti
regolari che da intere popolazioni armate e divise ideologicamente al loro
interno. E il processo di coinvolgimento della popolazione e di svuotamento
progressivo del ruolo degli Stati è proseguito anche nella Guerra Fredda,
soprattutto grazie allo sviluppo e alla diffusione dei mezzi di informazione di
massa: la Guerra Fredda non può tanto essere rappresentata come una tensione
fra due grandi Stati (USA e URSS) e fra i loro alleati, quanto come una vera e
propria guerra civile mondiale, combattuta ovunque, all’interno e
all’esterno di ogni Stato del mondo, per ragioni ideologiche. E in questo la
diplomazia, al di là del tentativo di ripristino del suo ruolo da parte di
Henry Kissinger nei primi anni ‘70, ha avuto un ruolo sempre minore. L’ONU
era nata nel tentativo di recuperare un margine di trattativa dando regole
comuni a tutti, ma dopo cinquant’anni il suo ruolo può ben considerarsi
fallimentare: il mondo non è affatto pacifico e, di fatto, non sono mai state
seguite regole comuni di convivenza internazionale (soprattutto a causa del
dominio totalitario comunista su buona parte del mondo).
La fine della Guerra Fredda nel 1991 segna l’inizio di un processo di frammentazione degli enti statali ufficiali: formazione di bande armate indipendenti (come l’UCK in Kossovo), secessioni di fatto di intere popolazioni (il caso della Cecenia), affermazione di aziende multinazionali come attori internazionali influenti (soprattutto, attualmente, nell’Asia Centrale), diffusione di integralismi internazionali che non rispondono ai loro governi, rendono lo Stato sempre più una facciata ufficiale che un attore internazionale vero e proprio. La risposta non può più provenire da organizzazioni sovranazionali, come l’ONU, dato il numero sempre crescente e variabile di nuovi soggetti con cui dialogare. Però, c’è ancora bisogno della diplomazia e del suo indispensabile ruolo di moderatore. “Che fare?” si domanda il Dott. Danilo Noventa, della Non-Governamental Peace Strategies Project (NGPSP) di Torino? “ La risposta è una sola. Percorrere sentieri nuovi, accanto a quelli individuati dalla diplomazia tradizionale. I faticosi contatti bi e multilaterali tra i paesi, pur costituendo l’ossatura di tanti negoziati, segnano il passo. E sempre più chiamano in causa l’uomo comune, che può arrogarsi il diritto, ma anche rispondere al dovere d’intervenire. Promosse dagli uomini per gli uomini, le organizzazioni non governative sono forse la risposta più efficace a questa diffusa domanda.” E’ così che nasce la diplomazia privata “…un percorso destinato a fare scuola se è proprio alle banche di sviluppo, alle corporations ed alle organizzazioni non governative che fa appello lo stesso Palazzo di Vetro” secondo le parole dello stesso Noventa. La NGPSP, presieduta da Giandomenico Picco, uno dei pionieri della diplomazia privata, forma nuovi diplomatici che, saltando i canali ufficiali, trattano direttamente con i gruppi coinvolti nella questione da risolvere. Non si tratta di una novità assoluta, ma di una vera e propria nuova tendenza: già all’epoca degli accordi di Camp David fra Egitto e Israele, la strada delle trattative era stata preparata da gruppi privati (anche se promossi e “incoraggiati” dal presidente americano Carter). La stessa fondazione di Carter (che dal 1982 è un privato cittadino americano) è stata protagonista dell’annullamento del programma nucleare coreano nel 1995 e dei famosi accordi di Dayton fra Bosniaci, Croati e Serbi sempre nel 1995. Gli accordi di Oslo e il successivo accordo fra Rabin e Arafat nel 1993 sono stati preparati e resi possibili da agenzie diplomatiche private israeliane e palestinesi. In Africa e nell’America Latina è attivissima la comunità religiosa di S. Egidio già dal 1968. Attualmente la NGPSP di Torino ha in cantiere un nuovo programma diplomatico per l’Africa e un “Nuclear Risk Project” onde evitare l’uso non controllabile di armi di distruzione di massa.
Attualmente la diplomazia privata opera in cooperazione con le diplomazie statali e con l’ONU, ma nessuno può prevedere quanto l’aumento della complessità delle relazioni internazionali possa mantenere le due strade parallele. E’ probabile che in un futuro non troppo lontano lo Stato perda definitivamente il suo monopolio per eccellenza: quello della politica estera.