Fabrizio DeAndré libertario
DI ALBERTO MINGARDI
La morte ha consegnato, inquivocabilmente pare,
Fabrizio DeAndre’ al pantheon dei penati della Sinistra: il suo incarnare
(perfettamente) il cliché dell’artista impegnato, il suo sposare da sempre la
causa degli oppressi e dei deboli, non ultimo il suo continuo “misurarsi”
col metro dell’utopia e della rivoluzione, sembrano confermare
quest’appartenenza. DeAndre’ è l’ultimo, grande esponente di quel
“maledettismo” che da François Villon a Jack Kerouac non dà spessore
ideologico, ma nutre di miti ed emozioni l’immaginario “di sinistra”. Il
che è perfettamente coerente con il copione che i socialisti hanno sempre
assegnato agli anarchici: giocare alle avanguardie, e poi agli agnelli
sacrificali, della Rivoluzione.
Però limitarsi a inquadrare DeAndre’ in questa prospettiva significa smarrire
il perché della sua poetica, perdere il senso della sua ispirazione.
L’attenzione del menestrello ligure per le condizioni di emarginazione va
inserita in un quadro più ampio, in una prospettiva storica.
E questa prospettiva storica, questo contrasto per certi versi manicheo, certo
duro e segnato, costantemente riletto e raccontato nelle sue canzoni, è quello
fra Libertà e Potere. La produzione artistica di DeAndre’ si può intendere,
tutt’intera, come un percorso a tappe, un tentativo di comprensione
dell’inconciliabilità dell’uno con l’altra. Più volte Faber, lungo la
strada, ha “smarrito la bussola”, ritrovandosi per sentieri impervi e
oscuri, nonsense filosofici che pure hanno alimentato il suo mito: lo sapeva
anche lui, del resto. Interprete assennato del “disordine dei sogni”.
Tuttavia, nella sua esperienza si può rintracciare un’evoluzione che in
qualche modo ha segnato e cambiato altri uomini generalmente riconducibili
all’area “di sinistra”. Il caso più eclatante, e sicuramente più noto,
è quello di Mario Vargas Llosa: da primo violino della rivoluzione castrista,
ad amico e supporter di Margaret Thatcher.
DeAndre’, intendiamoci, a certi estremi non è mai arrivato: la sua antipatia
per il capitalismo, forse più per i capitalisti (come figura e come stereotipo)
che per l’economia di mercato in sé, non si è mai stemperata. E’ del
penultimo album, “Le nuvole” (1990), una spietata parodia di un secolo,
“Ottocento” appunto, che aveva messo al centro dell’universo l’uomo. E,
con esso, progresso ed economia (“l’odore di questo motore/ che ci porta
avanti quasi tutti quanti/ maschi femmine e cantanti/ su un tappeto di contanti
nel cielo blu”).
Ciononostante, è altrettanto vero che altri giudizi di Faber sono cambiati nel
tempo: in particolar modo, la sua valutazione dell’individualismo. Presentando
quello che forse è il “DeAndre’ politico” per eccellenza, cioé “Storia
di un impiegato” (1973), Roberto Dané poteva giustamente leggervi una
“liberazione dall’individualismo”. Nel senso che, ripercorrendo la
delusione di un impiegato parigino per non aver preso parte al bailamme
sessantottesco, DeAndre’ scorgeva una soluzione sola al suo dramma (cioé
l’essere una macchietta, un ingranaggio della società borghese): annullarsi
nel collettivo. “E adesso imparo un sacco di cose/ in mezzo agli altri vestiti
uguale”, canta nel brano più forte del disco, “Nella mia ora di libertà”.
Tuttavia, in un testo di simile intensità, “Smisurata preghiera” (“Anime
salve”, 1996) DeAndre’ ribalta, tre anni prima di morire, questa
prospettiva. Non si tratta, a dire il vero, di un mutamento così radicale:
“Nella mia ora di libertà” esprimeva la rinuncia di un carcerato a godersi,
appunto, quell’ora d’aria che i secondini gli lasciavano. “Se c’è
qualcosa da spartire/ tra un prigionero e il suo piantone/ che non sia l’aria
di quel cortile/ voglio soltanto che sia prigione”: è il rifiuto delle forme
e - sott’inteso - il rifiuto di una finzione. La finzione di una legalità
“formale” che si nutre, in realtà, di sopruso e oppressione. E già allora,
Faber sapeva smascherare la totale insensatezza di un qualche cosa che “è
cominciata un’ora prima/ un’ora dopo era già finita”: non è ardito
leggerci un chiaro riferimento a certe strutture “democratiche”, che fondano
sul voto l’inganno della rappresentanza. Che partecipazione non è: si tratta,
semmai, di un episodio isolato, di un teatrino che si ripete ogni quattro anni,
in cui la classe politica non viene eletta ma si fa eleggere. Una lezione,
questa, tipica di certo liberalismo: gli elitisti italiani (Mosca e Pareto), il
sociologo tedesco Franz Oppenheimer, l’anarchismo “di destra” americano,
da Lysander Spooner all’anti-roosveltiano Albert Jay Nock.
Romano Giuffrida e Bruno Bigoni, in un bel saggio contenuto in “Accordi
eretici” (la più articolata monografia su pensieri e note di Fabrizio
DeAndre’), citano Michail Bakunin come testo sacro del menestrello genovese.
Ma l’anarchismo di Bakunin ha avuto interpretazioni e conseguenze non meno
sanguinose di quelle del “Manifesto” di Marx: il comunismo, ce lo dice la
storia, non può essere pacifico né volontario.
L’ultimo DeAndre’ semina spunti e idee che si possono ricondurre ad altre
tradizioni. Mentre ripercorreva, nella sua vita artistica, lo scontro fra Libertà
e Potere, dalla Giudea precristiana (“Il testamento di Tito”) ai giorni
delle monarchie assolute (“Geordie”), passando per l’insensatezza di tutte
le guerre (“La canzone di Piero”, “Girotondo”), gli eccidi gratuiti (“Sidùn”,
“Fiume Saint-Creek”), gli omicidi di Stato (“Il cantico dei drogati”),
DeAndre’ è stato capace di fare il verso allo Stato stesso. Ne ha gridato
l’inconsistenza, nel senso che esso non esiste, esistono gli individui che lo
gestiscono. “Lo Stato sono loro”, insomma, ma loro chi? DeAndre’ ci ha
mostrato il desiderio perverso di un giudice di sostituirsi a Dio, e rifarsi sul
mondo del fatto d’essere un nano (“Un giudice”, appunto). Ci ha svelato,
in quella sua lingua (il genovese) che tanto amava, le miserie di un esattore
delle tasse (“‘A pittima”), ruolo per cui si esige una singolare
“selezione all’incontrario”: lo faccio, canta il pubblicano, perché non
sono in grado di fare altro. Ci ha raccontato lo zelo censorio dei sacerdoti del
potere, “mi cercarono l’anima a forza di botte” (“Un blasfemo”).
E’ solo in “Anime salve” che quella che era stata una critica impietosa
dell’esistente, un’anatomia dello status quo, prende corpo e diventa un
qualche cosa di propositivo. “Smisurata preghiera”, che chiude
quell’album, è stata la conclusione perfetta di una carriera: in essa,
DeAndre’ ha completato la sua mutazione, e ha composto un canto completamente
e assolutamente incentrato sull’individuo. Una poesia coraggiosa, che dopo
l’Hiroshima delle ideologie ha saputo riappropriarsi di un lessico e di una
grammatica che parevano essersi svuotati di senso: “per consegnare alla morte
una goccia di splendore, di umanità, di verità”, canta Faber utilizzando
spledore - umanità - verità (rigorosamente scritta e pensata minuscola) come
sinonimi. Non solo: parla di un “dovere”, il dovere di riconoscere gli
sforzi e l’arrancare dell’individuo. Braccato non solo dalla massa, ma
dichiaratamente dalla “maggioranza”.
La maggioranza è “china e distante sugli elementi del disastro” (il
richiamo è ad Alvaro Mutis), recita un rosario “di ambizioni meschine”,
coltiva “le proprie superbie”, è “malattia”, “sfortuna”,
“anestesia” delle coscienze. Peggio: abitudine.
Nel mirino c’è la democrazia intesa come sistema universalmente accettato, il
migliore dei mondi possibili: seppure lontano dall’etichettarsi come un
“liberale”, DeAndre’ esprime il punto di vista di un libertarismo
coerente. Lui stesso del resto, aveva messo in testa a “Le nuvole” una
citazione che è un manifesto: “Io sono un principe libero, e ho altrettanta
autorità di far guerra al mondo intero, quanto colui che ha cento navi in
mari”. Firmato Samuel Bellamy, pirata del XVI secolo.
Con questa critica dell’arbitrio della maggioranza, della dura legge del 50 più
uno che si dimentica sempre del restante 49, DeAndre’ mette in musica non più
le suggestioni di Bakunin (o Stirner), semmai quelle di un Thoreau. Al profeta
della disobbedienza civile, non l’accumava solo la passione per una vita
appartata e in armonia con la natura, fosse la “vita fra i boschi” o quella
fra i nuraghe.
E’ quasi scontato che DeAndre’ condividesse quanto scritto dall’allievo di
Ralph Waldo Emerson, per esempio proprio a mo’ di conclusione del saggio che
lo rese famoso come pamphlettista politico: “la disobbedienza civile è una
sorta di valvola di scarico, la quale consente ai cittadini di evitare il
pericolo dell’obbedienza per abitudine o pigrizia”. Ed è nell’abitudine
(e nella pigrizia) che DeAndre’ rintraccia - l’abbiamo visto - le ragioni
del fallimento della democrazia, il perpetuarsi dell’arbitrio della
maggioranza; mentre ciò che egli amava era la diversità, la varietà, il
piacere sottile della differenza che anche quando viene rifiutata dalla società,
forse soprattutto quando viene rifiutata dalla società, è strumento di
emancipazione.
Sono temi che ricorrono sovente nell’anarchismo americano dell’Ottocento, in
Lysander Spooner e Benjamin Tucker soprattutto. Spooner e Tucker, le cui
teorizzazioni sono state autorevolmente riscoperte a cavallo degli anni Sessanta
e Settanta assieme da esponenti della “Old Right” e della “New Left”
statunitense, fecero una critica impietosa del mondo uscito dalla guerra civile
del ‘61-’65: vivisezionarono la Costituzione (che non ha autorità, scrisse
Spooner, su coloro che non l’hanno firmata e sottoscritta), radiografarono lo
“Stato monopolista” che, secondo Tucker, opprime i più deboli garantendo i
privilegi di una ristretta casta di burocrati.
Più tardi argomenti simili furono fatti propri dalla “Old Right” ai tempi
del New Deal: Frank Chodorov scrisse, fra le altre cose, una sua “Ora di
libertà” (If we will quite vote), e non fu meno critico delle bombe
americane, e politicamente corrette, di quanto lo sia stato DeAndre”.
Intendiamoci: nessuno vuole dimostrare che Faber conoscesse queste tradizioni di
pensiero, né tantomeno che intendesse mettere in musica qualcosa di più dei
suoi sentimenti e della sua, particolarissima, capacità di leggere la realtà.
Anzi: proprio per questo classificarlo come uno chansonnier di sinistra punto e
basta vorrebbe dire declassarlo, da libero pensatore a inviato speciale della
“Pravda”.
Si può ascoltare in DeAndre’ la voce pura di un anarchico vero. Ma più che
Bakunin, Spooner. Più che Stirner, Thoreau. Né gli uni né gli altri furono
quel che si dice teorici raffinati; le loro idee raggiunsero solo più tardi,
un’articolata sistematizzazione. Ma Spooner, Tucker, Thoreau furono almeno
guerrieri appassionati, innamorati della libertà. Figure romantiche. Come
Fabrizio DeAndre’.