Quel Cattaneo federalista che fece insorgere l'Italia
 
di Andrea Benzi
 
Esiste un testo che rappresenta una lettura obbligata per tutti coloro che sono animati, nonostante tutto
e tutti, dal sentimento di poter cambiare la struttura politica dell'Italia in modo radicale e rivoluzionario. Questo testo è un vecchio libello di Carlo Cattaneo, personaggio che negli ultimi tempi ha ridestato un qualche interesse (quest'anno ne ricorre il duecentesimo anniversario della nascita), tirato per la giacca dai confusi e populistici epigoni di un federalismo ambiguo ed antinazionale. Mi riferisco a "Dell'insurrezione di Milano nel 1848 e della successiva guerra": tale libro venne scritto in un momento di particolare sconforto per le forze politiche sostenitrici dell'idea di un'Italia politicamente unita nei suoi confini naturali, reduci come erano quelle forze dalle illusioni maturate e, soprattutto, dalle immediate sconfitte subite durante il 1848, l'anno che vide la confusa insurrezione di città e stati dell'Italia preunitaria contro
il dominio austriaco. Una volta depurato il testo dai riferimenti contingenti e datati, il suo contenuto, le sue proposizioni, gli eventi e le figure storiche descritte emergono con una sconcertante attualità: Cattaneo riesce a darci un quadro straordinariamente attuale di quello che è la politica in Italia, di come si muovono i suoi protagonisti, delle incredibili costanti che si manifestano puntualmente nelle troppe false rivoluzioni vissute da questa nazione: ne possiamo trarre, con non poca amarezza, una sorta di immutabilità delle dinamiche politiche che attraversano la penisola, una serie
di dati sempre veri in quanto riscontrabili allora, come lungo tutto il XIX ed il XX secolo, quasi che una sorta di immutabile natura determinasse e determini il comportamento politico individuale e collettivo degli Italiani.
Vi è, all'inizio, un fermento autenticamente rivoluzionario, idealistico, con alla base un concetto chiaro e forte: un simile fermento ruotava allora intorno a due parole dal significato storico e simbolico grandioso, vale a dire Italia e Roma. La rivoluzione francese e Napoleone avevano contribuito a suscitarlo lungo la penisola, trovando il sostegno di una folta schiera di combattenti e uomini di cultura, trovando altresì fiere opposizioni di massa, sapientemente gestite dalla Chiesa e dai principi a lei fedeli. Quel che importa, sembra chiedersi Cattaneo, è capire come da una ribellione di popolo che riuscì a fare insorgere tutto il settentrione dell'Italia contro gli Austriaci (da Milano a Brescia, da Venezia a Vicenza, dal Friuli al Cadore), e che negli altri stati preunitari assumeva le forme della rivolta contro i sovrani assolutisti (Stato Pontificio e Ducato di Modena), o in nome di una maggiore autonomia (Sicilia) sia uscita non l'indipendenza nazionale, cioè la costituzione di uno stato politicamente unito che avrebbe federato i vecchi stati preesistenti, ma una tragica avventura militare, al limite della penosità, che vide come protagonista un re senza alcun spessore, Carlo Alberto, ambizioso di estendere il suo dominio sull'Italia del nord. Perché il popolo lombardo, e con lui il popolo veneto ed il resto dei popoli italiani, non seppe seguire la via dell'autodeterminazione che pure aveva nobilmente intrapreso con la sconfitta di Radetzky a Milano nel marzo del 1848? Perché tutti uniti non si incalzò l'esercito del maresciallo, uscito sconfitto dalle mura di Milano, ma lo si lasciò riprendere forza nel "quadrilatero", dove potè attendere i rinforzi provenienti dall'Austria e dal Tirolo? La colpa non sta nell'anima sincera delle insurrezioni, nella loro utopia, suggerisce apertamente Cattaneo: fin tanto che la guida dei moti è rimasta in mano a chi voleva effettivamente il cambiamento, la vittoria aveva arriso alle forze rivoluzionarie nazionali. Le cause della sconfitta stavano nel vecchio vizio delle classi dirigenti locali: esse aderirono all'insurrezione, ma lo fecero con quella dose di opportunismo e pusillanimità, che già predisponeva loro una scappatoia o il modo per restare comunque in piedi, qualora l'insurrezione avesse fallito e l'Austria fosse tornata. Il problema non si esaurisce qui: i medesimi uomini che una falsa moderazione e la paura del futuro aveva posto a dirigenti delle varie giunte insurrezionali, tutti uomini abituati al potere e che avevano sostanzialmente omaggiato l'Austria (e prima ancora Napoleone), furono determinanti non solo nel...non prendere decisioni, lamentando i sempre validi limiti della mancanza di fondi, ostacolando la formazione e l'inquadramento dei reparti volontari, non coordinando la propria azione con le giunte insurrezionali che via via si costituivano, ecc, ma furono altresì responsabili di quella che Cattaneo vede come la causa principale del fallimento dei moti: l'entrata sulla scena di Carlo Alberto e del Piemonte. Di quel sovrano debole e ambiguo, con giovanili simpatie liberali ben presto malcelate per non irritare lo zio Carlo Felice e soprattutto per non pregiudicare il trono futuro (tanto da aver appoggiato i moti del 1820, salvo poi rifarsi una verginità nella spedizione spagnola del Trocadero), Cattaneo e molti altri avrebbero voluto fare a meno.
Il Savoia-Carignano era degno erede della politica savoiarda della lenta annessione al Piemonte dei territori italiani confinanti: non era animato dagli ideali unitari che vedevano nell'intera penisola, isole comprese, il territorio costitutivo della nuova Italia. Il Piemonte era uno stato arretrato, ancora abbondante di prassi feudali, non troppo ricco, cui faceva gola mettere le mani su regioni prospere come la Lombardia. L'essersi ribellati agli Asburgo per cadere, causa la mancanza di responsabilità dei propri dirigenti, nella mani di un monarca molto peggiore, fu questo l'errore principale: la rivoluzione da fatto di autodeterminazione di popolo, da evento di responsabilità, si era trasformata nella ricerca diplomatica di un nuovo padrone, forse peggiore di quello contro il quale si erano innalzate le barricate per le vie di Milano.
Di qui lo sfilarsi di Cattaneo dal movimento. Come sia andata a finire, Cattaneo lo racconta: il prevalere dei "ciambellani", dei "faccendieri", di coloro non avvezzi all'analisi dei dati oggettivi, spinse il moto non solo nelle braccia di Carlo Alberto, provocando un allontanamento del Papa, del Re delle Due Sicilie, dell'Arciduca di Toscana che pur all'inizio avevano aderito al progetto di allontanare l'Austria dalla penisola ed avevano inviato propri contingenti militari al nord, ma aveva anche aperto la via alla sconfitta militare: il piccolo ed incerto esercito piemontese, poco convinto, venne fermato da Radetzky alle porte di Verona.
Di lì in poi, sarebbe stato tutta una sconfitta fino al Ticino.
La doppiezza e l'ambiguità tipica dei politici italiani, ancorché sedicenti rivoluzionari, il fare la guerra per non farla,
la predisposizione sempre e comunque di una scappatoia che consenta di uscire indenni da ogni cambiamento cavalcato, l'irrefrenabile tendenza ad omaggiare i potenti e ad andare alla ricerca sempre di un padrone, tanto più quanto più questo indossa titoli ed onori formali ed è invece privo di virtù, l'amore per i proclami propagandistici e il disprezzo verso le realtà oggettive, pratiche e quantificabili, sono tutte caratteristiche messe a nudo da Cattaneo, caratteristiche che ostacolarono allora la dura e responsabile via dell'autodeterminazione. Caratteristiche, a quanto pare presenti ancor oggi, con l'aggravante di un declino sostanziale, continuo e crescente di un approccio radicale e rivoluzionario, che allora, nel 1848, perlomeno non mancava.
Carlo Cattaneo "Dell'insurrezione di Milano nel 1848 e della successiva guerra", Oscar Classici Mondatori, 2001 Milano, pag. 317, lire 15000.

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