Il
bello delle multinazionali
di ALBERTO MINGARDI
Il G 8 di Genova finirà in
nulla, tutto fumo e niente arrosto, è una storia già scritta - ma,
come capita in alcuni romanzi, ad appassionarci non è la trama nuda e
cruda, l’inizio e la fine del racconto. Semmai quel che ci sta in
mezzo, il pepe che ci mette l’autore, gli effetti speciali. In questi
giorni a Genova si scommette se ci scapperà il morto o meno, se quelle
250 bare che il sindacato ha fatto preparare troveranno un inquilino
oppure no - tutto il resto, macro-problemi politici inclusi, è aria
fritta. Ma il quaquaglobal di questi mesi, se non ha avuto effetti
concreti sulle politiche di questo o quello Stato, sicuramente ha
prodotto un certo tipo di sentimenti nella società civile,
sapientemente alimentati dai registi della protesta.
Il verdetto ormai è unanime: le grandi multinazionali (americane, per
completare il cliché), quest’orco cattivo postmoderno, sono
colpevoli. Colpevoli: di tutte le malefatte, piccole e grandi, di cui
vengono accusate quotidianamente. Nell’immaginario collettivo, la
multinazionale è diventata una specie di cupola mafiosa, una cricca di
vecchi signori che ogni tanto si siede attorno a un tavolo, si versa un
bicchiere di cognac, accende un sigaro cubano e traccia a tavolino i
destini del mondo.
E’ pura mistica marxista: la mentalità comunista non accetta che le
cose (ogni tanto) accadano per caso, che il mondo sia un accavallarsi di
persone e idee una diversa dall’altra, che finiscono per comporre
(senza saperlo) un mosaico meraviglioso. No. Dev’esserci un qualcuno
che tira le fila, un grande vecchio o giovane che incaselli le pedine di
questa partita giocata sullo scacchiere mondiale.
Per esempio, le mega corporation. Tuonare contro il capitalismo di per sé
è diventato quasi impopolare - c’è il rischio che qualcuno arrischi
la fatidica domanda, cosa al suo posto? E allora meglio inventarsi un
feticcio, un mostro di rincalzo. Alle multinazionali la parte calza a
pennello: il solo nome evoca qualcosa di lontano, di distante dalla
realtà quotidiana. Un essere i cui contorni s’intravedono appena
appena.
Ma le corporation sono davvero così diaboliche? E’ possibile che
Coca-Cola, Nike, Microsoft, McDonald’s siano associazioni a delinquere
che lucrano sulla fame nel mondo?
Ogni tanto dovremmo ricordarci di quella “distruzione creatrice” che
Joseph Schumpeter indicava come uno dei tratti caratteristici del
capitalismo. Ogni innovazione crea dei perdenti: l’industria
dell’automobile ha reso obsolete le carrozze, i computer hanno
surclassato le macchine da scrivere.
Nei Paesi del Terzo mondo, tutto questo sta avvenendo a ritmo frenetico,
quello che per noi è stato un tragitto verso lo sviluppo lungo quattro
secoli lì si sta consumando in pochi anni.
Ma se sicuramente questo sbarco del capitalismo laddove non c’era ha
carattere “distruttivo”, la sua spinta “creatrice” è sotto gli
occhi di tutti: il mercato sta creando ricchezza, le multinazionali
stanno creando benessere. Il ritornello che sentiamo recitare ai vari
Agnoletto e Casarini ci lascia intendere l’opposto. “C’è gente
che vive con un dollaro al giorno”, ammoniscono. Una mezza verità gli
è scappata: c’è gente che vive, quando solo pochi anni fa sarebbe
stata condannata a morire.
Il dollaro al giorno è una boutade, una specie di milione del signor
Bonaventura all’incontrario - è cifra tonda, perfetta per qualche
dichiarazione ad effetto. Le statistiche, tuttavia, parlano di uno
stipendio giornaliero sui 4-5 dollari, che non è molto, ma è sempre
quattro volte quel che raccontano il Genoa Social Forum e affini.
Ancora: noi sappiamo che questo salario, per quanto magro, corrisponde a
otto volte e mezzo quello che lo stesso lavoratore prenderebbe se
impiegato in un’industria locale (l’ha dimostrato, con tanto di
numeri, Edward Graham dell’Institute for International Economics).
Cosa vuol dire? Che le multinazionali non affamano il Terzo mondo, lo
sfamano. La demagogia degli antiglobalisti consiste nel mettere a
confronto il nostro tenore di vita e quello dei Paesi in via di
sviluppo. Ma per quelle persone, che sono carne ed ossa dietro i numeri,
l’alternativa a lavorare per una multinazionale non è continuare a
studiare o poltrire davanti alla televisione. L’alternativa è essere
pagati un ottavo di quanto darebbe loro la Nike (tanto per fare un
nome), sudando l’anima in un’impresa locale che non dà certezza,
sicurezza, solidità. Oppure restare disoccupati, non mettere assieme il
pranzo con la cena, probabilmente morire.
Negli anni Ottanta, le economie industrializzate crescevano più
velocemente che i Paesi all’epoca sottosviluppati ed oggi in via di
sviluppo. Negli anni Novanta, man mano che la globalizzazione diventava
una realtà, le nazioni più povere sono cresciute con un tasso del 3,6
%, cioè il doppio dei loro vicini più ricchi.
Cosa vuol dire: vuol dire che la globalizzazione crea ricchezza nei
paesi più arretrati, l’ingresso delle multinazionali nei mercati del
Terzo mondo porta con sé crescita e sviluppo. Certo che i lavoratori di
quei Paesi non sono pagati quanto i lavoratori occidentali - ma perché
dovrebbero esserlo? Anzitutto hanno qualifiche non paragonabili a quelle
di un americano o di un italiano. E in secondo luogo la manodopera a
basso costo è un incentivo essenziale per decidere l’insediamento qua
o là della sede di una corporation. E’ un circolo virtuoso.
La vulgata insegna che le multinazionali “schiavizzano” i lavoratori
dei Paesi poveri. Scusate, ma chi l’ha detto? La Nike non rapisce i
bambini pakistani, e non s’insedia neppure in questo o quel luogo
portando con sé giganteschi cartelloni del tipo “qui si accettano
solo baby-cucitori di palloni”. E’ l’amore di un padre,
l’affetto di una madre che li spinge a spedire in fabbrica i pargoli:
per garantire loro la certezza di continuare a vivere, la sicurezza di
stare lontani dalla strada. Il mio bisnonno ha cominciato a lavorare a
otto anni, e ne è sempre stato orgoglioso: parliamo di un paesino del
milanese, neanche un secolo fa. Se una tappa dello sviluppo è il lavoro
minorile, perché, imponendo al Terzo mondo i nostri standard, vogliamo
impedirgli di crescere?
Gli “egoisti occidentali”, barricati dietro un velo di umanitarismo,
non rispondono. E ignorano anche un altro dato: sapete chi è che
“investe” più soldi, tempo ed energie nella formazione (scuole e
affini) nei paesi poveri? Bingo. Al secondo posto dopo la Chiesa
cattolica, troviamo le imprese multinazionali.
Grazie, orco cattivo.
Tratto da Libero-Opinioni
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