11 settembre 2001 - Attacco terroristico agli USA
vignette di Forattini, tratte da La stampa
Vittorio Mathieu, editorialista di Ideazione.com - Combattere il terrorismo. Con ogni mezzo
Michael Ledeen, editorialista del National Review - Non c’è posto per l’Onu
Alberto Mingardi, editorialista di Libero - Twin Towers: In Memoriam
Andrea Bonanni, editorialista de Il Corriere della Sera - Ma la Nato c'è ancora?
Carlo Stagnaro, vicedirettore di Enclave - L'eresia libertaria: i cittadini si difendano da soli
Stefano Magni, giornalista di Enclave - Huntigton letto per davvero
Carlo Stagnaro, vicedirettore di Enclave - Le libertà digitali restino fuori dall'emergenza
Angelo Panebianco, editorialista de Il Corriere della sera - Il castello delle ipocrisie
Dimitri Buffa, giornalista di Libero e de l'Opinione - Il pensiero unico filotalebano
Giordano Bruno Guerri, editorialista de Il Giornale - La religione aggressiva
Giordano Bruno Guerri, editorialista de Il Giornale - Tolleranti, ma non con gli intolleranti
Irene Pivetti, ex presidente della Camera dei Deputati - Non rinunciamo ai nostri valori
Pierluigi Mennitti, direttore di Ideazione.com - We, the americans
Ferruccio de Bortoli, direttore del Corriere della Sera - Siamo tutti americani
Arturo Diaconale, direttore dell'Opinione - Guerra planetaria postmoderna
Sergio Romano, editorialista del Corriere della Sera - La potenza vulnerabile
Stefano Magni, esperto di politica internazionale - La strana guerra
Gualtiero Vecellio, editorialista de L'Opinione - Se i talebani danno lezioni di democrazia
Paolo Pillitteri, ex sindaco di Milano - Quel crocifisso da bruciare
Carlo Stagnaro, vicedirettore di Enclave - E se gli USA tornassero al non interventismo?
Combattere
il terrorismo. Con ogni mezzo
di Vittorio Mathieu
Il terrorismo va stroncato. Non ho trovato un solo commentatore che dicesse che
va rispettato. Anche coloro che, in Pakistan e altrove sostengono che i talebani
devono essere protetti, lo sostengono perché escludono che siano terroristi.
Terroristi sono gli Stati Uniti, lo ha detto Bin Laden, e appunto il loro
terrorismo va stroncato.
Si tratta però di vedere con che mezzo. E qui i “distinguo” si affollano. C’è chi dice “con ogni mezzo”, o “con ogni mezzo legittimo”, o “con ogni mezzo che non sia la guerra”. Traendo le conseguenze si dovrebbe concludere: con mezzi non violenti. Con la persuasione? Con le prediche? Con l’ascesi? Con le caramelle, cioè elargendo finanziamenti a chi potrebbe cadere in tentazione? L’onorevole Bertinotti ha indicato la via più corretta: attraverso l’ONU. L’ONU dovrebbe occuparsi del terrorismo. Ma questo lo ha già fatto. Si tratta di trovare i mezzi per rendere esecutiva la sentenza. E questi mezzi, di nuovo, in che cosa consisteranno? In dichiarazioni, risoluzioni, messaggi, invio di predicatori, finanziamenti agli intellettuali perché spieghino che guerra santa non vuol dire terrorismo?
Siamo seri: il solo mezzo per persuadere musulmani e non musulmani che il Corano vuole la diffusione dell’Islam con mezzi non terroristici è colpire con la massima violenza coloro che cercano di diffonderlo con mezzi terroristici. E poi concludere, riuscita l’operazione: “Così è scritto: Allah è grande”. I musulmani si persuaderanno che Allah – che è grande in ogni caso – non vuole il terrorismo quando i terroristi saranno sterminati.
tratto da Ideazione.com, 8 ottobre 2001
Non
c’è posto per l’Onu
di Michael Ledeen
Una volta ho
frequentato un corso di filosofia particolarmente difficile, nel quale le
domande poste erano così complicate che era difficile sapere persino da dove
iniziare a pensare. Per fortuna in quella classe c’era uno studente che
sbagliava sempre, una specie di pietra filosofale al contrario, e gli eravamo
tutti molto grati. Qualsiasi cosa dicesse poteva essere scartata, limitando, così,
l’universo delle risposte corrette. Così è con il segretario generale delle
nazioni Unite, Kofi Annan. Egli governa una delle burocrazie più corrotte del
mondo (una volta un capo di stato mi spiegò che mandava alle Nazioni unite solo
quelle persone che, altrimenti, avrebbero creato problemi a casa), che
regolarmente emette “rapporti” diffamatori basati in gran parte su voci (un
mio caro amico recentemente è stato infangato da uno di questi, che accusava il
pover’uomo di contrabbando di diamanti e di riciclaggio di denaro sporco),
dirotta notevoli somme di denaro a despoti, organizza conferenze internazionali
per promuovere l’antisemitismo e approfitta dell’ospitalità americana,
contrastando o sabotando, allo stesso tempo, la politica americana con monotona
regolarità.
Dobbiamo essere tutti grati al New York Times, una volta conosciuto come il
giornale della testimonianza e oggi come il giornale del lamento, per aver
pubblicato venerdì l’appello di Kofi Annan, che chiedeva che gli fosse
affidato il controllo della nostra guerra contro il terrorismo. “Questo è un
attacco a tutta l’umanità”, ci dice “e tutta l’umanità ha interesse a
sconfiggere le forze che vi sono dietro.” Sbagliato sotto tutti gli aspetti.
E’ stato un attacco contro gli Stati Uniti e una bella parte dell’umanità
l’ha festeggiato, e una parte dell’umanità ha interesse a sconfiggerci,
perché sostiene le forze che vi erano dietro. E sbagliato anche perché se vi
sono “forze dietro” allora per definizione “tutta l’umanità” non può
volerle distruggere. Poi continua. “Le nazioni Unite sono le uniche nella
posizione di promuovere questo sforzo”. Difficilmente, visto che l’Onu ha
sponsorizzato la disgustosa conferenza di Durban e Kofi Annan era in prima
linea. Ci dice che la nostra risposta ai terroristi non deve “spezzare
l’unità dell’11 settembre” e poi arriva al vero punto: “... vi sono
nemici comuni a tutte le società... non sono mai definiti dalla religione o
dalla discendenza nazionale. Nessun popolo, nessuna regione e nessuna religione
dovrebbe diventare un bersaglio a causa di indicibili azioni individuali... Il
terrorismo minaccia ogni società...”.
In breve, fa da copertura agli stati del terrore. Non dovremmo colpire l’Irak,
l’Iran, la Siria, la Libia e nessuno degli altri paesi che hanno reso
possibile la rete del terrore. Dovremmo arrestare i terroristi e poi, grazie
alle convenzioni sull’estradizione dell’Onu, processarli, lasciando Saddam e
gli altri liberi di reclutare nuovi assassini. Ma Kofi Annan ha vocazioni “più
alte”: dobbiamo eliminare le “condizioni che permettono la crescita di tale
odio... dobbiamo affrontare la violenza, la l’intolleranza e l’odio in
maniera ancora più risoluta. Il lavoro delle Nazioni Unite deve continuare,
indirizzandosi ai mali del conflitto, dell’ignoranza, della povertà e della
malattia”. Non si può eliminare il terrorismo, se non si affrontano i
“motivi che sono alla sua radice”. Per coincidenza, questo è esattamente
quello che dicono i terroristi. E, immagino, è un’ennesima prova
dell’infallibile ostinazione nell’errore di Kofi Annan e dobbiamo
ringraziare la nostra buona stella che il presidente Bush non abbia ancora
menzionato l’Onu nella nostra guerra contro i terroristi. Spero che qualcuno
ne faccia menzione al segretario di stato.
tratto da Ideazione.com, tradotto da Barbara Mennitti, pubblicato su National Review
tratto da Libero, 15 settembre 2001
L'immagine delle due torri gemelle di Manhattan,
che crollano rovinosamente al suolo, che collassano in un tonfo impietoso, è
qualcosa che non dimenticheremo facilmente. Adesso le nostre certezze si
trascinano, stanche, alla ricerca di un nemico e di un colpevole - ma neppure la
testa di Bin Laden, servita su un piatto d'argento all'inquilino della Casa
Bianca, potrà ridarci quel che abbiamo perduto.
Non solo in termini di vite umane - anche se il
bilancio è stato crudele, scioccante, scandaloso. Sono numeri che fanno orrore.
E' stato spazzato via un simbolo, ci hanno rubato
un capitolo del nostro romanzo, abbiamo perso una testimonianza della nostra
civilizzazione. Non so quanti dei nostri lettori abbiano vissuto l'esperienza,
incredibile, di salire in cima a una delle Twin Towers. Cerco di raccontarvela
io: arrivati a colpi di ascensore al centodecimo piano, milletrecento piedi
sopra la città, potevate abbracciare cinquantacinque miglia d'America,
sbirciare oltre i confini infiniti di New York, agguantare uno scampolo di
cielo.
I grattacieli stanno agli States come i Fori a
Roma. Qualcuno potrebbe storcere il naso, dire che il paragone non regge - ma
regge, eccome. Sono tappe diverse della nostra storia: sensibilità, gusto,
amori e sapori cambiano con il tempo. Ma ciò che resta è la grandezza
dell'umanità, questo nostro superare puntualmente i nostri limiti, questo
spingerci costantemente là “dove nessun uomo è mai giunto prima” - che è
il leitmotiv di una serie televisiva made in Usa, ma alla fin fine siamo noi,
nel nostro profilo migliore, vestiti con l'abito buono.
Le Twin Towers stavano lì a ricordarcelo, un
monumento a noi stessi. Non è un caso che fossero state costruite senza un
dollaro di provenienza governativa, senza un cent targato “Stati Uniti
d'America”. Erano l'altare su cui si celebravano le messe e i riti non dello
Stato ma della società americana, di quel magmatico complesso di individui che,
ognuno per conto suo, ognuno badando al suo particulare, finisce per comporre
inconsapevolmente un mosaico magnifico. Chiamatelo civiltà occidentale,
chiamatelo libero mercato, chiamatelo Pippo, Pluto o Topolino - poco importa.
Fatto sta che le Torri gemelle rappresentavano,
meglio: incarnavano, più di qualsiasi altro edificio, più di qualsiasi altro
luogo, questa realtà. Erano un simbolo di pace: gli uomini e le donne che,
dalle prime luci dell'alba sino a tarda sera, le “abitavano”, erano alcuni
dei veri eroi della nostra epoca. Dei nostri autentici benefattori.
Ce li dimenticheremo, nascondendoli dietro un
numero, perché dopotutto erano facce a noi ignote, e c'interessa solo il
bilancio delle vittime, questo vomitare cifre per dare un senso all'orrore. Ma
quelle persone erano gli architetti del grandioso disegno di prosperità e pace
che negli ultimi anni s'è dispiegato, inesorabile e imprevisto, sotto i nostri
occhi. Il suo nome, pronunciato da alcuni con disgusto, da altri con noncuranza,
ma da pochi con la devozione e il rispetto che merita, è: globalizzazione.
Le improvvisate carovane di mercanti nel Nepal, i
pescatori guardinghi che battono le coste cinesi, le catene di montaggio
logaritmiche del Midwest americano - sembra che non abbiano in comune niente,
che siano frammenti di realtà destinati a non capirsi, a non comunicare. Gli
eroi silenziosi della globalizzazione hanno rivoluzionato la nostra epoca,
laddove c'era l'abisso si sono inventati un dialogo, ci hanno messi l'uno
innanzi all'altro, ci hanno restituito (dopo il “secolo del male”) la nostra
umanità.
Certo, guadagnavano bene, facevano profitti. Ma
questo lavoro, inestimabile, ha ricevuto solo un'approvazione singhiozzante e
estemporanea dal resto del pianeta. Qualcuno s'è inventato la lotta di classe,
qualcun'altro ha marciato sulla natura diabolica del profitto, altri hanno
coltivato le loro ambizioni di controllo e di potenza a spese della nostra
libertà. E ideologi, politici, attivisti che sparano sulla globalizzazione si
rivelano inesorabilmente più popolari e più amati di chi invece che sparlarne,
giorno per giorno, la costruisce.
L’altro giorno sulla “Stampa”, con la sua
prosa sapida e cubista, Massimo Gramellini ha tessuto le lodi, in controluce, di
una cultura, quella islamica, che non conoscerebbe la schiavitù dei beni
materiali. Sarebbe facile ribattergli che la vita umana, dopotutto, è il bene
più “materiale” che ci sia.
La verità è che senza il capitalismo, senza
quest'ossessione del progresso materiale, senza la forza rivoluzionaria del
libero mercato oggi staremmo ancora a trastullarci con il carro e la ruota -
oppure saremmo ridotti a protagonisti di una guerra continua. Come Benjamin
Constant e Ludwig von Mises c'insegnano, una delle più straordinarie conquiste
della libertà economica è il suo sottrarre spazio alla lotta armata, ridurre
la guerra a una parentesi della nostra esistenza.
Gli inquilini operosi del World Trade Center
facevano il possibile perchè quella parentesi fosse presto, definitivamente,
chiusa. L'undici settembre ha ricordato al mondo che siamo nel mezzo di uno
scontro delle civiltà, ma l'esperienza dimostra che questa è una battaglia che
non si vince con le bombe. Lo strapotere militare occidentale non è in
discussione - ma nelle aule d'università, nei convegni scientifici, nelle
stanze dei bottoni da anni ci viene insegnato a spergiurare la nostra cultura, a
dimenticare le ragioni del nostro essere, a sputare sul perchè del nostro
progresso.
La Nato, anche volendo, non può farci nulla, lo
scontro delle civiltà è una partita che si gioca su un altro terreno: possiamo
vincere solo tenendo alta quella fiaccola che gli infaticabili globalizzatori
delle Twin towers consegnano, idealmente, a tutti noi. La fiaccola della libertà.
tratto da Il Corriere della Sera
L'eresia
libertaria: i cittadini si difendano da soli
di
Carlo Stagnaro
Dopo l'11 settembre molte cose sono cambiate. Tutto ha un gusto, un sapore, un
odore diverso. La gente ha paura. Inutile nasconderselo. E la paura, si sa, è
la migliore amica dell'incoscienza. Il timore di nuovi attacchi terroristici ha
spinto molte persone a chiedere protezione al governo. E l'unica moneta che
questi sia disposto ad accettare in cambio è la libertà. Libertà in cambio di
sicurezza - temporanea, illusoria. Sembra un buon baratto. Sembra. Anche se
nelle orecchie continua a risuonare l'antico monito di Benjamin Franklin:
"Colui che è pronto a scambiare la libertà con la sicurezza, non merita né
l'una né l'altra". Fortunatamente, le sirene dello statalismo non sono
invincibili. Molti sanno come combatterle. Prendete Daniel New, per esempio,
instancabile attivista conservatore, ha recentemente scritto: "Dobbiamo
dichiarare guerra ai terroristi, e il modo più economico ed efficace di farlo
è incoraggiare tutti gli uomini ad armarsi, ad addestrarsi nell'uso delle armi,
a munire ogni casa di un fucile e di una pistola per l'auto-difesa, e a
insegnare a maneggiare le armi ai bambini, a partire dall'età di sei anni. Ecco
come una nazione può farsi conoscere per i suoi bassi livelli di crimine e per
la sua rapida capacità di rispondere al terrorismo e alla tirannia".
Il bello è che New non è il solo a pensarla così. L'America è un grande
paese proprio per questo: perché i suoi anticorpi non nascono dal governo.
Perché i suoi cittadini non sono una massa di straccioni, sempre pronti a
prostrarsi e mendicare spazio sotto l'ombrello dello stato. Guy Smith, autore di
"Gun Facts", esorta i suoi e i nostri concittadini a rimboccarsi le
maniche, ad assumersi la responsabilità di badare a se stessi, a non delegare
ciò che ogni individuo che si rispetti dovrebbe custodire gelosamente. Ecco
allora i tre passi che egli suggerisce di compiere. Primo: far approvare in
tutti gli stati americani leggi che permettano il porto occultato di armi da
fuoco. Laddove questo è accaduto, la criminalità ha subito un calo, perché i
cittadini onesti hanno approfittato dell'occasione e finalmente hanno ottenuto
il permesso di difendersi. D'altronde, è proprio questo l'argomento della più
corposa ricerca svolta negli Stati Uniti: quella pubblicata da John Lott con il
significativo titolo di "More Guns, Less Crime". Secondo: permettere
ai cittadini di detenere armi militari. In questo senso, può essere utile
citare Jeffrey Snyder. Molti desiderano privare i comuni mortali delle armi
militari, egli sostiene, ma ben pochi chiedono le stesse misure per la polizia.
Come mai? "Il bando alle armi d'assalto - è la risposta del saggista
newyorkese - non rappresenta un progresso né criminologico né morale, ma
l'irresponsabilità e la mancanza di quella fede e fiducia nei nostri
concittadini che è, in fin dei conti, ciò che intendiamo per comunità. Il
bando è sbagliato non solo perché priva gli innocenti della loro libertà, ma
anche perché è un voto di sfiducia verso il carattere della gente".
Terzo: esportare il secondo Emendamento, ovvero la norma della Costituzione
americana che tutela il diritto di portare armi. Oggi, infatti, la maggior parte
degli stati impedisce o limita tale possibilità. Non bisogna, insomma, imporre
la propria idea di libertà all'universo mondo; piuttosto, è necessario aiutare
quanti, nei propri paesi, si battono per riconquistare quegli spazi di libertà
che lo stato ha sottratto ai cittadini.
L'America è stata vittima, poche settimane fa, del più grave attentato
terroristico della storia. Eppure questi terroristi hanno ucciso molte meno
persone del più sfigato degli stati nella più sfigata delle guerre. Il paese a
stelle e strisce ha mostrato di saper cadere in piedi, e di avere una fortissima
carica che deriva proprio dalla libertà dei suoi cittadini. Chiediamoci: se
fosse successo a noi, come sarebbe andata a finire? Ci staremmo preparando a una
risposta decisa e giusta, ci staremmo prendendo le nostre responsabilità,
individuali e collettive? Oppure staremmo piangendo scompostamente, implorando
qualcun altro di scatenare una guerra idiota, pregando il governo di aumentare
le tasse ma intensificare i controlli? La risposta a questa domanda può dirci
se nel nostro futuro c'è la libertà o il suo contrario.
8 ottobre 2001, tratto da Ideazione.com
di Stefano Magni
Anche se in Europa Huntington e i suoi studi vengono sempre considerati un punto
di riferimento negativo, o al massimo l'oscura profezia di un paranoico,
cerchiamo di capire l'attuale situazione internazionale, dopo gli eventi dell'11
settembre, alla luce dell'ormai citatissimo - ma come spesso accade poco letto -
"Lo scontro delle civiltà" (in Italia pubblicato da Garzanti e ora
disponibile in edizione economica a 25mila lire).
Tale scontro, secondo Huntington, deriva dal differente rapporto fra religione e
istituzioni politiche in Occidente e nel mondo islamico: l'Occidente è
caratterizzato dalla separazione fra stato e chiesa ed è questo il motivo
fondamentale dello sviluppo della libertà individuale in Occidente; nel mondo
islamico, la religione e la politica si fondono in una visione universalista: la
legge islamica deve dominare ovunque nel mondo, anche con la forza. Il fenomeno
politico dell'espansionismo islamico è diventato evidente dopo la rivoluzione
di Khomeini del 1979 e si è affermato come corrente trasversale in tutto il
mondo musulmano man mano che altri modelli (quello comunista sovietico,
soprattutto) cessavano di costituire un punto di riferimento per gli stati
arabi. E' l'espansionismo dell'Islam, secondo Huntington, la matrice principale
di tutti i conflitti post-Guerra Fredda. La nuova linea di tensione
("faglia" nei termini del professore di Harvard) è il lungo confine
del mondo islamico. Negli anni Novanta, due guerre nei Balcani (Bosnia e Kossovo,
oltre alla tensione in Macedonia), il riaccendersi della guerriglia ai confini
di Israele, la guerra in Cecenia e in Tadjikistan, la tensione nucleare fra
Pakistan e India, la guerriglia nello Xinjang, la repressione a Timor Est, la
guerriglia nelle Filippine, il continuo massacro dei cristiani nel Sudan, tanto
per citare i casi più noti all'opinione pubblica, dimostrano drammaticamente
che Huntington non aveva torto: tutti i confini dell'Islam sono insanguinati.
Non serve rimproverare a Huntington di essere troppo grossolano nelle sue
analisi e di non considerare le differenze, anche notevoli, che esistono fra
paesi islamici e che in questi giorni si stanno evidenziando. La grande onda
islamica, quella che Huntington analizza, è un fenomeno di lungo periodo,
rintracciabile anche in queste settimane se si effettua un'analisi comparativa
del comportamento dei paesi arabi oggi e dieci anni fa. Allora, in occasione
della Guerra del Golfo, Bush senior mise in piedi una coalizione di stati
islamici, estesa a quasi tutti i paesi della Lega Araba, senza incontrare
opposizione e in brevissimo tempo. Ora, a tre settimane dall'11 settembre, il
massimo a cui può aspirare suo figlio è la benevola neutralità di quegli
stessi paesi, nonostante la fortissima ostilità anti-americana delle loro
popolazioni. Né serve, per demolire l'analisi di lungo periodo di Huntington,
puntualizzare che questi attentati sono strumentali a una lotta di potere
interna all'Arabia Saudita: l'ostilità nei confronti dell'Occidente di chi ha
scatenato questa lotta di potere è fin troppo evidente, soprattutto dopo l'11
settembre.
Il rimprovero a Huntington di essere un imperialista è dovuto solo a una
cattiva lettura dei suoi testi. Ciò che il professore di Harvard suggerisce è
una strenua difesa dei confini dell'Occidente (gli avamposti dei quali, nel caso
del confine con l'Islam, sono l'Europa mediterranea, la Turchia e Israele), non
una loro espansione. Difesa che permetterebbe una migliore convivenza fra civiltà,
ma che può diventare possibile solo se prendiamo atto che la differenza fra
civiltà esiste. Già il tentativo di mettere in piedi una generica coalizione
"anti-terroristica", che comprenda anche paesi islamici per installare
basi militari sui loro territori, può essere controproducente, da questo punto
di vista. L'unica cosa che effettivamente si può rimproverare a Huntington,
semmai, è il suo pessimismo estremo nei confronti di una possibile
"occidentalizzazione" del mondo islamico. Uno stato laico, di tipo
occidentale, tuttora regge in Turchia e spinte occidentalizzanti resistono in
tutti i paesi islamici. Si spera che il professore di Harvard si sbagli a
considerare definitivamente sconfitta questa tendenza.
8 ottobre 2001, tratto da Ideazione.com
di Carlo Stagnaro
tratto
da Ideazione.com
La guerra è la salute dello stato. Nella storia, ai grandi movimenti bellici
corrispondono sempre sottrazioni di libertà ed espansione degli apparati
pubblici. Naturalmente, tutti i provvedimenti sono presentati come
“temporanei” o “di emergenza”; puntualmente, però, essi diventano la
regola immutabile. Anche in questo tragico frangente, la minaccia di restrizioni
alla libertà di espressione si è affacciata come soluzione a breve termine al
problema del terrorismo. E’ evidente che, in un quadro estremamente complesso,
molti occhi si concentrano su Internet e - c’è da crederlo - i falchi del
totalitarismo tenteranno di sfruttare al massimo il momento per introdurre
regolamentazioni, censure, divieti. E’ un bene, allora, che il presidente
americano sia un Repubblicano; tutti i periodici “di area”, infatti, si sono
affrettati a stabilire che “il Bill of Rights non si tocca”. Sono molti,
insomma, a chiedere estrema moderazione e rispetto della libertà individuale;
non è punendo i cittadini onesti che si impedisce ai terroristi di agire. Come
osserva Dave Kopel, “le attuali leggi consentono già di esercitare una
stretta sorveglianza [sulle email e sulla rete], purché vi sia un preciso
mandato. Non vi è alcun bisogno di abbandonare tale requisito”. A fargli eco
è Lew Rockwell: “Cosa deve fare il governo in tempi di crisi, allora? Di
meno, non di più”.
Se dunque l’America mostra di avere gli anticorpi necessari per almeno tentare
una resistenza all’ondata statalista, purtroppo in Italia le cose sono più
difficili. Il colonnello Rapetto ha recentemente citato Napster come possibile
mezzo di comunicazioni criptate (attraverso tecniche steganografiche, ovvero
nascondendo i messaggi dentro immagini apparentemente innocue) tra i terroristi.
Alessandro Luciano, Commissario dell’Autorità per le garanzie nella
comunicazione italiana, ha sostenuto che anche a Internet deve essere applicata
“la necessità di restrizione di alcuni diritti e libertà fondamentali,
propriamente giustificata e proporzionata in relazione a obiettivi di pubblica
sicurezza”. Ora, le dichiarazioni di Rapetto sono presto smentite da un
recentissimo studio di Niels Provos e Peter Honeyman dell'Università del
Michigan. “Seguendo le indicazioni di stampa che affermavano l'esistenza di
messaggi nascosti dei terroristi dentro files grafici su eBay - ha scritto
Massimo Mantellini - hanno analizzato due milioni di immagini scaricate dal sito
di aste americano. Due milioni, non qualche centinaio. Si tratta di un lavoro
accurato, liberamente accessibile online che per qualche strana ragione trova
poca eco sui giornali americani che in questi giorni si occupano di
steganografia: eppure si tratta di uno studio recentissimo (31 agosto 2001) e di
grande attualità. Con un piccolo difetto: dentro le due milioni di immagini
scaricate da ebay, Provos e Honeyman non hanno trovato alcun messaggio
nascosto”.
Più insidiose sono le parole di Luciano. Egli, in sostanza, presenta Internet
come mezzo di comunicazione privilegiato dei terroristi. Indubbiamente, questi
possono aver utilizzato l’email (e anche la posta normale, il telefono, il
fax, il telegrafo, i segnali di fumo…). Tuttavia, questa non è una buona
ragione per porre pesanti limitazioni alla rete tutta, ovvero ai milioni di
cittadini onesti che la utilizzano per diffondere e ricevere informazioni.
Ammonisce Paolo De Andreis: “Si rifletta dunque su come ostacolare i
terroristi e le azioni di inconcepibile violenza di cui hanno dimostrato di
essere capaci ma nel segno di quanto ha indicato uno dei più saggi “padri”
di Internet, Vint Cerf: si punti sulle libertà di internet, perché da lì
viene una forza travolgente. Una forza di cui in questo momento nessuno può
fare a meno”.
Non bisogna in alcun modo permettere che la guerra fornisca la giustificazione
ai politici per sottrarre la libertà ai cittadini. I diritti individuali
meritano di essere difesi: dai terroristi privati come dai professionisti
dell’anti-terrorismo. Anche perché, spesso, nel calderone delle leggi
“eccezionali” vengono mescolati strumenti punitivi che prima si era tentato,
invano, di approvare secondo le procedure ordinarie. Soprattutto, bisogna
impedire che gli stati allunghino le proprie mani sulla rete. Questo terreno non
è loro, su di esso non possono vantare alcun diritto. Essi, “stanchi giganti
di carne e acciaio”, hanno costruito un mondo intriso di sangue, e hanno
cinicamente perseguito la guerra per ingrandire i propri poteri e il proprio
dominio. Ora tentano, altrettanto cinicamente, di distruggere Internet, perché
non possono controllarla. “Questi provvedimenti sempre più ostili e coloniali
- recita la famosa Dichiarazione di Indipendenza del Ciberspazio di John Perry
Barlow - ci mettono nella stessa posizione di quei precedenti amanti della
libertà e dell'autodeterminazione che hanno dovuto rifiutare le autorità di
poteri distanti e disinformati. Dobbiamo dichiarare le nostre identità virtuali
immuni alla vostra sovranità, pur continuando a consentirvi di governare sui
nostri corpi. Ci diffonderemo attraverso il pianeta così che nessuno potrà
arrestare i nostri pensieri. Noi creeremo una civiltà della mente nel
ciberspazio. Possa essa essere più umana e onesta del mondo che i vostri
governi hanno prodotto in precedenza”.
IL
CASTELLO DELLE IPOCRISIE
di Angelo Panebianco tratto da Il
Corriere della Sera
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Giovedì 20 settembre 2001 |
L’internazionalismo
khomeinista |
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Islam: con angoscia vediamo le immagine infernali del gelo lunare di Manhattan e intanto sentiamo che c'è della logica in quella follia e questa logica ci porta all’Islam. Non perché ce la vogliamo portare noi, ma perché si professano islamici gli estimatori della strage di New York e di quelle che l’hanno preceduta. Molte anime belle e candide, soprattutto della sinistra, ci vengono a dire che non è vero, che l’Islam è altro, che le vere cause vanno ricercate in Palestina, che in fondo gli Usa se la sono cercata, che stiamo operando razzismo religioso. Alibi, al solito, non solo per non agire, ma anche per non pensare, anche se, come tutti gli alibi, contengono una verità, ma parziale. Il punto è questo: così come in Russia, nel 1917 il pensiero politico occidentale fece da levatrice della rivoluzione bolscevica guidata da Lenin, così nel 1979 nell’alveo del pensiero politico islamico, nacque uno scisma che, sotto la guida di Khomeini vinse la rivoluzione in Iran. Da allora, da quella formidabile rottura che fu non solo statuale, ma culturale e politica, per centinaia di milioni di fedeli musulmani si aprì la possibilità di “fare come in Iran”, esattamente come per centinaia di milioni di europei negli anni venti si era aperta la prospettiva di “fare come in Russia”. Come Lenin, Khomeini ha costruito un modello nuovo di Stato, ha vinto contro un nemico apparentemente imbattibile; come Lenin, Khomeini ha avuto sin da subito il problema di esportare una rivoluzione che non poteva e non può che essere internazionale. Come Lenin e Trotsky sconfitti davanti a Varsavia, Khomeini ha visto bloccata nelle paludi dell’Irak l’immediato tentativo di esportare la rivoluzione per via statuale, usando degli eserciti, ed è dovuto ripiegare sull’appoggio sfrenato del proselitismo politico, sulla costruzione di “partiti fratelli”. Di converso, paradossalmente, Saddam Hussein ha goduto di questa capacità di contenimento dell’espansione della rivoluzione islamica iraniana, guadagnandoci addirittura la sopravvivenza fisica e politica, anche dopo la rovinoso sconfitta seguita all’invasione del Kuwait. In altro contesto, non dissimile fu la ragione che permise a Hitler, sino a tutto il ‘39, di godere di un esplicita simpatia nelle democrazie europee per la sua capacità di ergersi come muro contro l’espansione sovietica e comunista nel continente. Da 22 anni, insomma, nell’alveo culturale e politico dell’Islam -che è un tutt’uno con quello religioso: il termine “laico”, per un musulmano è un non senso o una bestemmia- agisce una formidabile spinta rivoluzionaria che ha infiammato le menti della “Umma”, la comunità dei credenti, e si è espansa a macchia d’olio. Con un di più, rispetto all’esperienza della componente rivoluzionario-comunista vissuta dall’Europa nel 20° secolo: un’estrema duttilità organizzativa. Ultraminoritaria, l’esperienza rivoluzionaria leninista si è da subito arroccata e perpetuata nella rigidità di involucri partitici sclerotici e settari. Non così la proposta rivoluzionaria islamica: forte dell’assenza di una chiesa strutturata e della rete capillare e vivissima delle moschee, il “partito di Dio” si è propagato con la rapidità di un incendio nella prateria, non solo nella componente sciita dominata dalla figura di Khomeini, ma anche in quella sunnita, in tutte le sue ulteriori frantumazioni, inclusa quella wahabita al potere in Arabia Saudita. Infine,
ma solo infine, è arrivata in Palestina, là dove la tradizionale
dirigenza dell’Olp (stranamente tutti sembrano oggi dimenticarlo) si è
in un primo momento schierata contro la Rivoluzione iraniana (appoggiando
Saddam Hussein durante la guerra dall’80 al 90) ed è sempre e comunque
stata aconfessionale, di ispirazione socialisteggiante o addirittura di
estrazione cristiana, soprattutto nelle sue frange estremistiche e
terroristiche del Fplp o del Fdlp di Habbash e Hawatmeh. Ma il disastro
non è solo in questa espansione di una corrente rivoluzionaria (peraltro
assolutamente scismatica e per alcuni hayatollah iraniani autorevolissimi
come Shariat Madari addirittura eresiaca rispetto ai canoni dell’Islam)
che attraversa l’Asia e tutto il Magrebh (sino a portare l’Algeria,
oltre le soglie della guerra civile). Così come i palestinesi di Hamas -dopo che per decenni lo stesso Arafat l’ha proclamato, salvo poi correggersi in extremis- vogliono ricacciare gli ebrei di Israele a mare, così i rivoluzionari islamici ovunque vincano (in Sudan, in Afganistan o nelle zone che controllano in Indonesia, nelle Filippine o in Algeria) negano -come mai hanno fatto gli stati islamici storici- le altre religioni, anche quelle “del Libro”, l’ebraica e la cristiana, distruggono simboli e persone che rappresentano i valori dell’occidente. Questo è il punto: per la prima volta l’occidente, la cultura dell’occidente, i valori dell’occidente, hanno trovato un antagonista, un antigene, un avversario feroce in uno strano Islam, che ben poco ha a che fare con quello storico (tranne che con la piccola setta degli Ashashin, del Vecchio della montagna che condizionò varie corti di sceicchi a Damasco e Bagdad coi suoi sicari). Un Islam estremo che non coinvolge tutte le centinaia di milioni di musulmani, ma una forte, combattiva, crescente minoranza fra di loro, sino a lambire -e preoccupare- dopo tutte le ex repubbliche sovietiche e la Russia, impantanata nel disastro ceceno, anche la Cina tuttora comunista. E’ devastante il terrorismo materiale che questo Islam sa sviluppare, ma altrettanto devastante è il terrorismo culturale e ideologico che lo ispira. Con un di più: questo Islam scismatico e rivoluzionario è stato incubato proprio nei due paesi del “terzo mondo” in cui maggiormente l’Occidente ha investito in cultura, in esportazione diffusa di sapere e di valori. Al momento del trionfo della rivoluzione khomeinista centinaia di migliaia erano già gli iraniani laureati nelle migliori università dell’occidente: ad Harvard, Londra, Berlino, Milano. Gli ayatollah di Khomeini hanno quindi immediatamente fuso il contenuto politico antioccidentale del loro Islam con gli altissimi contenuti tecnocratici e tecnologici posseduti da migliaia e migliaia di giovani iraniani che hanno costituito e costituiscono l’ossatura governante della Repubblica islamica. In un altro contesto, una meccanica simile si è sviluppata in Algeria là dove la dirigenza islamica del Fis ha trovato seguito e proseliti soprattutto tra le migliaia di quadri, ingegneri e tecnici formati dalla Francia per l’industria petrolifera e di base. Le bandiere verdi dell’estremismo islamico sventolano oggi ad Algeri e Teheran sul sepolcro della pia illusione illuministica che vuole che la diffusione del sapere tecnologico occidentale porti con sé, per chissà quali vie, anche la diffusione dei valori culturali, sociali e democratici dell’occidente. Con lenta maturazione e qui -ma solo qui- gioca un ruolo la questione palestinese, un ruolo di accelerazione, non altro, l’Islam khomeinista passa dalle forme di lotta non violente con le quali si è imposto (nessuno lo ricorda, ma nei 15 mesi di rivoluzione islamica Khomeini diede la consegna di subire la morte, mai di darla) alla Jihad, la guerra Santa e poi alla pratica diffusa dell’attentato suicida (paradossalmente mutuata dai propri avversari interni: l’ayatollah Beheshti con metà dei leader iraniani furono uccisi da kamikaze, il successore di Khomeini, Khamenei, è scampato per miracolo, gravemente mutilato, alla stessa fine). Inarrestabile, la militanza dell’estremismo islamico, fonde anno dopo anno la propria volontà di annientamento della civiltà occidentale, con crescenti capacità tecnologiche per perseguirla. Crescono e si diffondono i gruppi terroristici perché cresce e si diffonde la loro presa di massa, fino a quando non riescono a compiere il grande salto, mai riuscito prima nella storia: far uscire l’atto terroristico dalla marginalità della simbologia colpita e moltiplicarne per mille gli effetti scatenando sul simbolo da annientare una potenza di fuoco pari a quella di un atomica. Straordinario è lo sconcerto di tutti per l’incredibile inefficienza di cui hanno dato prova la Cia e l’Fbi a fronte dei terroristi, ma ancora più straordinario dovrebbe invece essere lo stupore per l’incapacità delle cancellerie occidentali, dal ‘79 in poi di seguire la nascita e l’affermarsi dell’unico “pensiero forte” dopo quello hitleriano, che punta, né più, né meno, alla fine dei nostri valori. Questo c’è dietro all’attentato alle Twins Towers. Questo è quello che moltiplica per mille la paura. C’è un’unica scusante a questa paradossale incapacità dell’Occidente addirittura di riconoscere i propri potenziali assassini: il petrolio. Immaginate cosa sarebbe successo, quale sarebbe stata la storia dell’Europa, se la Russia di cui si impadronì Lenin nel ‘17 fosse stata detentrice del monopolio assoluto del carbone e del ferro in Europa, se tutte le nazioni Europee, per crescere e svilupparsi avessero dovuto comprare carbone e ferro dagli ayatollah del Cremlino, così come tutto il mondo per la propria energia e le proprie materie prime chimiche è costretto a comprare petrolio proprio dai paesi in cui è nata, si è radicata e si si sviluppa l’estremismo islamico. Questo invece deve fare l’occidente: commerciare petrolio con i paesi che incubano forze, sia pure marginali, che vogliono distruggerlo. “Non olet” diciamo tutti da venti anni a questa parte davanti al petrolio e paghiamo fior di migliaia di miliardi o direttamente agli estremisti islamici, o a regimi apparentemente nostri sodali, che però sono corrotti e minati dalla pressione estremista islamica dei loro popoli, tanto che finanziano i vari hezbollah, i vari “partiti di Dio” in mille forme. Oggi ci accorgiamo che le cose sono andate tanto avanti che qualcuno ci ha dichiarato la guerra. Ma non sappiamo neanche chi sia questo qualcuno. Né che guerra sia. tratto da L'Opinione |
Sabato 29 settembre 2001 |
Il
pensiero unico filotalebano |
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Caro direttore, discutere della superiorità dell'Occidente (cristiano, protestante, pagano o ateo) al mondo islamico è trastullo solo per intelletti in perfetta malafede, come quelli di sinistra, o da inutili idioti, come certi destri nostalgici dell'anti anglo-americanismo tipo "perfida Albione" dell' anti semitismo e del corporativismo sociale. Proponiamo allora a Rossana Rossanda o alla Rosy Bindi, nonché alle donne politically correct di destra che strepitano contro la presunta gaffe di Berlusconi, di andare a vivere per qualche giorno, a scelta, tra talebani, sauditi, siriani o iraqeni, perché se ne rendano conto. Scommetto che dopo qualche giorno con il chador a mangiare in una scodella insieme agli altri "animali" non lo troverebbero più così esotico e pittoresco. Questa
gentarella che guarda dall'alto in basso gli americani grassi che mangiano
hamburger e patatine, mentre adora la silhouette perfetta di Osama e dei
suoi guerrieri così machi, "belli e impossibili". Sapessi
quanti ne ho dovuti sorbire, anche in questi giorni drammatici, nei
salotti bene di Roma o nelle cene delle terrazze centrali della capitale,
fare simili "discorsi del cazzo". E' tutto un disquisire sulla
decadenza dell'America sul comportamento aggressivo di Israele e via
dicendo. Confesso che ho amici e conoscenti tra queste persone. Perché
allora poi stupirsi delle imboscate in Parlamento? Io da parte mia per
quieto vivere evito accuratamente di parlare con loro di politica a
tavola, perché altrimenti la voglia di buttare il piatto per terra e
andarmene via quando sento questi discorsi sarebbe incoercibile.. Non parliamo poi se si muove l'argomento Israele: vagli a spiegare a sinistri e destri che quella è l'unica democrazia del Medio Oriente. Per loro esiste solo il diritto dei palestinesi (che detto per inciso all'epoca di Mussolini erano alleati di Hitler) che stavano "in quella terra prima di loro". E anche questo non è vero. Detto ciò per una volta nella vita mi è capitato di trovarmi d'accordo persino con Baget Bozzo, l'ex "cappellano della partitocrazia", come lo chiamava Pannella ai tempi di Craxi: i comunisti sono sempre comunisti. E odiano talmente il capitalismo da preferirgli persino l'estremismo islamico, purché rivoluzionario. Qualcuno vada a rileggersi per rendersene conto i titoli trionfalistici di "Lotta Continua" nel 1979, il giorno della cacciata dello Scià da Teheran e del ritorno rivoluzionario dell'ayatollah Khomeini da Parigi. Purtroppo i cervelli di sinistra ( e di buona parte della destra cosiddetta "sociale") sono fatti così e le conseguenze si vedono. Poi dice che uno si rifugia tra i radicali... tratto
da L'Opinione |
di Giordano Bruno Guerri
tratto da il Giornale, Martedì 25 Settembre 2001
Più di quattro anni fa scrissi sul Tempo (mi è buon testimone il direttore di questo giornale, che allora dirigeva il quotidiano di Roma) un articolo che da ogni parte mi venne rinfacciato come "razzista" e "intollerante". Sostenevo - né ho cambiato idea - che l'islamismo è una religione aggressiva e senza rispetto verso gli "infedeli"; e che dunque l'Italia, nell'impossibilità di accogliere tutti gli emigranti che vorrebbero trasferirsi da noi, dovrebbe avere l'accortezza di limitare il più possibile l'accesso dei popoli appartenenti a quella religione. Ebbi solo la consolazione, l'anno scorso, di leggere le dichiarazioni dello stesso tono da parte del cardinale di Bologna Giacomo Biffi, sia pure da un punto di vista più religioso che politico. Su Biffi piombarono le stesse accuse di razzismo e intolleranza, oltre che di fanatismo religioso. Ora che è apparso chiaro da quale parte stia il vero fanatismo, il presule è tornato all'attacco in un silenzio più rispettoso ma ancora lontano dal raccogliere i consensi che meriterebbe. Lascio ai credenti la riflessione al suo richiamo all'obbligo, per un cristiano, di predicare il Vangelo anche ai mussulmani, obbligo che l'attuale politica ecclesiastica lascia cadere in favore di un dialogo purtroppo monodirezionale. E' bene invece che credenti, non credenti, e soprattutto i nostri governanti comincino a riflettere su una realtà che, in quanto tale, non è né tollerante né intollerante, né razzista né antirazzista: visto che in Italia non c'è posto per tutti coloro che vorrebbero venirci a vivere e a lavorare, è un semplice dovere di buongoverno selezionare gli immigrati in base alla loro possibilità di integrarsi presto e bene nella nostra vita sociale. In mancanza di una simile regolamentazione, da noi continueranno a prevalere la vicinanza geografica e soprattutto la prepotenza dei clandestini dell'emigrazione che, non a caso, sono per lo più di religione mussulmana. Come di religione mussulmana sono gli autori di gran parte dei delitti e i protagonisti della nuova criminalità diffusa. (Non risulta che indiani e filippini, per citare soltanto due esempi, abbiano mai creato problemi del genere in Italia.) Senza voler criminalizzare con questo interi popoli, non c'è dubbio che l'aggressività mussulmana, anche quella spicciola, sia destinata a aumentare nel nostro Paese, dopo quello che è accaduto in America e tanto più dopo quello che accadrà nei prossimi giorni, settimane, mesi. Allo stesso modo non c'è dubbio che, in mezzo a tanti lavoratori, fra i musulmani siano arrivati anche terroristi finora (per quanto?) inattivi, e che nel numero dei loro correligionari trovino più o meno consapevole copertura e proseliti. Gli Stati Uniti, che hanno sempre dato prova di tolleranza, certamente prenderanno misure restrittive verso l'afflusso di popolazioni che arrivano con il Corano in mano e spesso - nel cuore - odio e disprezzo verso civiltà che giudicano corrotte, deboli, femminee e da convertire costi quello che costi. Non vedo perché non dovremmo farlo anche noi, centro di una religione ormai pacificata e al centro geografico dell'uragano che si sta per abbattere sul mondo.
Giordano Bruno Guerri
di Ida Magli
da il Giornale, sabato 15 Settembre 2001
Sentendo i commenti che vengono fatti riguardo all'attacco all’America, ci si rende conto che, malgrado qualche avvertimento sulla necessità di riflettere sul mondo islamico, le interpretazioni sono del tutto inadeguate. Il motivo di questa inadeguatezza nasce in pratica da un solo fattore: il rifiuto dell’Occidente di capire che il proprio modo di vivere, i propri costumi, i propri valori, non soltanto non sono giusti in assoluto, ma non possono essere assunti da altri popoli. I nostri politici, sia in Europa che in America, annegano da anni in un mare di retorica sulla «pace», sull’«uguaglianza», sui «diritti dell’Uomo», con la convinzione che. nessun popolo e nessun individuo possa non essere d’accordo; ma si tratta di una convinzione priva di realtà e comunque dettata, anche se in buona fede, dall’indiscusso primato dell’Occidente. A nulla è servito tutto il sapere degli antropologi, accumulato in secoli di ricerche, sul «punto di vista dell’indigeno», come lo chiamava Franz Boas, indispensabile per capire la realtà della vita dei vari popoli. Se, viceversa, proviamo a mettere in atto il principio del «punto di vista» (sperando che nessuno voglia intenderlo come un tentativo di giustificazione di quello che è successo), dobbiamo per prima cosa smettere di definire con i nostri termini e i nostri concetti le azioni e i valori del mondo islamico.
Primo punto: noi chiamiamo «terrorismo» uccidere «civili», persone «innocenti», e quindi atti nefandi e non ammessi dal «diritto». Nel mondo islamico non esiste differenza fra diritto civile e diritto religioso, per cui chiunque appartenga all’Occidente satanico, nemico di Allah, può e deve essere ucciso.
Secondo punto: non esiste il concetto di un «tempo di
pace» perché il fedele di Allah ha l’obbligo di comportarsi sempre come
tale, e di lavorare per la vittoria di Allah in qualsiasi tempo e in qualsiasi
luogo. L’errore gravissimo che da tanto tempo compie l’Occidente è quello
di trasferire il concetto di «fanatismo», di «integralismo» al mondo
islamico, e di considerare una specie di quello che noi chiamiamo «schegge
impazzite», i terroristi. Non sono tali e se non ci sbrighiamo a comprendere e
a comportarci di conseguenza, tutta l’Europa sarà presto nelle loro mani.
Come si può credere che esista questo tipo di personaggio hollywoodiano che,
essendo un miliardario ha l'hobby di organizzare atti terroristici? Questo è un
tipico modo di rappresentazione occidentale, ma possiamo esserne certi - nessuno
appare più imbecille di noi agli occhi musulmani. Tutto il mondo islamico
lavora da anni per la conquista dell’Occidente, stabilendo la sua base in
Europa, sia inviando migliaia di fedeli, organizzandone i viaggi e erigendovi
moschee; sia facendo studiare nelle Università europee e americane le proprie
classi dirigenti che (se lo metta bene in mente la Chiesa) non soltanto non si
convertono mai al cristianesimo, ma viceversa operano con sempre maggiore
successo nel convertire i cristiani all’islamismo.
Punto terzo. E ‘da molto tempo, ormai, che gli organizzatori della conquista dell’Occidente fanno in modo che l’attenzione sia tutta concentrata sulla questione palestinese, ma si tratta di un’astuzia, dolorosa quanto si vuole, ma un’astuzia, nella quale sono stati stupidi gli occidentali a cadere. Il problema ebraico sarà drammaticamente più grave quando i musulmani avranno raggiunto il predominio in Europa. E' questo il vero pericolo, e l’Unione europea, con i suoi confini che non esistono, il suo sudorientalismo, il suo favore verso l’Africa, che è già quasi tutta musulmana, ha reso estremamente più facile questo predominio. Chi può pensare che l’esistenza della più grande moschea d’Europa nel quartiere d’elite di Roma, non ne rappresenti già il simbolo concreto?
Punto quarto. Noi ce li rappresentiamo sempre come dei
poveri, ma nulla è più sbagliato. I loro Paesi sono ricchissimi, perché
possiedono il petrolio e le pietre preziose.
Se non investono le loro ricchezze nel benessere sociale è proprio perché sono
tutti d’accordo coni loro governanti nel voler far vincere Maometto,
concretamente impadronendosi dell’Europa e, attraverso l’Europa,
distruggendo il modo di vivere americano. Siamo noi degli ingenui a pensare che
ci invidino. Non ci invidiano affatto, anzi. Vedono con occhi privi del velame
occidentale dei poveri maschi imbelli, assillati dalla puntualità e dalla
fretta, le cui donne li comandano, li abbandonano, se ne vanno in giro nude come
prostitute e gli fanno, quando va bene, un solo figlio; dei vecchi anch’essi
abbandonati, nella solitudine e nella tristezza degli ospizi e delle case per
anziani...
Dunque, adesso non c’è più tempo. Smettiamola di parlare con tutti la nostra lingua, nella presunzione che debba essere capita e accettata. Viene capita nel solo significato possibile: siamo deboli, privi di difese e dunque conquistabili. Abbiamo addirittura fatto nostro l’inverso del vecchio e sempre valido motto dei Romani: invece del «se vuoi la pace sii pronto alla guerra», diciamo: «Se vuoi la guerra, sii pronto alla pace». Ci siamo arrivati. A forza di parlare di pace, ci troviamo in guerra. L’attacco all’America dimostra che scorrono fiumi di denaro per pagare proseliti, connivenze, spie, traditori, insieme con esperti e strateghi di grandissimo livello. Non sono «martiri», altro termine nostro che non ha nulla a che fare con dei guerrieri: i martiri sono stati soltanto quei primi cristiani che «maravigliavano» il mondo perché rifiutavano le armi, non si difendevano, andavano incontro alla morte senza alzare un dito. Sono combattenti abilissimi, per far fronte ai quali dobbiamo inventarci altri modi di fare la guerra.
TOLLERANTI,
MA NON CON GLI INTOLLERANTI
di Giordano Bruno Guerri
tratto da il Giornale, venerdì 21 Settembre 2001
Ma davvero dobbiamo avere verso l’islamismo, in questo momento storico, una tolleranza che in Occidente non abbiamo avuto neanche verso il cristianesimo? Le Chiese delle crociate, dell’Inquisizione, della Riforma e della Controriforma, delle guerre di religione, dei roghi di libri e di carne umana erano "integraliste", si direbbe oggi, come i musulmani di cui ci lamentiamo tanto e a ragione. Era integralista in particolare, la Chiesa di Roma, perché aveva la volontà, antica e medievale, di sovrapporsi agli Stati, di dettare anche le leggi civili, insomma di fondare tutta la vita e la vita di tutti sui testi sacri e sulle successive interpretazioni teologiche.
In Occidente le religioni cristiane sono state costrette a rinunciare a simili pretese dopo duri scontri culturali, politici, militari e da una serie di grandi fenomeni: la nascita della scienza moderna, che le Chiese giudicarono incompatibile con la religione; la rivoluzione industriale, con gli enormi mutamenti sociali che comportò; l’illuminismo, con la sua critica verso le fedi; la rivoluzione francese, che per la prima volta applicò il modello fideistico alla politica e non all’ultraterreno; la perdita del potere temporale da parte del papato. Di quest’ultimo evento - cioè il Risorgimento, tanto avversato da Pio IX - nel 1961 Giovanni XXIII ringraziò la Provvidenza perché aveva liberato la Chiesa cattolica da un peso terreno che inquinava il suo messaggio religioso, ma anche gli altri eventi accennati hanno avuto l’effetto di separare i percorsi degli Stati da quelli della fede. Niente di simile è accaduto nel mondo musulmano, o è accaduto in modo molto minore e incompleto. Di conseguenza anche quando grandi riformatori – come Ataturk in Turchia - cercarono di europeizzare in senso laico il loro Paese, l’integralismo islamico noh ha mai cessato di rinascere; ed è stato rovesciando una monarchia modernizzante che in Iran si è affermato quell'integralismo che da lì ha ripreso vigore in tutto il mondo musulmano.
L’islamismo insomma non è tanto e soltanto una religione "diversa" dalla nostra. E soprattutto una religione arretrata di secoli, rispetto alle religioni cristiane, nei suoi rapporti con gli Stati, i cittadini, i fedeli. Il mondo occidentale può accettare un simile dato di fatto finché riguarda, più meno gravemente, soltanto gli Stati musulmani. Invece non può e non deve tollerano quando la fede di non pochi individui e di qualche Stato vuole riportare l’Occidente indietro di mezzo millennio con aggressioni che, se sfociano nella politica e nell’economia, partono sempre dalla religione.
Per questo il prossimo attacco dell'Occidente all'integralismo terrorista avrà un senso e un risultato soltanto se riuscirà quanto più possibile a togliere il potere politico a quello religioso, per separare le leggi civili da quelle coraniche. Sarà una violenza, certo, ma necessaria come - e più di- quando Napoleone tolse la corona dalle mani del papa. La tolleranza a cui siamo arrivati con secoli di dolorose lotte fra laicismo e religiosità non deve renderci tolleranti con gli intolleranti.
Giordano Bruno Guerri
INTELLETUALI
PROFESSIONISTI DEL "MA": GLI AMERICANI SONO VITTIME, PERO'... di Gabriele Canè |
Oramai li
riconosci al primo «ma». E' il popolo dell'avverbio, dei
distinguo. Del dolore, «ma». Della riprovazione, «ma». Della
rappresaglia, «ma». Non saranno le tute nere di Seattle, i puri e duri
del no global. Di sicuro. Però, si trovano meglio con Agnoletto, che
con il direttore dell'Fbi; pensano che siano più dolorose le botte
prese dai dimostranti, che quelle subite dai poliziotti a Genova.
Insomma: tutta l'Italia piange le vittime del terrorismo, «ma» una bella fetta di italiani, intellettuali e gente comune, sotto le macerie delle Torri gemelle ritrova e rigenera il suo storico, inveterato, incrollabile antiamericanismo. Come dire: sono molto tristi per quanto è accaduto, ma sotto-sotto, silenziosamente e incofessabilmente, un po' ci godono. Ovviamente, non lo dicono. Anzi, se glielo fate osservare, si indignano. Figuriamoci. Salvo mettere avanti i soliti «ma». In base ai quali, l'aggressione è stata vile, «ma» quante ne ha fatte l'America! I morti sono da vendicare, «ma» quanti morti ha provocato l'America! Il terrorismo è da estirpare, «ma» è ora di smetterla anche con il terrorismo della Cia e dell'America! Per farla breve: facciamo pari con tutte le stragi a stelle e strisce dell'ultimno secolo, e smettiamola di criminalizzare questo povero mondo arabo che in fondo reagisce all'aggressione dell'Occidente. Fratelli che sbagliano. Bin Laden-Bush: 1 a 1 e palla al centro. Intendiamoci. Le critiche rivolte agli Stati Uniti sono spesso pertinenti. Lo Zio Sam, non è una damina di San Vincenzo. Né tantomeno un dispensatore disinteressato di gioia e libertà. Ha dato e continua a dare da mangiare a mezzo mondo, ma ha anche installato ed appoggiato regimi illiberali, compresi quelli islamici. Ha lanciato la bomba atomica. Ha colonizzato con la forza delle multinazionali le culture di quasi tutti i Paesi del mondo, pur non avendo una cultura sua, se non quella del Far West, della gomma da masticare e della famiglia unita (come da foto presidenziali) pur accumulando matrimoni e divorzi come le figurine dei giocatori di baseball. Nulla sfugge al suo ruolo di sceriffo del mondo, specializzato in Napalm e bombardamenti a tappeto. Tutto vero. Tranne due piccoli particolari. Primo. Queste «ignominie» vengono da un paese democratico, fornito di presidenti democraticamente eletti e altrettanto democraticamente cacciati quando hanno sbagliato (Nixon), inserito all'interno di alleanze democratiche, previo assenso degli organismi internazionali. Si può dire lo stesso dei bersagli della «barbarie» Usa? Come il tiranno Milosevic, sterminatore e guerrafondaio, o il rais Saddam, sanguinario dittatore che ha fatto certamente altrettante vittime con le repressioni interne, di quelle provocate dai bombardamenti e dagli embarghi? Secondo. Quanto accaduto in Jugoslavia, nel Golfo o negli ultimi mesi della seconda guerra mondiale, nulla ha a che fare con la strage dell'11 settembre. Che resta un crimine vigliacco contro gente innocente, consumato non nel corso di un conflitto, ma in tempo di pace. Che non rientra in alcuna compensazione di altri eventi già consegnati alla Storia. Insomma, che non ammette alcun distinguo. Che non giustifica i tanti, troppi, ipocriti «ma» di queste tragiche settimane. tratto da Il Giorno |
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We,
the Americans
di
Pierluigi Mennitti
Difficilmente noi occidentali possiamo arrivare a comprendere l'abisso di follia
che alberga nelle menti di uomini che pianificano e mettono in pratica massacri
come quelli di New York e Washington. Difficilmente il nostro modo di pensare da
occidentali può penetrare il buio profondo in cui quei terroristi sono immersi.
Non possiamo. Né dobbiamo. Non possiamo perché siamo figli di una tradizione
troppo diversa, fatta di libertà, di fiducia, di amore e anche di guerra, ma di
guerra leale, aperta che guarda in faccia il proprio nemico: quando può, dritto
negli occhi. Non dobbiamo perché quegli abissi, quel buio non è il nostro. E'
un buio che lotta contro di noi, contro la nostra civiltà. Non è conflitto,
non è contestazione, non è neppure guerra. E' barbarie. Vigliaccheria. Cinica,
sofisticata, elaborata, ma sempre barbarica vigliaccheria. Non abbiamo capito
l'Olocausto e la barbarie dei campi di concentramento nazisti. Non potevamo, né
dovevamo. Quel buio, quell'abisso sono tornati.
Da cinquant'anni il mondo occidentale vive in pace e benessere. E' la nostra
pace e il nostro benessere, beninteso. Lo abbiamo conquistato con il sangue e
con il dolore, superando esperienze totalitarie che hanno segnato il corpo
dell'Europa, le cui cicatrici sono state cancellate solo dieci anni fa. Ma lo
dobbiamo, in gran parte, ai padri e ai nonni di quegli uomini che sono stati
uccisi martedì scorso, disintegrati all'interno degli aerei o sbriciolati
assieme alle macerie degli edifici. Lo dobbiamo agli americani, che hanno
combattuto il nazismo e il fascismo e hanno retto la diga contro il comunismo.
La nostra democrazia, le nostre libertà, politiche ed economiche, vengono da lì.
Le torri gemelle erano anche le nostre torri. Quel centro del commercio era
anche il nostro centro del commercio, non solo in senso simbolico, dato che
uffici di aziende italiane erano ospitate al loro interno. Già in tanti hanno
fatto riferimento al discorso che J.F. Kennedy tenne a Berlino all'indomani
della costruzione del Muro, quando il presidente americano si disse un
berlinese, dunque un europeo. Tocca a noi, adesso, dirci americani e difendere
con tutti i mezzi possibili la nostra civiltà occidentale in pericolo.
Eravamo in guerra e non ce ne eravamo accorti. Lo scontro delle civiltà è già
in atto da qualche tempo, ben prima che diventasse uno slogan alla moda. E'
necessaria la calma dei forti, quella che le democrazie sanno mantenere anche
nei momenti più duri, anzi soprattutto in quelli, perché hanno il sostegno
delle proprie opinioni pubbliche e guardano in faccia il nemico quando devono
colpire. Colpiremo quando il nemico sarà ben chiaro. Ma colpiremo pronti a
giocare il nostro ruolo in prima linea, ben sapendo che la difesa di una civiltà
impone fermezza, coraggio e anche sacrificio. Per la nostra generazione si
tratta di un momento delicato e difficile. E' la prima volta che avvertiamo in
maniera evidente che quella libertà nella quale abbiamo vissuto e alla quale
teniamo più di ogni altra cosa non è un bene dato per sempre. Va difeso.
Giorno per giorno. Attimo per attimo. Faremo la nostra parte, dando forza alle
azioni militari che l'Occidente vorrà prendere e lavorando politicamente per
creare altri cinquant'anni di libertà, democrazia e benessere.
tratto da Ideazione.com
SIAMO
TUTTI AMERICANI
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di FERRUCCIO DE BORTOLI | |
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Non è un assalto al “potere mondiale”. E neppure una riedizione di Pearl Harbour in dimensione da terzo millennio. L’attacco concentrico contro i simboli degli Stati Uniti è la proclamazione della prima guerra planetaria postmoderna. Quella che i gruppi del terrorismo islamico fondamentalista hanno scatenato non solo contro l’America intesa come il paese-guida dell’Occidente ma contro tutti i paesi dell’intero pianeta che si richiamano ai valori dell’Occidente stesso. Se fosse stato un attacco al “potere mondiale” delle multinazionali capitaliste l’obiettivo sarebbe stato concentrato sulle torri gemelle e sul quartiere che ospita e simbolizza i plutocrati a stelle e strisce. L’effetto sarebbe stato sconvolgente ma non avrebbe mai assunto la dimensione di una vera e propria svolta nella storia mondiale. Se fosse stato il tentativo di ripetere Pearl Harbour gli aerei-bomba sarebbero stati dirottati sul solo Pentagono (o magari sulla sola Casa Bianca). Con risultati sicuramente devastanti ma sicuramente ridotti rispetto a quelli apocalittici di ieri. Se, in sostanza, l’obbiettivo fossero stati solo gli Stati Uniti, con il loro Presidente, la loro bandiera, la loro pretesa di essere i “ padroni” ed i” gendarmi” del mondo, l’impressione sarebbe stata planetaria ma a sentirsi direttamente e personalmente colpiti sarebbero stati solo gli americani. Ma la dichiarazione di guerra non è stata inviata solo agli Stati Uniti d’America. E’ stata indirizzata all’intero mondo Occidentale ed a tutto il mondo civile. Con il dichiarato proposito di mettere in chiaro che da adesso in poi non ci sarà un solo punto del pianeta in grado di sfuggire alla nuova forma di guerra istituzionalizzata dai kamikaze di New York e del Pentagono. I terroristi hanno dimostrato fin troppo concretamente di essere in grado di colpire a proprio piacimento ovunque. Lo hanno fatto nel “cuore dell’impero”. Per far capire di poterlo fare in qualsiasi altro momento in un qualsiasi altro punto del mondo. La sola risposta a questa proclamazione di prima guerra planetaria postmoderna è quella espressa immediatamente dal Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Anche perché essere solidali nei confronti del popolo americano significa, per i paesi occidentali, essere solidali con se stessi. Con la piena consapevolezza che da adesso in poi qualunque forza politica responsabile delle società civili del globo dovrà definire con la massima chiarezza la propria posizione rispetto al terrorismo. I margini di ambiguità del passato non sono più ammessi e le zone d’ombra totalmente abolite. Le migliaia di morti di ieri hanno innalzato un confine alto e netto tra chi crede nella società aperta e nel metodo democratico e chi è a favore dell’uso della violenza e del terrorismo per imporre le proprie idee. Questo confine deve essere assoluto ed invalicabile. Con tutte le conseguenze che ne possono derivare non solo nella politica internazionale ma anche nella politica interna di ogni paese democratico ed occidentale. Italia per prima. Chi aiuta e sostiene il terrorismo va considerato un nemico. Sia esso uno stato, sia esso un movimento politico. E come tale va trattato. In questo quadro va affrontata anche l’ipotesi che la dichiarazione di guerra planetaria sia stata lanciata con un obiettivo molto più ridotto rispetto a quello dello scontro frontale tra i terroristi ed il mondo occidentale. Cioè con l’intenzione di costringere con la forza delle armi gli Usa e l’Europa a scegliere tra il conflitto ad oltranza sull’intero fronte mondiale e la rinuncia definitiva a difendere Israele dalla pressione non solo del popolo palestinese ma dell’intero mondo arabo. Le dimensioni apocalittiche dell’aggressione lascerebbero intendere che la richiesta del terrorismo potrebbe avere un significato del genere. Quello, cioè, di convincere l’Occidente a risolvere il problema mediorientale rinunciando a garantire la sopravvivenza dello stato ebraico. Non a caso qualche dirigente palestinese, ed anche qualche autorevole osservatore occidentale, fa capire che basterebbe riservare ad Israele la stessa sorte degli stati crociati per far immediatamente terminare la prima guerra planetaria post-moderna. Ma in questo caso i vincitori sarebbero i terroristi. E gli sconfitti l’Occidente. Per tutto il prossimo millennio. tratto da L'Opinione |
LA
POTENZA VULNERABILE
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|
di SERGIO ROMANO | |
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di Stefano Magni
Lo spettacolare attacco suicida compiuto da terroristi islamici contro obiettivi civili a New York e a Washington dovrebbe farci capire che siamo in guerra. Siamo già in guerra da una quindicina d’anni, a dire il vero, ma il nostro letargo di occidentali ci impedisce di capirlo, come negli anni ’70 e ‘80 ci impediva di capire che eravamo in guerra contro l’URSS. La guerra che l’Islam sta combattendo contro l’Occidente, prima quasi esclusivamente contro Israele, l’avamposto occidentale in Medio Oriente e poi direttamente contro di noi, è una guerra di tipo diverso rispetto sia alle guerre convenzionali fra Stati, che siamo abituati a concepire, sia rispetto a quell’equilibrio bellico nucleare con l’URSS che pure non ci è mai entrato ben in testa (tanto che molti storici fissano al 1953 la data della fine della Guerra Fredda). E’ diversa da tutte le altre esperienze di guerra perché non è una guerra combattuta da Stati sovrani contro Stati sovrani e per questo non può essere una guerra dichiarata, né una guerra che possa avere un fronte, un inizio, una fine, obiettivi territoriali o politici da raggiungere. Questo perché, comunque, il mondo islamico non è un mondo di Stati, così come invece lo è l’Occidente. I punti di riferimento principali della civiltà islamica sono la famiglia (o il clan o la tribù) e la religione, che è universale e detta la legge non solo morale ma anche politica. Per il musulmano non eretico l’Islam e il potere politico sono la stessa cosa, non esiste distinzione fra politica e religione e il suo potere, essendo universale, deve estendersi a tutto il mondo. E’ per questo che oggi assistiamo impotenti ai colpi inflitti alle nostre città da un nemico “invisibile”, costituito da gruppi privati, molto probabilmente provenienti da una pluralità di Paesi musulmani (e molto più probabilmente anche appoggiati da una pluralità di Paesi musulmani) che agiscono segretamente nel nome dell’affermazione dell’Islam sulle macerie dell’Occidente cristiano. A rispondere alla domanda “chi è stato?” si può rispondere sia con “qualche fanatico”, sia con “tutti”. Entrambe le risposte sono corrette, perché queste sono le due dimensioni del mondo islamico. Pochi fanatici colpiscono, tutti i musulmani festeggiano (da Gaza a Londra passando per Istambul e Milano, dove sono state esposte bandiere palestinesi) e in mezzo i governi islamici negano, magari godendosi la vittoria nel segreto dei loro bunker. Tutti i governi islamici, anche quelli che ufficialmente sono alleati con gli Stati Uniti: non era dei “tranquillissimi” Emirati Arabi Uniti la copertura diplomatica di uno dei commando suicidi? Questo è il tipo di guerra a cui dobbiamo abituarci.
Non è una guerra che siamo destinati per forza a perdere, come potrebbe sembrare a prima vista soprattutto in questi giorni. A un nuovo tipo di aggressione si è sempre trovato un nuovo tipo di difesa e finora le democrazie occidentali sono sempre uscite vincitrici. Non bisogna disperare. Bisogna però rendersi conto che siamo in guerra, anche se (per fortuna) si tratta di una guerra discontinua e di bassa intensità. Questa è la cosa più dura da far accettare alle nostre coscienze: il fatto di essere in guerra, cosa che le opinioni pubbliche occidentali non tollerano più da mezzo secolo. In una guerra come questa occorre capire giusto un paio di cose:
Sembrerà un po’ azzardato trarre conclusioni simili dopo un singolo attentato, sia pur spettacolare, ai danni degli Stati Uniti. Molti liberali, tuttavia, già dalla prima crisi del Golfo, nel 1987, mettevano in guardia da questo pericolo e dicevano già allora le cose che io sto scrivendo in questo articolo. Ricordo gli articoli di fondo di Livio Caputo sull’Iran e anche gli articoli più recenti di Fiamma Nierenstein sull’Iraq e sulla questione palestinese o anche il libro di Huntington sul Conflitto di Civiltà: dicevano le stesse cose. Purtroppo l’opinione pubblica è rimasta distratta da altre crisi più vicine e più coinvolgenti per noi. I conflitti nei Balcani e la necessità da parte della NATO di fermare per due volte l’imperialismo serbo hanno spostato la nostra attenzione su un altro nemico: il nazional-comunismo che serpeggia nell’Europa orientale. E nel caso della guerra in Bosnia e della guerra nel Kosovo gli Islamici albanesi (appoggiati dalle loro reti di terrorismo internazionale, le stesse che adesso hanno attaccato nel cuore degli Stati Uniti) sono passati nel ruolo degli aggrediti da difendere. Era vero: in quel caso, come nel caso della guerra in Afghanistan, gli Islamici erano nel giusto, avevano diritto di difendersi e avevano diritto di ricevere il nostro aiuto militare. Ma questo ci ha fatto dimenticare che, nonostante quelle alleanze provvisorie e locali contro un comune nemico, anche l’Islam è un nemico non meno pericoloso del nazional-comunismo e che siamo continuamente in guerra con esso. Ci siamo crogiolati per anni nella convinzioni che non ci fossero nemici a Sud, come quando, durante la II Guerra Mondiale, eravamo convinti che non ci fossero nemici a Est. Adesso l’abbattimento del World Trade Center e l’attacco al Pentagono ci hanno (forse) risvegliati da questo letargo.
Adesso che ci si è resi finalmente conto che ci sono nemici a Sud e meglio armati e organizzati (e soprattutto meglio determinati a batterci) di quanto non pensassimo, che fare? Prima di tutto, come ho già accennato, occorre rendersi conto di che cosa sia effettivamente l’Islam e del fatto che esso è in guerra con noi. E già su questo punto siamo messi veramente male. Perché abbiamo una politica ufficiale che tratta ancora con le diplomazie arabe come se fossero diplomazie di Stati europei e soprattutto abbiamo una vasta opinione pubblica che, fallito il suo progetto utopistico, vuole semplicemente distruggere la civiltà occidentale, anche a mezzo Islam. Quell’opinione pubblica che brinda al successo degli attentati islamici in America nelle redazioni, che festeggia nei siti “pacifisti” dei no-global e che pacatamente spiega dalle colonne dei suoi giornali, in Parlamento o nei salotti bene che “gli Americani hanno semplicemente subito per una volta quello che fanno continuamente in tutte le città del Mondo.” Quella stessa opinione pubblica che si esprime contro il crocefisso nelle scuole, ma per il “libero” uso del chador nelle stesse, che taccia di intolleranza chi protesta contro la costruzione di una Moschea con soldi nostri e poi vuole che si pratichi l’infibulazione nelle strutture pubbliche. Sempre coi soldi nostri. Quella stessa opinione pubblica che taccia Haider di nazismo, che si dichiara memore dell’Olocausto in modo ossessivo e sacrale e che poi appoggia chi vuole l’annientamento fisico totale dello Stato di Israele. Questa opinione pubblica, che trionfa in tutta l’Unione Europea, ci porterà dritti alla sconfitta finale, se non altro perché ormai è talmente confusa e contraddittoria che non può che portare all’autodistruzione. La lotta contro questa opinione pubblica sarà la parte più ardua e più difficile da vincere di questa nuova strana guerra che ci siamo trovati a combattere nostro malgrado. Questa lotta potrà essere vinta solo quando e se si riusciranno a convincere le menti più aperte e progressiste delle nostre società che l’Islam è un nemico concreto che vuole riportarci indietro al caos e al buio dell’Alto Medioevo. E che ha, ogni giorno di più, i mezzi per farlo.
Nell’alto delle sfere politiche, invece, occorre cambiare strategia. Occorre prendere esempio da chi l’Islam lo combatte in un modo o nell’altro da mezzo secolo: da Israele. Gli Israeliani sanno benissimo che dietro a un regime arabo apparentemente neutrale o anche amichevole si può nascondere una forza economica e militare che finanzia attentati e prepara aggressioni. Per questo non si pongono molti problemi diplomatici e, soprattutto, scavalcano in pieno la sovranità degli Stati dentro i quali si prepara qualche minaccia. Gli Israeliani hanno per caso atteso di consultare ufficialmente l’ambasciatore irakeno per accertarsi delle intenzioni di dotarsi di un reattore nucleare vent’anni fa? No: hanno fatto alzare in volo i loro cacciabombardieri e hanno distrutto l’impianto in costruzione in pieno territorio “sovrano” irakeno. In Libano hanno ripetutamente colpito su suolo straniero e “sovrano” i campi di addestramento di Arafat e Jumblatt e le sue postazioni militari. Oggi intervengono ogni giorno nel territorio “sovrano” dell’Autorità Nazionale Palestinese per colpire i leader terroristici, i loro fanatici seguaci e le loro strutture. Immorale? Così facendo gli Israeliani hanno fatto pochi morti e ne hanno subiti pochi. In termini relativi, questo deve essere chiaro: Israele è una terra insanguinata, ma non si sono mai visti 20.000 morti a Tel Aviv in un solo giorno per un attentato. Gli Israeliani, nella loro lunga lotta per la sopravvivenza contro un Islam che ne vuole l’annientamento, la stessa lotta che stiamo combattendo noi, volenti o nolenti, hanno imparato due cose essenziali: evitare di fidarsi delle promesse del nemico e colpirlo preventivamente alla radice con attacchi mirati, infischiandosene della sua “sovranità”. Questo è quello che le leadership politiche e militari delle democrazie occidentali devono incominciare a fare da subito. Cercare e distruggere il nemico ovunque esso sia, indipendentemente da confini o da protezioni diplomatiche, dare retta fino a un certo punto alle diplomazie islamiche, tenendo sempre il dito sul grilletto. Si individua un campo di terroristi in Afghanistan? Alla fine del giorno stesso esso non deve più esistere. Si localizza un ufficio nel centro di Damasco dove si riuniscono leader terroristi a pianificare attentati? Ci si infila subito dentro un missile. Solo così, prevenendo colpo su colpo, ovunque esso sia progettato, saltando le vecchie norme del diritto internazionale che ormai sono solo d’intralcio, si può vincere questa strana guerra. Attualmente, come lamenta qualche libertario, gli Stati Uniti sono il Paese più pericoloso del mondo in fatto a dispiegamento di forza. Bene: a Washington, se si vuole vincere, non si deve temere di usarla questa forza. Ovunque essa risulti necessaria.
Questa nuova politica militare deve essere anche più profonda se vuole avere successo. La politica contro l’Unione Sovietica non ha avuto successo fino a che Reagan non le ha fornito delle basi anticomuniste, fino a che non si è riconosciuto che il regime bolscevico era un’aberrazione dell’umanità e che andava estirpato. Questa nuova guerra non avrà successo fino a che non si riconoscerà che lo Stato etico islamico, dove religione e politica sono fuse in un’unica macchina di repressione ed aggressione militare, è un’aberrazione umana e va estirpato ovunque. Sia esso dotato di credenziali “tradizionali” come l’Arabia Saudita, sia esso “rivoluzionario” come l’Iran. Se le democrazie occidentali rinunceranno ad esportare i loro ideali e il loro modello di libertà individuale anche nel mondo islamico, nel nome di una presunta tolleranza nei confronti dei loro “usi e costumi”, allora vorrà dire che avremo sicuramente perso.
Se
i Talebani danno lezioni di democrazia |
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George Orwell l’aveva capito, e descritto nella sua celeberrima Fattoria degli animali: siamo tutti uguali, ma c’è sempre qualcuno che è più uguale di altri. Se ne ricava puntuale conferma dalla notizia che proviene dall’Afghanistan, costretto sotto il ferreo tallone dei Talebani, gli studenti islamici integralisti: trentacinque dipendenti dell’organizzazione umanitaria International Assistance Mission sono stati arrestati; il loro “crimine” sarebbe quello di aver distribuito “pubblicazioni cristiane in lingua locale”. Per questo “delitto” rischiano la pena di morte. Sempre colpevoli d’analoghi reati, da più un mese sono in carcere otto stranieri, due uomini e sei donne, accusati anche loro di aver “diffuso il cristianesimo”. I volontari, quattro tedeschi, due statunitensi e due australiani, sono già comparsi in tribunale sabato scorso; e si può ben immaginare, dal tenore delle accuse, quali siano le garanzie del processo, il tipo di affidabilità che danno i “giudici”. Ad ogni modo gli inquisiti si sono proclamati innocenti, e hanno avuto il coraggio – un coraggio, va detto, che rasenta la temerarietà – di definire le accuse assurde; e implicitamente qualificando come assurdo il modo di pensare e di agire dei loro accusatori. Come finirà la vicenda non sappiamo: dai Talebani è lecito attendersi di tutto. Sono fanatici che hanno distrutto a cannonate le grandi statue che effigiavano Buddha, e costituivano una delle meraviglie del mondo; distruggono come opera del demonio, televisioni, telecamere, giradischi; ritengono la lapidazione un giusto castigo per le adultere; nella loro classifica di valori vengono prima cani e capre delle donne. Quel che sappiamo è che quanto accade a Kabul non interessa. Ricordiamo – e crediamo di non sbagliare – che la sola Emma Bonino, quando era commissario europeo, cercò di sollevare la fitta cortina di silenzio e indifferenza attorno ai crimini dei Talebani; rischiò per questo, di finir molto male: sequestrata per ore, e minacciata, lei e i suoi coraggiosi accompagnatori. Se ne parlò per qualche giorno, si apprese delle condizioni letteralmente infami in cui le donne sono costrette a vivere; poi silenzio, disinteresse totale. Eppure motivi per tener aperti gli occhi li abbiamo. Qualche anno fa. per esempio, il vice-segretario dell’ONU con delega per la lotta alla droga, l’ex senatore diessino Pino Arlacchi, strinse con i Talebani un contestato (ma in Italia molto ed entusiasticamente pubblicizzato) patto per “estirpare in dieci anni, e con 400 miliardi di lire, la coltivazione di oppio in Afghanistan”. Detto fatto. Il Dipartimento di Stato americano nei suoi rapporti annuali sugli stupefacenti fa sapere che l’Afghanistan ha superato la Birmania nella produzione di oppio; il denaro ricavato con la droga i Talebani lo investono in armi, e per finanziare attività terroristico-militari. Di queste cose ne hanno parlato ampiamente giornali e settimanali di mezzo mondo. In Italia non una parola. L’Afghanistan dei Talebani sembra essere un tabù. E maggiormente lo è, a quanto pare, per coloro sempre pronti a procombere di diritti umani e civili quando sono calpestati negli Stati Uniti o in un qualche paese occidentale; proviamo a immaginare, per esempio, cosa sarebbe accaduto se trentacinque persone di religione islamica fossero stati arrestati in Israele, con l’accusa di aver diffuso la loro religione; e per questo rischiassero un processo con un verdetto di condanna a morte. Si sarebbero levate proteste, organizzate manifestazioni; parlamentari avrebbero invocato l’intervento dei Governi, auspicando interventi, sanzioni, boicottaggi. Giustamente. Trattandosi invece dell’Afghanistan dei Talebani, niente: come se i diritti umani siano soggetti alla latitudine. E’ un interrogativo che giriamo ai professionisti delle proteste a senso unico, che sono ancora tanti: le discriminazioni degli omosessuali sono intollerabili a Londra, Roma, Parigi, ma non a L’Avana; si denuncia l’apartheid vero o presunto che sia in Israele; non si fiata sull’infame sistema delle caste in India; ci si indigna per i condannati a morte in America, non una lacrima per le centinaia di “giustiziati” in Cina… Si dirà: è sempre accaduto. Vent’anni fa pacifisti orbi da un occhio manifestava contro l’installazione dei missili Cruise e Pershing; ma nessuna manifestazione contro gli SS-20 sovietici già operativi. Ancora prima sterminate manifestazioni contro la guerra in Vietnam, o i golpisti cileni; niente per l’Afghanistan invaso dai sovietici, o in favore dei dissidenti russi e dei paesi dell’Est europeo. Una storia, insomma, che si rinnova, questa dei perseguitati dei Talebani. Non per questo è bella e ci piace. tratto da L'Opinione |
Quel
crocifisso da bruciare |
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Parole abusate, luoghi comuni risaputi, condanne unanimi già viste. E che la realtà superi la fantasia e la fiction di “Armageddon” o di “Indipendence day”, è fin troppo facile ricordare. La polverizzazione delle Twin Towers, simboli quant’altri mai, monumenti alla economia e alla finanza mondiali, emblemi indiscutibili della globalizzazione, quella nuvola di fumo che avvolgeva Manhattan dopo il crollo delle novelle “torri di Babele” l’avevamo già vista, ne avevamo già sentito l’acre sapore di morte e di nichilismo. Pochi mesi fa, la cronaca annunciata dai Talebani al mondo intero (che nulla fece, peraltro) della polverizzazione delle enormi statue di Buddha aveva sollevato la stessa polvere mortale, la medesima voluttà di distruzione. Qualche protesta, invero, s’alzò, qualche dissenso in nome dell’arte e della tradizione si sentì. Ma come le voci che gridano nel deserto, furono subito coperte dal suono della generale distrazione. Che un governo come quello dell’Afganistan potesse permettersi di distruggere il simbolo d’una grande religione, d’una splendida tradizione culturale, d’una millenaria storia comune all’Oriente senza una reazione corale e punitiva del resto del mondo, ebbene, questo è stato ed è il segnale più vistoso e al tempo stesso terribile del vero nemico che vive in noi, in America non meno che in Europa, l’indifferenza. Nessun Kofi Annan ha sollevato la questione nelle sedi cosiddette appropriate con almeno un decimo della veemenza con la quale incendiò la platea di Durban contro Israele e, di riflesso contro gli USA, nessun Procuratore Generale Internazionale iscrisse nel registro degli indagati i responsabili di quel crimine contro la cultura cioè contro l’umanità, nessun Arlacchi si premurò di trattare il problema con la stessa passione con cui scambiò, a suon di dollari, le coltivazioni di droga dei Talebani con quelle di patate. La settimana scorsa, le cronache striminzite di qualche quotidiano, avevano riportato la drammatica odissea di un gruppo di otto volontari di una Ong a Kabul, finiti in galera perché accusati di “spiegare il Vangelo, di esporre il Crocefisso”. In una foto sfuocata si vedeva il volto del Cristo e, in un’altra, il Cristo sulla Croce, la prova provata del delitto supremo sancito con la condanna a morte. La Croce, un altro emblema, un altro simbolo, d’una religione, d’una tradizione, d’una cultura, le nostre. Non s’è mosso nessuno, neanche in questo caso che, pure, ci riguarda da vicino e che possiede l’irresistibile forza evocativa d’una volontà distruttrice, fanatica e fondamentalista. Non ci si è neppure chiesti come sia possibile che all’inizio del nuovo millennio dei governanti possano individuare nella Croce il simbolo del male, dell’aggressione, della guerra santa e che, dunque i credenti in questo simbolo possano non soltanto essere processati senza avvocati ma destinati alla condanna a morte. Il silenzio della indifferenza e, angoscioso, il silenzio degli innocenti. Ma ora che siamo entrati nei giorni della terza guerra mondiale, possiamo, dobbiamo chiederci a cosa sia servita l’indifferenza, la sordità, la disattenzione se non a giocare a nascondino con la violenza devastante d’un estremismo islamico sottovalutato e lasciato crescere come un mostro, come un Alien, ancorché fosse già in mezzo a noi, dentro la nostra civiltà, dentro il cuore pulsante dell’Occidente. Migliaia di morti, sangue e devastazione, crolli di simboli, sterminio di culture. Questo è il programma d’una guerra di religione globalizzata alla quale non mancherà, prima o poi, la tremenda ritorsione statunitense, basti pensare a Hiroshima e Nagasaki dopo la Pearl Harbour del 1941. Ma già da ora, chiediamoci almeno dove e perché siamo rimasti così a lungo inerti, silenziosi e indifferenti. Forse perché ci siamo illusi che la campana non suonasse (anche) per noi. tratto da L'Opinione |
E
ora?
di David
B. Kopel
Ora, l'Arabia Saudita dovrà dimostrare se merita di essere considerata un
alleato degli Stati Uniti. Gli Usa l'avevano difesa dopo l'invasione irachena
del Kuwait. Gli Usa avevano perfino acconsentito alla sua richiesta di vietare
ai soldati americani di esercitare la loro libertà di religione, quando erano
sul suolo arabo per difendere l'Arabia stessa da Saddam Hussein. Ora l'Arabia
Saudita userà la propria immensa influenza sui talebani, per far sì che Osama
bin Laden e le sue truppe siano consegnati immediatamente agli americani? Se gli
arabi non ci sosterranno nel momento del nostro massimo bisogno, essi non sono
nostri alleati.
Coloro che chiedono di aumentare il budget della Cia, dovrebbero svelare a
quanto esso ammonti attualmente, e perché sia inadeguato. In realtà, il
bilancio della Cia è completamente segreto. E' pur vero che vi sono buone
ragioni per tenere segreti i singoli capitoli di spesa, ma la giustificazione
per la segretezza dell'intero budget è debolissima. In Canada, in Gran Bretagna
e perfino in Israele le spese complessive per l'intelligence sono pubbliche.
La Costituzione prevede che: "Periodicamente sarà pubblicato un regolare
rendiconto delle entrate e delle uscite di tutto il denaro pubblico". Non
ci sono eccezioni. Durante la Seconda guerra mondiale, il presidente aveva
rispettato la Carta, rendendo pubblico il bilancio dell'Ufficio per i servizi
strategici, il predecessore della Cia. Gli ex direttori della Cia Turner, Gates
e Deutch, come l'unanimità dei membri della Commissione Brown-Aspin del 1996,
riconoscono che non vi è alcun rischio per la sicurezza nazionale nel rivelare
il budget complessivo della Cia.
La Cia, che ha già perso due miliardi di dollari spendendoli nelle attività
sbagliate, è in grave deficit. Forse, quello di cui essa ha bisogno non sono più
soldi, ma una leadership migliore. Come i viscidi avvocati che si radunano sulla
scena dello scontro, così sicuramente i fautori del governo illimitato faranno
a gara per mostrare come gli atti di guerra di martedì 11 settembre rendano
necessario conferire maggiori poteri a un governo intrusivo e incostituzionale.
Invece di ammettere che le misure restrittive sui viaggiatori onesti, messe in
atto dopo il disastro del Twa Flight 800, non sono state in grado di
proteggerci, essi chiederanno altre delle medesime non-soluzioni fallimentari.
Dovremmo ricordarci che, come negli anni dopo Pearl Harbor, non sempre chiedere
che il governo abbia più potere ci renderà più sicuri, e talvolta peggiorerà
le cose. L'imprigionamento dei cittadini americani di origine giapponese; i
controlli sui prezzi e sui salari; e i controlli "di emergenza" sugli
affitti a New York City (che sono tuttora in vigore) sono solo alcuni esempi di
come la libertà e la forza americana siano state ferite dalla distruttiva
espansione del governo. La prima fonte della nostra forza è la nostra libertà
e la società aperta. Gli Stati Uniti hanno già l'esercito più potente del
mondo. Non abbiamo bisogno di digrignare i simbolici denti, denti di nuove
leggi, ma della volontà di usare il nostro attuale potere di guerra. Paul
Weyrich, leader della Free Congress Foundation, correttamente scrive: "La
verità è che se noi continueremo a indebolire la nostra Costituzione, i
terroristi avranno ottenuto la più grande vittoria immaginabile. Il loro
trionfo non sarà solo nelle migliaia di persone che hanno ucciso, ma anche nel
crollo delle nostre istituzioni democratiche. Se il presidente Bush riuscirà a
mantenere una condotta responsabile dove noi forniremo la giusta risposta a
coloro che hanno perpetrato questi indicibili crimini, e al tempo stesso saprà
difendere le nostre libertà indisponibili, egli passerà alla storia come il più
grande presidente dell'epoca moderna".
Per impedire aggressioni future, gli autori delle atrocità di martedì devono
essere completamente distrutti, anche se questo significa infrangere la sovranità
territoriale delle nazioni che li ospitano. Offendere l'opinione del mondo non
deve essere una preoccupazione per noi. Non è stato Le Monde ad attaccarci,
quindi se Le Monde o The Guardian apprezzino la risposta americana è molto meno
importante del fatto che ogni terrorista sulla faccia della terra deve capire
che un attacco all'America sarà una sentenza di morte per se stesso e la
propria intera organizzazione. Come dimostra il fallimento del tentativo di
eliminare le armi dalle scuole, l'ostracismo verso le armi legalmente detenute
semplicemente fornisce un incentivo ai malfattori, garantendo loro che nessuno
potrà opporsi alla loro volontà. E' scandaloso che qualche dirottatore armato
di coltello sia stato in grado di tenere in ostaggio un gran numero di
passeggeri. Come primo passo per rendere gli aerei commerciali più pericolosi
per i dirottatori, i piloti dovrebbero essere muniti di pistole. Lo storico
Clayton Cramer domanda: "Se non vi fidate di un pilota armato di pistola,
perché vi fidate di lui quando è al comando del velivolo?".
L'addestramento necessario a sparare a un aggressore a distanza molto
ravvicinata può essere svolto in un fine settimana. Dovrebbero essere scelte
pistole e munizioni che abbiano una elevata frangibilità e un basso potere
penetrante - cioè un basso rischio che la pallottola penetri le pareti
d'acciaio dell'aereo, o trapassi un dirottatore e colpisca un passeggero. In
ogni caso, i rischi che un dirottatore si trovi di fronte a un tentativo di
resistenza sono molto inferiori ai rischi che egli riesca a farla franca. Per la
stessa ragione, dovrebbe essere permesso ai funzionari di volo che lo desiderino
di portare armi nascoste. E i passeggeri? Quarant'anni fa, gli sportivi tenevano
abitualmente i loro fucili nel vano sopra la testa. Quali che siano i benefici
prodotti negli ultimi trent'anni dalle leggi che vietano ai passeggeri di
portare le loro armi legalmente possedute in volo, essi sono stati ampiamente
sorpassati dalle morti di un solo giorno, che sono il risultato dell'aver
trasformato gli aerei in zone tranquille per i terroristi.
E, lettori, se mai doveste trovarvi su un aereo dirottato, ricordate che è
meglio per voi morire da eroi, dopo aver guidato gli altri passeggeri contro i
dirottatori, che permettere passivamente che il vostro aereo sia usato per
distruggere migliaia di altri innocenti. Dagli anni '70 fino a non molto tempo
fa, era comune buonsenso dei terroristi di tutto il mondo evitare di agire negli
Stati Uniti, perché sapevano che questo avrebbe portato alla distruzione dei
loro centri di addestramento e di loro stessi. Gli atti di martedì mostrano che
tale deterrente non è più credibile. Che tipo di risposte hanno fornito gli
Stati Uniti al terrorismo? Bombardare una fabbrica di aspirina in Sudan per
distrarre l'attenzione pubblica dal Dna sul vestito di Monica Lewinsky? Un solo
raid su Tripoli durante l'amministrazione Reagan, che non ha neppure ucciso
Gheddafi? Gli uomini che dirottano aerei possono anche avere il coraggio
dell'inferno dei piloti kamikaze, ma i loro codardi padroni no. Quando i capi
terroristi e i loro ospiti impareranno che un attacco all'America è la garanzia
della loro morte, allora finirà la guerra contro gli Stati Uniti d'America.
14 settembre
2001
da National
Review on line
(traduzione dall'inglese di Carlo Stagnaro) - tratto da Ideazione.com
E
se gli Usa tornassero al non interventismo? tratto da Ideazione.com |