L’arancia meccanica di Cofferati

Chissà come confezionerà il suo discorso di oggi, Sergio Cofferati. Come arringherà la folla, come ricamerà di nomi e slogan lo scandaloso tappeto dei suoi interessi privatissimi, in un’Italia paralizzata e incazzosa. Fra una stoccata e l’altra, certo non mancherà di sibilare il nome di Philip K. Dick, che nei ragionamenti del leader cigiellino fa capolino di tanto in tanto, quando si spegne la passione politica e si riaccende l’onestà intellettuale, l’amore per questo fascinoso e maledetto scrittore di fantascienza. Mi piacerebbe sapere se Cofferati si è mai spinto oltre nell’ esplorazione di quei territori: gli farebbe bene un’iniezione di letteratura anti-utopica, quella che racconta, spiando in controluce un futuro probabile, l’eterna bagarre fra libertà e potere. George Orwell è il primo nome che viene alla mente, ma subito dopo arriva Anthony Burgess. Autore noto anche al grosso pubblico, se non altro per quell’ “Arancia meccanica” traghettata sul grande schermo da Kubrick, e per la sceneggiatura del “Gesù di Nazareth” televisivamente consacrato da Franco Zeffirelli. Burgess era uno spirito libero, che in certi tempi vuol dire: uno spirito reazionario.

Nel 1978, egli prova a riscrivere l’orwelliano 1984: negli occhi ha l’Inghilterra scassata di quegli anni, lo Stato che strappa di mano le imprese ai privati, i sindacati che chiedono e ottengono ogni “però”. “Sempre più forti e più intolleranti”. La signora Thatcher avrebbe raggiunto Downing Street un anno dopo, dando una brusca sterzata a quello che ormai era diventato un Paese socialista. E se il racconto di Burgess, “1985”, non si ritaglia più addosso alla Gran Bretagna contemporanea, calza a pennello all’Italietta.

Come Orwell raccontava Winston Smith, Burgess racconta “Bev”, un uomo come tanti, rassegnato alla mediocrità della sindacatocrazia fino a un giorno terribile. Sua moglie è in un letto d’ospedale, nella clinica scoppia un incendio, ma i pompieri sono in sciopero. L’esercito pure, si incrociano le braccia per solidarietà, sono tutti tessere di un domino, non aspettano altro che di incastrarsi l’una con l’altra. Il risultato è che “Bev” fa appena in tempo a dire addio a quel che resta del suo amore, a captarne l’ultimo sospiro, “non lasciare che restino impuniti”. E lui ci prova, con tutte le sue forze, esercita il sacrosanto (e dimenticato) diritto di crumiraggio, proprio come Libero oggi, ma lo mettono fuorigioco. Perché nel’Inghilterra di “1985”, dove vige una specie di articolo 18, licenziare non si può. A meno che non lo ordini un sindacato. “Sono tutti burocrati, nessuno è più licenziato e tutti non fanno più un cavolo di niente”.

Comincia così il calvario di “Bev”, fino a una rieducazione impossibile, fino a sperimentare (come in “Arancia meccanica”) ogni forma di violenza, fino a una morte che è una liberazione. Sono pagine lucide, che identificano con spietata freddezza il vero motivo della “lotte” di oggi e di ieri, il desiderio bramoso di potere dei leader e persino dei miseri ingranaggi della macchina sindacale. “Perché l’esercizio del potere è il più inebriante dei narcotici”.

Non si spiega altrimenti l’opposizione di piazza a una riforma così sensata e modesta come quella dell’art. 18 (una riforma che pone il governo “a sinistra” del diessino Franco Debenedetti).  Dove licenziare è più facile, in Gran Bretagna, Danimarca, Olanda per esempio, i tassi di disoccupazione stazionano attorno al 7,1%, al 6,1%, al 5,5%. Qui da noi, dove si difende a oltranza il posto di lavoro, si galleggia sul 12,3%.

Il sindacato che si batte il petto per l’art. 18 ammette le proprie colpe, e ne fa un punto d’orgoglio. Non ci resta che seguire Burgess: “non posso sconfiggerli, ma posso almeno essere un martire per la causa della libertà, (...) combattere l’ingiustizia che rappresentano”. “Questo Paese ha sofferto abbastanza per colpa dell’indolenza, del menefreghismo e dell’aperta ostilità dei sindacati”: Inghilterra 1978, Italia 2002. Così lontani così vicini.

Alberto Mingardi

tratto da Libero

L'art.18: sciopero, ergo sum

Soltanto in un paese come l'Italia, dove più che in ogni altro ha pesato e pesa il conformismo cattolico-comunista e solidarista, un quesito referendario  una questione così moderatao e sensatao come quellao radicale sull'articolo 18 della legge 300 del 1970 e sulla "giusta causa" poteva esser tacciatao di estremismo e di "iperliberismo". Eppure,l'atteggiamento ideologico con cui la vicenda è stata affrontata dai sindacati e di conseguenza dai politici di entrambi gli schieramenti con cui i radicali si schermiscono dall'accusa di voler introdurre la "libertà di licenziamento" rischia di occultare una verità che forse nessuno, tra i sindacalisti ed i politici oggi sulla scena, osa proclamare per la sua impopolarità, ma che, alla prova dei fatti, si rivela difficilmente negabile: per creare lavoro, bisogna poter anche licenziare.

Basta dare uno sguardo a qualche statistica. Un rapporto realizzato dall'OCSE nel  1993 mostrava che l'Italia è. dopo il Portogallo, il paese dove risulta più difficile licenziare. I paesi dove i licenziamenti sono più facili risultano invece essere, nell'ordine, Gran Bretagna, Belgio, Danimarca, Irlanda, Olanda. I tassi di disoccupazione di questi paesi, pubblicati dall'"Economist" (trad. it.: "Il mondo in cifre", ed. Internazionale) sono rispettivamente del 7,1% (Gran Bretagna), del 9,2% (Belgio), del 6,1% (Danimarca), del 10,3% (Irlanda), del 5,5% (Olanda). L'Italia, il paese della difesa ad oltranza del posto di lavoro, registra guarda caso una disoccupazione pari al 12,3%!!!

Ancora più clamoroso è il confronto con gli Stati Uniti, dove la facilità con cui si perde il posto di lavoro è proverbiale, e dove il tasso di disoccupazione è appena del 4,9%. In quattro anni, annotava Mario Giordano in un libro del 1997 ("Silenzio, si ruba"), negli Usa sono stati creati 12 milioni di nuovi posti di lavoro. Mentre i dipendenti pubblici (che in Italia sono quasi uguali per numero a quelli americani, con una popolazione pari alla quarta parte) diminuivano del 11,4%, una ricerca della Fondazione Agnelli evidenziava come, su 1000 imprese che avevano ridotto i dipendenti, dopo 10 anni l'11,6% ne aveva di nuovo lo stesso numero, e il 55% un numero
addirittura superiore.

In Usa, ha osservato Michael Novak, in 20 anni sono stati creati 80 milioni di nuovi posti di lavoro. Nello stesso periodo, in Europa, ne sono stati distrutti 2 milioni. Né vale l'obiezione secondo cui i posti di lavoro creati in Usa sarebbero per lo più "trash jobs", occupazioni sottopagate e poco o nulla qualificate. I dati riportati da Mauricio Rojas in "Perché essere ottimisti sul futuro del lavoro" mostrano che, dei nuovi posti, il 48,73% è costituito da lavori altamente qualificati (manager e professionisti), il 32,82% da lavori mediamente qualificati (per esempio, esperti, supervisori alle vendite, addetti a produzioni di precisione, artigiani), e solo il  18,45% da lavori scarsamente qualificati (manovali, agricoltori, addetti alle vendite, pulitori). Rojas mostra inoltre come, in Usa, 7 su 10 dei nuovi posti di lavoro hanno un reddito superiore a quello mediano. Anche in Inghilterra, se all'indomani della privatizzazione delle telecomunicazioni furono espulsi in poche settimane 15.000 lavoratori, oggi nel settore lavorano 20.000 persone in più.
Peraltro, le cifre sull'occupazione potrebbero far passare in secondo piano il problema, non meno grave, della cronicità della disoccupazione: in tutto il mondo, scriveva Giordano, meno del 40% dei disoccupati aspetta più di
un anno per trovare un nuovo impiego (ma in Usa è il 15%). In Italia è il 72%!!!

Conclusione: non c'è paese al mondo dove chi ha già un impiego sia tanto protetto (finché ce l'ha), e chi non ha un impiego sia tanto esposto. "I principali ostacoli all'impiego - ha scritto Sergio Ricossa - sono le leggi sul lavoro, il ministro del lavoro e i sindacati che hanno voluto quelle leggi".

Giorgio Bianco

Comunicato dell'Associazione Culturale "L'Imprenditore"

Se le idee contenute in questa lettera trovano la tua approvazione, inoltra questo messaggio per fax o e-mail: ai tuoi amici, ai tuoi clienti, ai tuoi fornitori, alla tua associazione di categoria, grazie.

 

Associazione Culturale Libertà

e-mail:  il velino@email.it

 

Proposta per una più efficace forma di lotta degli imprenditori al fine di tutelare i propri diritti, oggi negati

 

 

alla cortese att. del titolare,

 

le trattative in merito alla modifica delle leggi sul lavoro trovano, da parte sindacale, feroci resistenze motivate da  una chiusura ideologica e, di fatto, dal rifiuto pregiudiziale a parlare di questo argomento. In pratica, così, siamo prigionieri di una ideologia se (sebbene minoritaria nel mondo) riesce ad imporre la propria volontà in virtù di leggi ottenute con il ricatto di scioperi ed agitazioni di piazza.

In tal modo, le ragioni di noi imprenditori e di quanti credono nel mercato vengono del tutto ignorate.

Fino ad oggi gli imprenditori hanno collocato al primo posto, sempre, l’esigenza di mantenere ottimi rapporti all’interno del mondo del lavoro, condizione indispensabile per un buon andamento produttivo. Ma alla fine ciò ci ha portato ad accettare contratti e regole che, in situazioni di altro tipo, non avremmo mai subito.

Abbassando continuamente la testa e subendo i continui ricatti delle corporazioni sindacali abbiamo finito per dare alla Triplice il potere di definire nei minimi dettagli la vita delle aziende. I sindacalisti, d’altra parte, sono dominati dalla passione di regolare il modo di vivere degli altri (imprenditori e lavoratori) e poco importa, a loro, se questo significa infrangere le libertà personali. Una domanda, però, sorge spontanea: in assenza di paletti, dove mai si fermeranno questi signori? Quando si ledono le libertà altrui è facile iniziare, ma il difficile poi è fermarsi.

Nei decenni scorsi, una classe politica pavida e spesso anche complice (quanti uomini politici hanno usato il sindacato come trampolino di lancio per una fulgida carriera politica?) ha prodotto una marea di leggi, regolamenti, disposizioni, circolari. Il risultato di tutto ciò è che l’imprenditore è oggi prigioniero di una burocrazia irresponsabile, capace solo di imporre sanzioni ed ostacolare chi vuole lavorare e produrre ricchezza. Siamo così avvolti in una ragnatela normativa che, anziché favorire la pacifica convivenza fra le persone, impone modi e stili di vita che dovrebbero invece essere il frutto della libera scelta individuale. Da qui viene anche una tendenza sempre più diffusa al conformismo.

Viviamo da sudditi di uno Stato che ci toglie la metà di quanto produciamo e ci impone oltre 200 mila leggi ed una miriade di regolamenti (molti assurdi e iniqui). In più dobbiamo pure subire gli arbitrii di sindacati, funzionari e magistrati che possono disporre di noi e dei nostri diritti come a loro meglio piace. Tutti gli uomini politici ci parlano di “democrazia” ma, in realtà, siano quasi degli schiavi e loro sono i nostri padroni.     

Chi ha detto, però, che senza i signori dei partiti e senza il monopolio di una classe politico-burocratica (e sindacale) parassitaria non sarebbe possibile vivere in pace, lavorando onestamente, coltivando i propri ideali e perseguendo i propri obiettivi nel rispetto di quelli degli altri? Io credo che – se solo gli uomini liberi si impegnassero nella tutela dei loro diritti – questa moderna schiavitù potrebbe essere vinta e che già esista una via d’uscita.

Come ebbe a dire Luigi Einaudi, nella nostra società vi sono “milioni di individui che lavorano, producono e risparmiano nonostante tutto quello che lo Stato inventa per molestarli, incepparli, scoraggiarli. È la vocazione naturale che li spinge: non soltanto la sete di denaro. Il gusto, l’orgoglio di vedere la propria azienda prosperare, acquistare credito, ispirare fiducia a clientele sempre più vaste, ampliare gli impianti, abbellire le sedi, costituiscono una molla di progresso altrettanto potente che il guadagno”. Questa voglia di fare e costruire deve essere orientata verso la trasformazione anche delle istituzioni.

Dobbiamo tutti impegnarci, insomma, perché lo Stato cambi strada, smettendo di continuare a salassare i propri cittadini con manovre fiscali (ovvero, altre tasse). Al contrario, è indispensabile che si blocchino gli aumenti dei dipendenti pubblici (abbiamo, tra l’altro, i giudici più pagati d’Europa!) e che non si destinino più, come invece è stato fatto anche di recente, 35 mila miliardi di lire al finanziamento di quel settore amministrativo che arreca più ostacoli che aiuti all’economia reale del Paese.

L'ideale autenticamente liberale che noi imprenditori dovremmo cercare di realizzare è quello di uno Stato che si occupasse solo di liberalizzare i commerci, evitando di creare nuove leggi, nuovi regolamenti restrittivi e nuove direttive spesso minuziose che limitano pesantemente le libertà delle persone. 

Ma il pericolo maggiore in campo sindacale viene dall’Europa

L'Europa che sindacati e politici di sinistra vogliono costruire prevede infatti la negazione di ogni aspirazione liberale e federalista. Si vuole ottenere un vastissimo territorio, l’intera Europa, governato da una sola legge e da un solo governo, con regole imposte dall'alto da persone lontane dai bisogni giornalieri dei cittadini. Praticamente i sindacati puntano ad un unico contratto collettivo europeo, mentre al contrario bisognerebbe puntare a contratti regionali o meglio ancora aziendali, più modellati sulle caratteristiche del territorio e dell’impresa.

La sensazione è che ormai sia facilissimo, per politici e giornalisti, mobilitare a proprio modo l’opinione pubblica: con il risultato che i talebani del sindacalismo di piazza e dello statalismo selvaggio rischiano di continuare ad indottrinare le giovani generazioni, dopo aver già fatto tanti danni in passato.

Per tutte queste ragioni è necessario che gli imprenditori riscoprano l’orgoglio della loro professione. Se l’Italia è la sesta o settima nazione più sviluppata al mondo non è certo per merito dei nostri politici o sindacalisti. I risultati che abbiamo conseguito li abbiamo ottenuti non grazie a loro, ma nonostante la loro azione.

Nel dopoguerra l’Italia ha avuto successo in virtù dell’ingegnosità degli industriali e della serietà dei lavoratori, oltre che dello spirito di collaborazione che – di fatto – ha quasi sempre regnato nelle fabbriche e negli uffici. Nonostante tasse altissime e regole assurde, il nostro Paese ha lasciato alle spalle la miseria, e certo le cose sarebbe molto migliori anche al Sud se l’ottusità sindacale non avesse preteso di imporre salari uniformi in tutto il territorio nazionale!

Malgrado uno Stato ridicolo e malgrado una dirigenza sindacale del tutto irresponsabile, gli imprenditori hanno guidato la nostra società verso risultati eccezionali. Di questo dobbiamo essere fieri e pere questo, ora, dobbiamo reagire.

In primo luogo, è inammissibile che si continui ad additarci quali sfruttatori della società, dato che invece abbiamo dato un importante contributo e quindi abbiamo il diritto di vedere accolte le nostre ragioni.

In secondo luogo, dobbiamo chiaramente dire che se i lavoratori hanno il diritto di interrompere il loro lavoro (scioperando), noi rivendiamo un analogo diritto e quindi dobbiamo prepararci ad abbassare le nostre saracinesche e chiudere i nostri cancelli, se questo può essere utile a far valere le nostre ragioni. Se i lavoratori ricorrono allo sciopero, noi dobbiamo essere pronti a ricorrere alla serrata.

Terzo punto, dobbiamo tornare per strada. Come già è avvenuto in passato in occasione della marcia contro il fisco e di quella dei quadri aziendali, ritengo che si debba radunare per strada molte migliaia di uomini liberi. Gli imprenditori devono essere pronti a sfilare in silenzio per le vie di una grande città e a dare in tal modo una pubblica testimonianza del loro orgoglio e della loro determinazione a difendere i propri diritti.

Quarto e ultimo punto, è ormai necessario che dalle imprese provenga la richiesta di abolire la legge che ci impone di effettuare le trattenute sindacali. Noi siamo imprenditori, industriali, artigiani, commercianti: non siamo esattori del sindacato e non dobbiamo più essere compiacenti verso leggi vergognose prodotte dalla partitocrazia italiana negli anni della peggiore spartizione del Paese.

Mi auguro che leggerà con attenzione questa mia lettera e che, assieme ai suoi collaboratori, saprà trarre da questo testo qualche utile suggerimento. Gli imprenditori devono rialzare la testa, devono riacquistare un loro spazio nella società, devono rivendicare il loro diritto naturale a produrre e a stipulare liberamente accordi e contratti. Ne va del nostro futuro e di quello dei nostri figli.

Se condividete queste riflessioni fate conoscere questo scritto, ai vostri amici, clienti fornitori, mettendo pure il vostro nome, e cancellando il mio.

 

Con cordialità, il velino

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