Ai "figli di papà"
non piace il mercato

 di  Guglielmo Piombini

I contestatori di Seattle amano descrivere la globalizzazione in termini cospiratori. Secondo la loro ricostruzione il processo di liberalizzazione degli scambi sarebbe guidato dagli interessi occulti di un gruppo ristretto di boss delle multinazionali, banchieri, finanzieri, e governi compiacenti, mentre il WTO e gli altri organismi sovrannazionali come la Banca Mondiale o il Fondo Monetario agirebbero come bracci armati di questo gigantesco complotto planetario.
A prima vista, questa spiegazione non pare più fon-data di quella, in auge durante gli anni '30, che spie-gava tutti gli avvenimenti politici ed economici ricorrendo ad una fantomatica congiura mondialista demo-pluto-giudaico-massonica. Anche nella versione moderna riadattata dagli antiglobalizzatori, la teoria complottistica svolge la medesima duplice funzione: semplifica dei fenomeni estremamente complessi, e svia l'attenzione dai reali motivi in gioco. Infatti, lungi dall'essere il risultato di un piano studiato a tavolino, la globalizzazione è sempre stata, in tutte le sue intermittenti fasi storiche di sviluppo, un tipico ordine spontaneo inintenzionale, risultante dalla combinazione delle azioni quotidiane di miliardi di persone. Oggi questo processo è enormemente facilitato da una serie di fattori culturali e materiali che hanno posto fine al mondo della guerra fredda: da un lato, il declino irreversibile delle ideologie socialistiche e collettivistiche; dall'altro, le rivoluzioni tecnologiche, informatiche, finanziarie, dei trasporti, e delle comunicazioni, che hanno messo nelle mani dei singoli individui strumenti eccezionali di liberazione dalle imposizioni statali.
La forza principale che spinge il processo di apertura mondiale dei mercati non viene dall'alto, ma dal basso: dalle richieste, provenienti da enormi masse umane, di poter accedere a nuovi prodotti, a nuovi consumi, a nuove letture, a nuove esperienze. L'azione delle organizzazioni come il WTO crea l'errata impressione, non solo tra i nemici ma anche tra molti sostenitori della globalizzazione, che l'attuale rivoluzione dei mercati sia guidata dalle istituzioni governative sovrannazionali. In realtà, ricorda l'economista Ian Vazquez del Cato Institute, i dati dimostrano che il ruolo giocato da questi organismi nel processo di globalizzazione è stato fino ad oggi marginale, se non addirittura negativo. Decenni di prestiti concessi dal Fondo Monetario Internazionale o dalla Banca Mondiale a regimi retrivi e autoritari, ad esempio, hanno sicuramente rallentato la loro entrata nel mercato globale. Molti paesi, tuttavia, hanno liberalizzato e aperto unilateralmente le proprie economie, spinti dalle necessità politiche ed economiche: "In breve - afferma Vazquez - l'evoluzione dell'economia mondiale è il risultato di cambiamenti avvenuti molto più a livello nazionale che internazionale. Cercare di realizzare un ordine economico mondiale liberale dall'alto, con un approccio costruttivistico, è pericoloso perchè permette un uso discrezionale ed arbitrario del potere alle organizzazioni incaricate di realizzare questo obiettivo".
Anche Murray N. Rothbard ha affermato con vigore che il processo di globalizzazione dell'economia non necessita affatto di qualcuno che lo governi o lo imponga, dato che il libero mercato rappresenta il metodo e la società naturali per l'uomo: "esso può svilupparsi, e pertanto si sviluppa, naturalmente, senza un elaborato sistema intellettuale che lo spieghi e lo difenda. Il produttore illetterato conosce nel suo cuo-re la differenza tra duro lavoro e produzione da un lato e rapina ed esproprio dall'altro. Quindi, se non molestata, tende a svilupparsi una società di produzione e commercio nella quale ogni uomo lavora alla funzione per la quale è più adatto nelle condizioni dell'epoca, e quindi scambia il suo prodotto con i prodotti di altri".
Se per le classi produttive il mercato aperto appare come un dato naturale, lo stesso non può dirsi per le categorie elitarie e privilegiate che, in molti paesi, si oppongono alla globalizzazione: gli intellettuali e i membri delle classi politico-burocratiche, che temono una perdita di status sociale; i sindacati e i blocchi corporativi (alla Bouvet) che pretendono di continuare a sfruttare impunemente i consumatori del proprio paese senza essere disturbati dalla concor-renza internazionale; i giovani appartenenti alle classi medio-alte dei paesi industrializzati, che non vogliono rinunciare ai benefici parassitari del welfare-state.
Naturalmente, i poco nobili e indifendibili interessi di questi gruppi vengono mascherati dietro una retorica terzomondista tendente a far credere che il pro-prio obiettivo sia quello di difendere le condizioni di lavoro, le tradizioni, le culture, e l'ambiente dei paesi più poveri dagli effetti della globalizzazione capitalista e dall'invasione delle multinazionali. Ma veramente i popoli del paesi arretrati chiedono di essere difesi dalla globalizzazione, o è piuttosto il contrario?
In realtà, spiega Thomas Friedman nel suo documentatissimo libro Le radici del futuro, occorre prendere atto che l'americanizzazione-globalizzazione non è solo una questione di offerta, ma anche di domanda. Gente di tutto il mondo re-clama a gran voce la globalizzazione: "Qual'è la co-sa del Kentucky Fried Chicken che affascina tanto i malesi? Non solo il sapore del cibo, ma ciò che sim-boleggia: la modernità, l'americanizzazione, l'essere alla moda. Alla gente piace tutto quello che viene dall'Occidente, soprattutto dall'America. Vogliono mangiare occidentali ed essere occidentali. Ci sono persone che fanno chilometri da piccoli villaggi ru-rali per mettersi in cosa davanti ad un Kentucky Fried Chicken: vengono da ogni parte solo per questo. Vogliono essere in contatto con l'America. La gente di qui ama tutto ciò che è moderno". E in effetti per un malese delle campagne entrare in questo locale è il modo meno costoso, e forse l'unico che si potrà mai permettere, per andare in America: "solo le élite possono permettersi il lusso di dire Non vogliamo altri McDonald's! Ma la gente comune, che non po-trà mai andare in America, vuole che l'America vada da loro."
Tutto questo non porta però alla cancellazione delle culture locali, come lamentano i critici della globalizzazione? In verità, quello dell'indigeno che lotta strenuamente per la difesa del proprio modello di vita tradizionale minacciato dall'invasione del mercato non è altro che un mito costruito ad arte dagli intellettuali d'occidente. L'armonia sociale e il senso d'appartenenza delle comunità tradizionali, scrive ironicamente Rothbard nel saggio Freedom, Inequality, Primitivism, and the Division of Labor, offrono un tale appagamento materiale e spirituale, che i propri membri l'abbandonano non appena ne hanno l'opportunità: "Se vi è libertà di scegliere, gli indigeni lasciano il calore della propria tribù per cercare lavoro e opportunità in una più libera e "atomistica" città. Appena possono, essi abbandonano la propria cultura popolare a favore della cocacolizzazione e di stili e livelli di vita occidentali. Esiste quindi la prova evidente che perfino gli stessi selvaggi non sono entusiasti della propria condizione, e colgono ogni opportunità per sfuggire da essa; l'amore per il primitivismo sembra resistere solo tra i nient'affatto primitivi intellettuali romantici. E' curioso inoltre che questi teorici del ritorno alla mitica età dell'oro si rifiutino di permettere ai singoli individui la scelta tra il mercato da una parte, o la comunità castale o tribale dall'altra. Chissà perchè, la nuova età dell'oro deve essere sempre imposta con la coercizione".
I nemici della globalizzazione la temono proprio perché consegna all'uomo comune il potere di scegliere. E il più delle volte l'uomo comune fa le scelte che gli sembrano più convenienti, attraenti, moderne, affascinanti e commerciali: magari desiderando centri commerciali in ogni strada e McDonald's ad ogni angolo, anche se, per averli, nel breve termine è costretto a rinnegare la sua cultura nazionale o locale. In questo senso, l'analisi di Rothbard coincide perfettamente con le osservazioni raccolte da Thomas Friedman nel suo viaggio intorno al mondo. "Poiché tendiamo a considerare la globalizzazione qualcosa di alieno a cui un paese si connette, qualcosa di imposto dall'alto o da fuori - scrive Friedman - tendiamo a dimenticare quanto, nel profondo, sia un movimento popolare che viene dalla gente. Questo spiega perché, insieme alla rivolta contro le brutalità e le sfide della globalizzazione, vi sono tantissime persone che, come un'onda di piena, ne reclamano a gran voce i benefici. Non deve quindi meravigliare che la rivolta montante contro la globalizzazione sia costantemente temperata da un'ondata che preme per una maggiore globalizzazione: sempre più per-sone vogliono entrare nel sistema".
"La globalizzazione - conclude Friedman - emerge dal basso, dalla strada, dall'anima della gente e dalle sue aspirazioni. Sì, la globalizzazione è il prodotto della democratizzazione della finanza, della tecnolo-gia e dell'informazione; ma ciò che crea e determina questi tre fattori è l'aspirazione umana a una vita migliore: una vita con maggiore libertà di scegliere in che modo procurarsi il benessere, cosa mangiare, cosa indossare, dove abitare, dove viaggiare, come lavorare, cosa leggere, cosa scrivere e cosa apprendere".I sostenitori della globalizzazione appartengono, per la maggior parte, ai ceti medi e agli strati più poveri delle popolazioni dei paesi in via di sviluppo. E' questa la ragione per cui contro l'integrazione mondiale dell'economia non insorgono i lavoratori del terzo mondo, ma gli intellettuali ideologicizzati e i giovinastri ben nutriti delle società industriali: tutti gruppi privilegiati che, a ben guardare, non hanno capito nulla della natura popolare e di massa del fenomeno contro cui imprecano; e che, com'è loro tradizione, provano solo disprezzo per le aspirazioni e i desideri della gente comune.  

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