Hans-Hermann Hoppe
Abbasso la democrazia. L'etica libertaria e la crisi dello StatoTreviglio (BG): Leonardo Facco Editore, 2000, lire 15.000(il volume può essere ordinato direttamente all’editore: tel. 0335/80.822.80 e leofacco@tin.it).
Allievo prediletto di Murray N. Rothbard (che lo volle con sé a Las Vegas, nell’università in cui insegnò nella parte finale della sua vita), Hans-Hermann Hoppe è divenuto uno tra i principali esponenti del libertarismo – forse il maggiore, ai giorni nostri – al termine di un percorso alquanto particolare che lo ha visto dapprima presente ai corsi francofortesi di Jürgen Habermas, quindi interessato all’epistemologia fallibilista di Karl R. Popper e, infine, esponente di punta dell’ala misesiana-rothbardiana del liberalismo più radicale.
Curata da Carlo Lottieri e preceduta da un’introduzione di Raimondo Cubeddu, l’antologia Abbasso la democrazia permette di accostare tutto il rigore di questo studioso che non solo ha riletto in termini molto originali taluni punti forti della tradizione liberale (si pensi, ad esempio, al saggio sulla proprietà privata, che utilizza il pensiero di Apel per trovare nuove e più solide basi di appoggio), ma che ha pure il merito di avere offerto molte ed interessanti soluzioni ad alcuni tra i problemi più scottanti dell’età contemporanea.
In merito all’immigrazione, ad esempio, Hoppe giudica più che ragionevole che le istituzioni pubbliche introducano precise limitazioni al movimento delle persone da un paese all’altro. Diversamente da quei libertari che (come Walter Block, ad esempio) ritengono ingiusto e controproducente introdurre chiusure alle frontiere, Hoppe contrappone molto nettamente il movimento dei beni e quello delle persone.
Se un prodotto che si sposta dal Canada alla Francia interessa soltanto coloro che l’acquistano e lo vendono (e sarebbe quindi illegittimo, in una prospettiva liberale, impedirne il movimento), diversa è la situazione di un individuo che lasci Ottawa per Parigi. In questo caso, infatti, l’immigrato inizia ad usare strade, ospedali, scuole e altri beni pubblici che non ha in alcun modo contribuito a finanziare. Per questa semplice ragione, secondo Hoppe è del tutto ragionevole il comportamento di quanti chiedono restrizioni all’immigrazione e distinguono nettamente tra la libera circolazione delle merci (libero scambio) e quella delle persone (libera immigrazione).
Hoppe non ama lo Stato e ancora meno lo Stato sociale. Ma egli comprende perfettamente che finché non verrà cancellata ogni forma di protezionismo e welfare state è giusto che i cittadini pretendano misure a tutela dei loro beni collettivi. Se gli abitanti del Canton Ticino sono costretti a finanziare con le loro imposte un gran numero di istituzioni e servizi, è ovvio che essi vorranno in qualche modo limitare l’accesso a tali beni da parte di soggetti esterni: siano essi provenienti da Como o dallo Sri Lanka.
Una futura società integralmente liberale, per Hoppe, risolverà certo in modo diverso e ben più naturale ogni forma di circolazione degli individui. Si può parlare di immigrazione, infatti, solo in presenza degli Stati moderni e della loro pretesa di imporci ogni sorta di obbligo. Nella situazione attuale, così, emigrare significa trasferirsi da uno Stato all’altro, abbandonare una collettività per un’altra. In una società autenticamente libertaria quale è quella immaginata da Rothbard e da Hoppe, invece, ogni migrazione non sarà altro che un trasloco: che è quindi del tutto possibile se si paga il pedaggio stradale, se si acquista (o affitta) un’abitazione, se si accettano e rispettano le norme del nuovo condominio e così via.
Esaminando le motivazioni economiche che spingono molti ad abbandonare il loro paese, Hoppe sottolinea poi come l’eliminazione di ogni politica statalista renderebbe meno acuto il problema dell’immigrazione. Quando masse di cittadini turchi si trasferiscono in Germania risulta del tutto evidente che una quota rilevante di loro non lo farebbe se tra questi paesi non esistessero barriere doganali e se eventuali investitori europei fossero sicuri di trovare, in Turchia, un pieno rispetto dei loro capitali e delle loro imprese.
L’adozione di politiche maggiormente liberali, tanto nei paesi ricchi come in quelli poveri, eliminerebbe quindi una parte rilevante dell’emigrazione contemporanea. Ma non tutta: vi è una quota di persone che dall’Africa o dall’Asia vorrebbe comunque entrare nei paesi più ricchi, anche in virtù della costante richiesta di manodopera poco qualificata.
È proprio di fronte a tale constatazione che Hoppe formula la propria proposta, che sintetizza in questo modo: libertà di accogliere, diritto di escludere.
La sua idea è ognuno di noi ha il diritto di accogliere, ma anche quello di non accogliere, ovvero sia di non essere costretto ad una coabitazione forzata e ad un’integrazione non voluta. Nel momento in cui siamo costretti a vivere all’interno di sistemi pubblici scolastici, sanitari e così via, è del tutto evidente che chi vuole esercitare il proprio diritto di accoglienza e intende invitare in Germania o in Francia uno straniero deve allora farsi carico del fatto che quest’ultimo non gravi sulle spalle altrui. Deve almeno trovargli un lavoro e recuperargli un’abitazione.
Per Hoppe il problema dell’immigrazione sarà tanto meno grave quanto più si riuscirà a ridurre l’area della proprietà pubblica. Se la maggior parte dei beni sono privati e i servizi vengono per lo più finanziati da coloro che ne fanno suo, i rischi di essere vittime di un processo di parassitismo generalizzato calano notevolmente. Quanti oggi si lamentano dell’immigrazione sottolineano spesso che i cittadini stranieri ottengono abitazioni o sussidi che vengono invece negati ai locali: ma una società sempre più liberale, con una presenza pubblica ridotta al minimo, eliminerebbe alla radice tale problema.
Ma il volume permette interessanti riflessioni anche su molte altre vitali questioni. Un saggio, ad esempio, offre una dura critica della democrazia: un sistema che permette a "votare" sui diritti e sulle risorse altrui, con l’esito fatale che ogni libertà risulta minacciata e presto calpestata. Ma ancor più originali sono le pagine sul diritto di secessione e contro ogni forma di centralizzazione politica.
Riprendendo note analisi rothbardiane, Hoppe si mostra persuaso che il progressivo ridimensionamento delle istituzioni territoriali possa facilitare la crescita delle libertà individuali e condurci verso un universo contraddistinto da concorrenza e competizione: da una sorta di "mercato" di governi territoriali, costretti a competere, ad abbassare le imposte e ridurre la regolamentazione.
L’apologia delle secessioni "di gruppo" è comunque sempre connessa alla difesa dei diritti individuali ed alla tesi secondo cui la disgregazione degli Stati può favorire l’emergere di una società libertaria. Il fine da raggiungere è la società di mercato, ma uno strumento di grande utilità per conseguire tale obiettivo è appunto il dissolvimento dei vecchi Stati nazionali conseguente al diffondersi delle lotte secessioniste.
In effetti, nel momento in cui un paese di oltre cinquanta milioni di abitanti come la Francia dovesse lasciare il posto a centinaia o migliaia di nuove entità sorte a seguito di secessioni da Parigi, per gli individui e i capitali si aprirebbe la possibilità di optare tra un gran numero di alternative istituzionali, dato che ognuna di queste micro-realtà farebbe di tutto per attirare investimenti e contribuenti. Secessioni territoriali come quelle che hanno portato alla nascita della federazione statunitense (nella seconda metà del XVIII secolo) o dei paesi baltici (pochi anni fa) non hanno posto di per sé le basi per la nascita di un effettivo libero mercato, ma certamente hanno attenuato il rigore dei vecchi monopoli della violenza. Se su un medesimo territorio al posto di un unico Stato ve ne sono dieci o cento, è ragionevole attendersi che questi ultimi saranno costretti a rispettare maggiormente i diritti di proprietà dei singoli. Non vi è alcuna certezza in proposito, ovviamente, ma è pur vero che la logica della concorrenza è in grado di favorire soluzioni sempre più apertamente liberali.
D’altra parte, Hoppe difende la legittimità dei fenomeni di disgregazione istituzionale che interessano molti vecchi Stati nazionali proprio a partire da una riaffermazione del diritto di proprietà. Fedele alla lezione di Mises e Rothbard (che a giudizio dello studioso tedesco sono stati i due maggiori studiosi sociali del ventesimo secolo), egli si sforza quindi di esaminare alcuni dei maggiori problemi contemporanei alla luce della prasseologia e del radicalismo libertario, nella convinzione che gli ordinamenti statuali siano del tutto illegittimi e che forme nuove di convivenza sociale possano affermarsi da un momento all’altro.
Dinanzi ad una realtà politico-economica in costante trasformazione e alle molteplici difficoltà di situazioni ripetutamente "viziate" dall’interventismo statale, le analisi di Hoppe sfidano con coraggio una lunga serie di moderne superstizioni, offrendo al tempo stesso concrete indicazioni operative a quanti intendono riformare la situazione presente per creare più ampi spazi di libertà, responsabilità e libera contrattazione.