Lago
di Aral, così lo Stato uccide l’ambiente
di Giorgio Bianco |
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In nome di una presunta “tutela dell’ambiente”, i governi dei vari paesi stanno progressivamente allargando il loro controllo sull’economia e sulla società. Alla base di questo processo di dilatazione delle competenze pubbliche sta un complesso di ideologie statalistiche e collettivistiche, che considerano la proprietà privata, il profitto - in una parola il “capitalismo selvaggio” - responsabili dei più gravi problemi ambientali, dall’estinzione di specie animali all’inquinamento dell’aria e dell’acqua, e, pertanto, invocano una regolamentazione pianificata e centralizzata della gestione delle risorse naturali. Il predominio delle posizioni stataliste nel dibattito sull’ambiente è tale che una fetta significativa dell’opinione pubblica tende quasi istintivamente a identificare l’attenzione per la natura con posizioni “di sinistra”, spesso senza neppure immaginare che ai problemi dell’ambiente esistano soluzioni alternative, liberali e di mercato, di gran lunga più efficienti. Al pregiudizio secondo cui il mercato non è in grado di dare risposte adeguate al degrado ambientale, non si sottraggono, ovviamente, nemmeno gli ambientalisti italiani. “I meccanismi di mercato – scrive ad esempio l’ex ministro dell’ambiente Ronchi in un recente libro – risultano inefficaci nell’attribuire valore a beni pubblici come la sicurezza, la giustizia o l’istruzione. Per questa stessa ragione tali meccanismi tendono a produrre una sottovalutazione sia dei benefici derivanti da un miglioramento dell’ambiente, sia dei costi derivanti dall’inquinamento”. Ma, se fossero veri i presupposti di questi supporters dell’intervento statale, ci si dovrebbe allora aspettare che nei paesi ad economia socialista, dove l’odiato “capitalismo selvaggio” ha lasciato il posto ad una pervasiva regolamentazione statale e alla soppressione della proprietà privata, il livello di inquinamento sia di gran lunga minore. Al contrario, l’esperienza dei paesi del “socialismo reale” ha dimostrato che l’assenza pressoché totale di proprietà privata e l’esasperato controllo pubblico delle risorse determina livelli di inquinamento e di degrado ambientale nettamente superiori rispetto ai paesi occidentali. Di esempi se ne potrebbero citare moltissimi, dal prosciugamento di un terzo del Mar Caspio alla pressoché totale scomparsa della fauna ittica nei principali fiumi (Volga, Ob, Ural) fino alle piogge acide della zona industriale di Katovice (Polonia), forse l’area più inquinata del mondo. In particolare, recenti notizie hanno riportato l’attenzione su uno dei più sconvolgenti disastri ambientali di tutti i tempi: la lenta ma inesorabile morte dl lago di Aral, una immane tragedia iniziata quando, nei primi anni Sessanta, l’Unione Sovietica decise di coltivare cotone nei pressi del lago. I pianificatori sovietici deviarono l’acqua dei due principali fiumi che alimentano il lago, il Syr Daria e l’Amu Daria, per alimentare 13.000 chilometri di canali, 12.000 chilometri di tubi e 26 grandi contenitori d’acqua. Ma l’abbondante uso di agenti chimici e i canali costruiti per l’irrigazione finirono per compromettere in modo gravissimo, e forse irrimediabile, l’ecosistema del luogo. Da un lato, l’uso massiccio di fertilizzanti e di pesticidi ha determinato l’esaurimento e la sterilizzazione dei suoli. Dall’altro, lo spreco incontrollato dell’acqua ha finito per ridurre del 50% l’estensione del lago, mentre il volume complessivo del bacino idrico è sceso addirittura del 75%. Il letto del fiume Amu Darya, dal canto suo, è stato sbarrato da una diga fuori della città di Muynak e, dai 900 metri di un tempo è ormai ridotto a soli 300. La costa è arretrata dalle rive del lago di 80 chilometri, e in alcuni punti addirittura di 120, ma, anche là dove esiste mare, l’acqua è diventata quattro volte più salata, devastando la flora e la fauna presente. Quello che un tempo era il fondale del quarto specchio d’acqua interno del mondo è diventato, grazie ai brillanti pianificatori comunisti, un deserto di sale e di pesticidi, che il vento getta addosso alle popolazioni vicine e alle coltivazioni, con effetti devastanti sulla pesca, sull’agricoltura, e, soprattutto, sulle condizioni di vita degli abitanti. Così, in questa zona in cui un tempo prosperavano la pesca e il commercio, l’unico tipo di pesce sopravvissuto è il pesce persico, e delle 11 specie di crostacei che vivevano nel mare d’Aral nel 1960, solo una è riuscita a resistere alla crescente salinità delle acque. Una parte dei suoli inariditi e salinizzati, resi sensibili all’erosione dei venti, è stata trasportata dalle correnti verso le terre agricole delle regioni vicine, che a loro volta si sono rapidamente degradate. Ma soprattutto, i tassi di mortalità infantile di questa zona sono doppi rispetto a quelli medi del centro Asia, e risultano i più alti di tutta l’ex Unione Sovietica. Anche i tumori alla gola, le epatiti e le infezioni virali hanno avuto una diffusione senza precedenti, dal momento che la salinità dell’acqua disponibile è passata da 10 a 30 grammi per litro. Gli oltre 1,4 milioni di abitanti della regione del Karakalpak, nell’Uzbekistan, si trovano così a fronteggiare uno dei più gravi disastri ambientali di tutti i tempi. Tragedie come questa dimostrano che le catastrofi ambientali, contrariamente a quanto sostengono gli ecologisti di sinistra, non sono determinate dal mercato né dalla proprietà privata, ma, al contrario, dalla progressiva statizzazione del patrimonio ambientale. La retorica statalista che vorrebbe affidare a burocrati e funzionari pubblici il compito di difendere le risorse naturali dalla “rapacità” e dall’egoismo dei privati, infatti, passa costantemente sotto silenzio il fatto, in realtà di solare evidenza, che ad essere inquinate, in realtà, sono per lo più le risorse pubbliche: l’aria, il mare, gli oceani, i fiumi, ecc. Ciò avviene perché, come ha dimostrato il biologo Garrett Hardin nell’articolo “La tragedia dei beni comuni” (1968), quando ci si trova di fronte ad un regime di libero accesso, non limitato da una chiara definizione dei diritti di proprietà, le risorse sono esposte al degrado e al sovrasfruttamento. In sostanza, il principio, caro a tante anime belle dell’ambientalismo anticapitalista, secondo cui le risorse naturali devono essere “patrimonio di tutti”, è destinato a sortire effetti disastrosi, dal momento che, in una situazione in cui ciascuno può accedere indiscriminatamente ad una risorsa, i benefici del suo abuso sono raccolti unicamente dal fruitore individuale, mentre i costi sono dispersi fra tutti gli utilizzatori. Già San Tommaso, del resto, scriveva che “ciascuno è più sollecito nel prodigarsi a vantaggio di ciò che appartiene esclusivamente a lui piuttosto che per ciò che appartiene a tutti o a più persone”. E’ davvero sorprendente la cecità degli ecologisti alla Edo Ronchi di fronte a questa verità in fondo elementare, e ampiamente radicata nel senso comune: chiunque, probabilmente, attraversando un parco pieno di cartacce e lattine, si è domandato almeno una volta: “ma a casa loro faranno allo stesso modo?” In realtà, la risposta è ovvia: no, a casa loro non fanno così. E non fanno così appunto perché è casa loro, e quando si possiede qualcosa, si hanno anche chiari i vantaggi che derivano dal prendersene cura. Non a caso, là dove sono state sperimentate soluzioni di mercato, fondate su una chiara definizione dei diritti di proprietà, i risultati sono stati spettacolari. Esemplare, in questo senso, è il caso degli elefanti africani: mentre la maggioranza dei paesi africani, Kenia in testa, hanno creduto di poter salvare tale pachiderma attraverso la messa al bando del commercio di avorio e norme draconiane nei confronti dei cacciatori di frodo, lo Zimbabwe, e in seguito altri paesi dell’Africa meridionale, hanno ritenuto che l’affidare gli elefanti alle tribù sarebbe stato molto più efficace. Il risultato è che in Kenia, a dispetto di leggi severissime, i cacciatori di frodo uccidono in media 300 elefanti al giorno, e gli elefanti – secondo le stesse autorità – rischiano di estinguersi entro pochi anni. Al contrario, nello Zimbabwe, attraverso una gestione proprietaristica degli elefanti, tesa a far sì che a beneficiare dei vantaggi derivanti dalla gestione degli animali siano anzitutto coloro che con essi vivono a contatto, e ne sopportano anche i costi, il bracconaggio è diminuito del 90%, e il numero di esemplari è aumentato addirittura del 40%. Giorgio Bianco |