Enron, il fallimento del primato della politica

Lo scandalo Enron continua a rimbalzare sulle pagine dei giornali: il capitalismo ha il cancro, scrive Paul Krugman (ex pagatissimo consulente della stessa Enron), e fioccano diagnosi e prognosi e improvvisate autopsie.

Poco importa se un sondaggio “Gallup” fa notare che gli americani, dopotutto, hanno prestato scarsa, scarsissima attenzione alla faccenda: i media sublimano un piacere morboso, feticistico quasi, nell’annunciare il patatrac imminente del capitalismo globale. E penne importanti (da George Will a Geminello Alvi) si compiacciono nel dichiarare che, ancora una volta, il mercato avrebbe fallito.

Non c’è affermazione più truffaldina, e ridicola, di questa. Il mercato non fallisce: e ammetterlo non implica nessun giudizio di valore. Semplicemente, il mercato è un insieme di segnali (quelli che emergono attraverso il sistema dei prezzi) e in quanto tale non può fallire. Il mercato è il cruscotto della macchina, con la spia rossa che si accende quando finisce la benzina – non è sua la colpa se rimanete a secco in mezzo alla strada.

Le radici della bancarotta del colosso energetico non affondano nella presunta sregolatezza dell’economia americana, in quella libertà che sarebbe “come una volpe sguinzagliata in mezzo alle galline” (lo disse Raùl Castro, fratello di Fidel). Questa è una tesi semplice, limpida, affascinante. Un’azienda fallisce? Scoppia una bomba? Erutta un vulcano? Sarà colpa del mercato, della globalizzazione, dell’avida ingordigia del capitalismo selvaggio.

La realtà è più complessa. Se il mercato non può fallire, la sopravvivenza stessa del capitalismo è messa costantemente a repentaglio dall’intervento statale in economia. Un po’ perchè lo Stato finisce per falsare, per distorcere quei “segnali” (rilevati dal mercato) di cui gli imprenditori hanno bisogno per fare bene il proprio mestiere: è per questo motivo che si verificano le recessioni. Un po’ perchè, sostanzialmente per osmosi, anche gli operatori economici finiscono per essere assuefatti da quella che è la regola di vita della burocrazia: la corruzione.

Non è possibile essere eletti, non è possibile entrare in Parlamento se non si ha una vocazione naturale alla corruzione. Nell’agone elettorale, vincono (inevitabilmente) quegli individui che sanno sviluppare al meglio i propri istinti politici (l’istinto di mentire, l’istinto di rubare). E siccome il potere che si trovano a gestire è immenso, e può disporre della vita e della morte di un’impresa, i grandi manager debbono trattare con loro giorno e notte. Ne consegue che se a capo di un’ azienda un tempo doveva finirci chi sapeva fare profitti, oggi le posizioni più importanti nella gerarchia vanno a quanti sanno affinare i propri istinti politici, anziché imprenditoriali. Bisogna comprare dai burocrati il proprio diritto a sopravvivere, prima ancora di porsi il problema di come avere successo.

Che cos’è lo scandalo Enron? E’ il primato della politica che ha drogato le forze vitali dell’economia. Il dramma non è che la compagnia di Kenneth Lay fosse in passivo: una società come Amazon (la più importante libreria sul web) è costantemente in passivo, eppure è trasparente, e i suoi azionisti “credono” in quel passivo, continuano ad investirci certi che sia un prodotto vincente, sul lungo periodo.

Enron ha scelto un’altra strada: ha scelto di mendicare il proprio successo a Washington, di investire in politica anziché in ricerca. Ha scelto di vivere di privilegi anziché di innovazione. E per consentire questa sopravvivenza artefatta, inutile, bugiarda, i suoi manager hanno truccato le carte, hanno barato sui conti. Non si sono limitati a corrompere questo o quel papavero: si sono corrotti anch’essi, vittime del proprio stesso gioco. Hanno assorbito le logiche dello statalismo, sono diventati dei funzionari più che degli uomini di impresa: e il tanto bistrattato mercato ha detto “no”. Ha sanzionato con spietata efficienza questo comportamento perverso e immorale.

Non ha fallito, tutt’altro: ha dimostrato che, a dispetto di quella desertificazione morale che è figlia legittima dello Stato massimo, alla lunga una strategia del genere non può pagare.

C’è un altro luogo comune che bisogna smentire: è quello che vede nei lavoratori della Enron le povere vittime di tutta questa faccenda. E’ senz’altro vero che, siccome il 62% delle loro pensioni consisteva di azioni Enron, non si preannuncia per loro un avvenire particolarmente roseo.

Ma è altrettanto vero che, come ha notato Ramesh Ponnuru sul “National Review”, essi sono complici a tutti gli effetti di quanto accaduto. Potevano disfarsi di quelle azioni, potevano venderle: l’avessero fatto negli anni Novanta, avrebbero incassato un mucchio di quattrini.

Non ci hanno pensato allora, e neppure dopo – nemmeno quando le azioni sono crollate dai 90 dollari dell’agosto 2000 a 16.34. E in quell’impresa ci lavoravano, conoscevano a menadito i suoi problemi.

Ecco, questa è una testimonianza spaventosa della demoralizzazione della società, che è l’inevitabile effetto collaterale dello statalismo: quelle persone sapevano, ma hanno chiuso gli occhi, hanno fatto finta di niente, sicuri che tutto si sarebbe aggiustato proprio grazie al filo rosso che legava la Enron al Palazzo. Una certezza che li ha alleggeriti persino della responsabilità di avere a cuore le proprie famiglie e il proprio futuro. La mentalità burocratica è un virus: dilaga e uccide. Ammazza la creatività, ammazza l’ingegno, ammazza la voglia di fare. Ci lascia soli con un incubo. Svegliarci, un giorno, in un mondo di impiegati statali.

Alberto Mingardi

tratto da Libero

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